Ecco come muore una foresta

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Cronaca della distruzione del bacino del Congo. Si distruggono alberi plurisecolari per fabbricare bare di mogano e parquet nelle case del civile Occidente

Rosso come la polvere. Il vento soffia e cancella le tracce di tir che come formiche in guerra trasbordano attraverso il nero cuore africano «cadaveri» dalla foresta. Li vedi fare su e giù dal centro selvaggio della giungla, alle segherie, per poi dirigersi al porto ad imbarcare il tutto. Trasportano tonnellate di natura concentrate in omaccioni di 600 anni. In questi alberi è racchiusa la storia dell’umanità. Loro, unici custodi del tempo.

La foresta muore. Nel silenzio generale. Fa clamore qualche appello delle Ong, ogni tanto per richiamar fondi. Fa scalpore qualche dato dell’Onu, ogni tanto per lavar le coscienze. Ma nulla cambia. La foresta muore. Muore come il gorilla di pianura occidentale braccato e trucidato per farne amuleto. Muore come l’elefante pigmeo, abbattuto per venderne l’avorio. La distruzione della foresta è anche questo.

Si inizia creando le strade. Chilometri e chilometri di polvere dal colore del sangue si insinuano nei meandri più reconditi della foresta. Si dipanano in dicotomico sviluppo frammentando in migliaia di quadrati, rettangoli, rombi ed altre abominevoli figure geometriche il continuo della natura. La strada è il primo passo. Da qui in poi non vi è più possibilità di ritorno. La strada porta i tir e con essi le compagnie del legname. Europee e cinesi per lo più. Molte italiane.

Le aziende italiane all’interno della Cemac compiono la loro opera nel sud-est del Camerun . Alcune francesi in Centrafrica, altre cinesi in Congo. Si sono spartite la posta. Ognuno taglia un pezzetto col benestare del governo che incassa e sta zitto. Rari, rarissimi i controlli. Qui la legge la fa chi ci lavora. E se ci lavori, se tagli le foreste, decidi tu come e dove farlo.

Chi pensava che le foreste primarie fossero in pericolo si sbagliava. Non perché non lo siano, ma perché non ce ne sono più. Almeno nel bacino del Congo di vergini non resta che qualche lembo qua e là. Il resto con taglio a raso o in maniera selettiva è stato violato dall’ingordigia umana. Per farne cosa poi? Casse da morto, parquet e mobili che vanno ad abbellire l’eterno riposo francese, il salotto italiano, il pavimento giapponese. Che si sappia gente dove si và a morire. Si muore dentro la morte. La foresta muore.

Ogni giorno, ogni dieci minuti un tir con tre, quattro immensi alberi di mogano, frakè, sapelli, iroko e tanti altri nomi che insieme vogliono dire «foresta», solcano a velocità impressionante, mietendo vittime tra i bambini dei villaggi e gli animali che si arrischiano nell’attraversamento, le arterie che uniscono i cantieri forestali alle città. Qui gli occidentali fanno da padroni e dettan legge. Si costruiscono fortezze, villaggi dove alloggiare gli operari locali che trattano come schiavi, segherie, discariche. Devian fiumi, prelevano le acque ed assumono il controllore che deve controllarli. A decidere quali alberi debbano essere abbattuti nel rispetto dei regolamenti forestali degli Stati del Cemac, la confederazione del bacino del Congo, sono ufficiali governativi che a tutti gli effetti vivono e lavorano nelle sedi delle aziende.

Dicono loro cosa abbattere ed in cambio ricevono… Sui bordi delle strade che si inoltrano nel folto della foresta trovi decine e decine di alberi abbattuti, alcuni alti anche 40 metri. Molti hanno più di 500 anni. Sul suolo spesso, vittime dei tir che sfrecciano per rispettare le consegne dei committenti «del Nord», centinaia di carcasse di uccelli, scimmie, serpenti e piccole gazzelle. La strada, quindi. Il taglio delle foreste ed il bracconaggio.

Arrivano dagli Usa, dalla vecchia Europa e da poco anche dall’est. Vogliono emozioni vere. Presi come veri imbecilli ed accompagnati mano nella mano sino ai giacigli dei gorilla o alle pozze degli elefanti lungo le stesse vie create per la deforestazione. Arrivano lì, con qualche pigmeo pagato per condurli, imbracciano l’ignobile fucile e sparano. Al suolo l’ombra esanime dell’imponente pachiderma, gli occhi disperati del grande antropomorfo. È legale, certo. La caccia che si autorizza. E tutto il resto? E quei bufali, quelle antilopi, quelle scimmie catturate o uccise per poter essere vendute nei mercati delle città o esportati nei negozi di animali occidentali? Questi non sono nei numeri ufficiali dei governi, quindi non esistono.

C’è la legge e quindi è legale

C’è una legge e quello che si fa seguendo la legge è buono. È legale, anche, abbattere migliaia di alberi centenari che cadendo trascinano con sé pezzi di foresta, il cui trasporto significa strade, mezzi pesanti, pale, ruspe. La cui eliminazione, seppur selettiva, significa la perdita della struttura della foresta, la cancellazione di habitat fondamentali per gli animali, la possibilità di infiltrazione di specie infestanti e l’arrivo di malattie per le altre specie. Beh! tutto questo è legale. Anzi lo approviamo, qui nel «mondo ricco» come se fosse «sostenibile». Gli abbiamo dato addirittura un marchio. Lo chiamiamo Fsc, Pefec, etc. In altre parole «gestione sostenibile delle foreste». Ma come si può parlare di gestione delle foreste, tanto più sostenibile? Come si gestisce una foresta tropicale che per millenni si è tranquillamente organizzata da sé? È la stessa atavica presunzione che ci fa credere nello «sviluppo sostenibile». L’antitesi del linguaggio che affranca le coscienze. Certo meglio un taglio selettivo controllato dall’Fsc che una deforestazione a raso. Però quanto danno crea quell’abbattimento. Perché non è tanto nel singolo albero abbattuto il problema, ma nel fatto che intorno ad esso fanno da corollario infinite distese di strade ricavate nella foresta, gru, ruspe e tir in continuo movimento, segherie, discariche, bracconaggio, sfruttamento dei lavoratori e distruzione dei popoli indigeni. Dunque, come può essere sostenibile tutto questo? Come possiamo metterci i paraocchi e credere che ciò che il legislatore di turno, magari messo a capo di un governo da interessi sovranazionali e coloniali (vedi il caso della Francia con le sue colonie nell’Africa dell’Ovest), sancisce che ciò che è legale sia davvero il bene per la natura ed i popoli che in essa vivono? Non vi è alcuna sostenibilità, neppure nel taglio selettivo delle foreste primarie. Ogni accesso umano, ogni sforzo fatto per raggiungere quell’albero che diventerà armadio, comodino, pavimento crea una tale scia di distruzione e sfacelo che nessun marchio dovrebbe garantirne la legittimità.

Inoltre, l’abbattimento delle essenze commerciali, essendo queste proprio gli alberi più alti, vecchi e grossi crea uno stravolgimento irreparabile nelle dinamiche degli ecosistemi. È come se ad un’abitazione togliessimo la colonna portante. Quel che resta è un cumulo di frammenti dell’abitazione originaria. E questo è quel che resta oggi delle foreste primarie. La nostra illusione di proteggerle mediante marchi o certificazioni svanisce dinanzi alla constatazione che non si può metter mani nelle dinamiche naturali senza creare sconvolgimenti degli equilibri, che nel caso delle foreste tropicali sono stati raggiunti dopo millenni.

Stiamo distruggendo la nostra casa

In quelle foreste, le seconde al mondo per estensione, del bacino del Congo si sta mettendo in scena il dramma dell’umanità. Stiamo poco alla volta cancellando le tracce del nostro passato, della nostra memoria ed eliminando le colonne portanti della nostra casa. Il passato lo si cancella abbattendo meravigliose e possenti creature che sorreggono il cielo e legano con un intreccio di connessioni la vita del suolo. La memoria la si distrugge costringendo i pigmei Bakà, uno degli ultimi popoli della foresta, ad uscire forzatamente da questa, «per la loro sicurezza».

Chi sperava ancora, dopo la laurea in antropologia di incontrali, dovrà accontentarsi di qualche anziano che vive ora lungo le strade costruite dalle aziende del legname e si ubriaca tutti i giorni con la birra che acquista con i soldi che le aziende stesse gli passano «come misura di compensazione».

Ovviamente, quando la tua vita è la foresta e questa ti vien distrutta sotto gli occhi, il minimo che puoi fare è ubriacarti. Dite addio, cari antropologi, allo studio dell’indigeno. Dite addio ai meravigliosi pigmei, custodi dell’Africa. Dite grazie alle aziende del legname che aprono le porte a tutto questo frantumando le ultime foreste vergini del pianeta, ma anche alle associazioni che passano per buoni assurdi palliativi. Dite grazie alle «organizzazioni umanitarie» che si occupano di garantire ai pigmei espulsi dalla loro foresta l’assistenza medica, la scuola per i bambini, la chiesa ed un bell’alloggio con porte e finestre. Cosa se ne può fare un popolo che si cura da millenni con le piante selvatiche, che va a scuola sin dalla nascita tra i fiumi e gli alberi della foresta, che ha fatto degli elementi, degli animali e delle piante i suoi dei e della natura la sua cattedrale e che vive in piccole (sostenibili queste sì) capannine a cupola fatte di foglie, di tutte queste baggianate occidentali? Come ci sentiamo buoni a donar soldi a chi si impegna per garantire il benessere degli altri. Ma che benessere è? Perché abbiamo ancora una volta la presunzione di sapere quale sia il benessere degli altri? Siamo poi così certi che in Europa ci sia quel benessere che manca ai popoli delle foreste dell’Africa? O, forse, più onestamente dovremmo ammettere che il nostro è solo un tentativo di lavarci la coscienza garantendo diritti che questi popoli non hanno richiesto, per discolparci dall’avergli distrutto la loro vera casa?

Diciamo anche grazie a tutte quelle altre realtà, dai governi alle Nazioni Unite, alle «associazioni ambientaliste» che si battono per la «gestione sostenibile» perché grazie a questa fandonia assicurano all’opinione pubblica che il taglio selettivo e sostenibile delle foreste primarie sia meno dannoso del taglio a raso. Spiegate a questi signori in giacca e cravatta che organizzano i programmi «copia e incolla» delle proprie organizzazioni e che raramente, o forse mai, han messo piede lì dove si realizza quello di cui loro discutono, che non è interesse ecologico quello di tagliare selettivamente una foresta, ma solo economico.

Quando sai che non è l’agricoltura che ti interessa instaurare, ma il costante commercio di legno pregiato, non vai di certo ad abbattere tutta la foresta. I costi sarebbero esorbitanti ed in qualche mese non avresti più alberi da commerciare. E così, solo per mero risparmio, vivisezioni la foresta pezzo per pezzo, palmo a palmo, sino a quando l’ultimo vecchio centenario è stato abbattuto. Crei le strade, elimini gli indigeni, favorisci il bracconaggio, modifichi indelebilmente la struttura dell’ecosistema e poi spacci il tutto per «certificato».

Vadano al rogo i «certificatori» e chi consente tutto questo dall’alto dei suoi uffici condizionati e delle sue scrivanie, paradossalmente, in mogano. Vadano al rogo come le infinite tonnellate di tronchi accatastati dalle aziende che marciscono nell’attesa di essere tagliati e venduti e che vengono bruciati tutte le notti rendendo un inferno di fiamme l’orizzonte africano. Vadano al rogo insieme agli arroganti signori del legname che partiti col carico di mazzette dall’Italia, dalla Francia o dalla Cina, arrivano nell’Africa nera per portare l’apocalisse.

Parlano da schiavisti. Agiscono da sterminatori senza scrupoli. Spengono le proteste nel sangue. E finito l’affare van via lasciando nella disperazione la gente ed il suo ambiente devastato.

Per cosa? Per morire nel mogano con la coscienza a posto, certi di aver camminato a piedi nudi per tutta la vita su di un parquet fatto di Iroko certificato, in terre dove le associazioni umanitarie si prendon cura dei popoli indigeni e quelle ambientaliste assicurano la sopravvivenza delle foreste?

Allora, forse è il caso di smetterla coi falsi moralismi, col sentirsi sempre con la coscienza a posto ed è giunto il momento di tentare di fare il tutto per tutto affinché quell’ultimo popolo indigeno sopravviva, quell’ultimo lembo di foresta non venga sconvolto.

Allora, forse è il caso di morire in una cassa in pioppo coltivato o sepolti direttamente nella terra che ci ha generati; di comprare mobili usati (o dell’antiquariato come ci piace dire) e riciclare il più possibile tutto; di camminare su pavimenti poveri di pietra, ma puliti davvero in tutti i sensi e di smetterla di credere e dar soldi ad associazioni che ci illudono di «fare il bene degli altri» e ci fanno sentire «brave persone» perché passiamo all’altro mondo in una bara in «Fsc». Certamente le nostre piccole azioni quotidiane servono molto più di quei 30 euro donati a Natale per sentirsi più buoni. (R.V.G.)