Fukushima, il danno alla Natura

1028
nucleare rifiuti
Tempo di lettura: 4 minuti

L’intera vita acquatica e gli ecosistemi di un vasto tratto di oceano rischiano di essere contaminati per sempre ricreando una Cernobyl sottomarina

Ormai della tragedia che ha colpito il Giappone con i disastri nucleari dopo il terremoto ed il susseguente tsunami si è già detto abbastanza. La tragedia evidente sta proprio nella constatazione che l’intellegibile sistema umano, tecnologicamente avanzato, del paese nipponico ha paradossalmente fallito nel prevedere, controllare e gestire tre dei più «naturali» degli eventi catastrofici. Un terremoto, uno tsunami ed un incidente nucleare hanno messo in ginocchio uno dei paesi più sviluppati al mondo, con un livello di democrazia e di scambio di informazioni ritenuto trasparente e finalizzato al benessere dei cittadini e con un approccio alla tragedia definito dai più, stoico.

Tre punti sui quali, come sempre accade, si è stati smentiti in lapalissiano imbarazzo da uno scossone del pianeta. La tecnologia ha fallito miseramente, la democrazia ha raggirato i suoi elettori con informazioni false per minimizzare i pericoli ed i giapponesi sono caduti nella più eloquente disperazione. Oltre ai già compianti morti, milioni di persone sono entrate a contatto con le polveri radioattive e si aggiungeranno alla lunga lista dei decessi provocati da questa evidente catastrofe.

Ciò che, invece, è nascosto agli occhi ed alle orecchie del mondo, dai media e dalle autorità è l’altra, ancor più spaventosa faccia della medaglia. Che però, come sempre, interessa meno perché sembra non riguardare l’uomo direttamente. L’inquinamento da percolamento di elementi radioattivi in mare e per deposizione dei gas e delle polveri sui suoli. A farne le spese per prima è la Natura, ma presto toccherà anche a quell’uomo che spesso dimentica di esserne parte.

I livelli di radioattività di molti ortaggi tra cui spinaci e riso venduti nei mercati del Giappone e raccolti nei campi distanti anche decine di chilometri dalla centrale sono di molto superiori alle concentrazioni limite per la salute umana.

I primi ad esserne colpiti sono i bambini che assorbono e trattengono i contaminanti nelle vie respiratorie ma, soprattutto, attraverso il tratto digestivo. Alimentarsi con cibi con tali livelli di radioattività aumenta notevolmente il rischio di sviluppare malattie come il cancro al colon ed alla tiroide.

Allo stesso tempo le donne incinte rischiano di trasferire per via placentale gli elementi radioattivi e causare nel feto teratogenesi, che oltre a portare gravi mutazioni, spesso conduce alla morte prematura del bambino.

Le emissioni di Fukushima riguardano in particolare elementi come il Cesio-137 e lo Iodio-131. Il contatto diretto con questi elementi radioattivi penetranti è causa di gravi patologie. I bambini sono particolarmente colpiti dallo Iodio-137 che causa tumori alla tiroide e, seppur con un emivita di otto giorni, questo elemento si muove velocemente attraverso l’organismo e può facilmente essere ingerito se depositatosi su frutta e verdura. In più le carni ed il latte prodotti dai bovini potrebbero contenere livelli ancor maggiori rispetto a quelli dei cibi di origine vegetale a causa della bioaccumulazione lungo la catena alimentare. L’isotopo radioattivo del cesio, poi, ha un emivita di ben 30 anni e questo dato non può rassicurare alcun abitante dell’area di ricaduta dei gas e delle polveri.

Quanto nascosto, invece, forse perché posto sotto la superficie dello sguardo dell’opinione pubblica, è il gravissimo livello di inquinamento che la costa del Pacifico settentrionale e le acque profonde dell’oceano stanno subendo e subiranno a causa della fuoruscita di plutonio dovuta alla parziale fusione del nocciolo, che le autorità giapponesi continuano a negare.

L’intera vita acquatica e gli ecosistemi di un vasto tratto di oceano rischiano di essere contaminati per sempre ricreando una Cernobyl sottomarina. I molluschi e gli animali bentonici sono i primi ad assorbire mediante gli apparati filtratori le sostanze radioattive e quindi i primi a morire. Il plancton ingloba elevate quantità di iodio, che finisce nelle catene alimentari dei pesci pelagici, come il tanto amato tonno rosso, spostando la contaminazione a centinaia di chilometri dalla costa. La fuoruscita di plutonio in mare è stata ridimensionata dalla Tepco e dalle autorità giapponesi in quanto, a loro dire, colpisce una zona vietata alla pesca. Tale incredibile affermazione conferma quanto ignorante e demagogica sia la risposta degli organismi privati, responsabili, e pubblici, portatori di interesse, alle problematiche ambientali. Con tale rassicurazione si omettono due aspetti fondamentali di questa tragedia, nascosta nella tragedia evidente.

Il primo è che la vita marina e la tutela degli ecosistemi è da garantire a prescindere dall’esistenza di zone di pesca e che la responsabilità dell’inquinamento in mare deve essere commisurata non tanto in base al danno per un comparto economico quanto per un sistema ecologico. La seconda ed ancor più grave omissione è relativa all’analisi di come i processi di magnificazione biologica (mediante i quali le sostanze passano, accumulandosi di anello in anello nelle catene alimentari, sino a raggiungere livelli massimi negli organismi ai vertici, quelli di cui si alimenta in particolare l’uomo), possano compromettere territori ben più vasti della minima area di diffusione del contaminante. Un mollusco che ha filtrato sostanze radioattive nei pressi della centrale può essere consumato da un pesce bentonico, che a sua volta viene mangiato da uno pelagico. Il trasferimento rapido non permette il decadimento prima che l’ultimo anello possa spostarsi in aree di pesca o in siti anche molto distanti dal punto di sversamento. In questo modo le sostanze radioattive si diffondono e, distruggendo ecosistemi ricchi di biodiversità come quelli del Pacifico, raggiungono, prima o poi, anche l’uomo.

Tra le tante tragedie derivanti dal terremoto in Giappone, come al solito, ce n’è una che volontariamente ignoriamo. Quella che riguarda la nostra madre Terra. Una tragedia che va in scena dall’avvento dell’«uomo Prendi»*, dell’uomo agricoltore, troppo ambizioso per lasciare parte di quelle inestimabili e gratuite risorse anche agli alti abitanti del pianeta. Troppo divino, a suo dirsi, per attendere i ritmi della Natura. Troppo intelligente per sottostare alle leggi del Tutto. Ma quando un cancro, che pur non sa di esserlo, si diffonde in mille metastasi ed attacca gli organi vitali di un organismo, solo due sono le prognosi. O muore l’organismo, perché non può sopportare tutto il male, o quell’organismo, forte e vitale, reagisce eliminando il cancro. Se tra le cure alternative l’uomo cercasse di ritornare benigno, forse entrambi, uomo-cancro e Terra-madre, sopravviveremmo.

* È una definizione dell’antropologo Daniel Quinn in Ismahel, quando distingue i Lascia (cacciatori-raccoglitori) dai Prendi (agricoltori).