I nostri interventi sui territori, modificano le relazioni complesse fra i fenomeni naturali (vita umana compresa) e incidono, quindi, sulla tenuta degli equilibri ambientali. È allora necessario agire con intelligenza non solo per non sottovalutare l’essenzialità fisica dei processi vitali, ma ancor più perché l’uomo possa indirizzare, pur prudentemente, le sue potenzialità creative (sulla base delle sue esperienze, analisi e prove critiche costruttive) a favore di significativi e verificabili obiettivi di progresso umano.
I tempi più recenti della globalizzazione sono stati, invece, invasi da un deviante pragmatismo, incapace anche solo di immaginare un progresso umano, che ha portato ad affrontare le contingenze del vivere umano «partendo da tre» (un modo che permette ad alcuni di saltare le numerazioni di precedenti avvenimenti e di vantare prepotenti ed estemporanee pretese senza subire le fastidiose interferenze di un passato che dovesse portare a riconoscere anche le giuste ragioni di altri e di molti). È un pragmatismo che offre un mondo senza storia o che, quantomeno, considera il passato come luogo di percorsi già segnati da anonimi «tre primi passi iniziali» che si assume siano privi di significati o che siano da non richiamare perché già fatti nella giusta direzione (pur se non esplicitata o forse messa a tacere perché impresentabile).
È un pragmatismo imbonitore che fa immaginare una prodigiosa sostenibilità, mentre è proprio esso stesso origine di una paralisi politico-culturale precostituita che non viene percepita (per l’assolutezza con la quale viene imposta), ma che è stata (e continua ad essere) causa sia dell’attuale disordine economico-finanziario delle aree del mondo occidentale e occidentalizzato, sia dei modi di assumere e replicare, strutturalmente e funzionalmente, i riferimenti dell’aggregato ideologico a fondamento del liberismo e di quel mercato globale dei consumi che procura immensi danni all’ambiente e ne compromette, anche irreversibilmente, gli equilibri vitali per tutti gli esseri viventi della Terra.
Per stigmatizzare la grande capacità, di distruzione e di morte, delle devastanti invasioni degli Unni in Europa, Attila, il loro re e condottiero, venne soprannominato «flagello di Dio». È una metafora che potremmo usare ancora oggi, se consideriamo la portata dei danni ai territori e le cause di morte da addebitare a molte tipologie di impianti industriali. Forse nessuno oggi si vanterà, come si dice facesse Attila, di «non far più crescere l’erba là dove passava», ma è certo che anche nelle discariche (che raccolgono l’invadente e triste fine delle preziose risorse naturali trasformate in rifiuti dei nostri consumi usa e getta) l’erba non cresce più e crescono invece i nostri disagi e le nostre patologie.
In una gestione pragmatica degli eventi e dei problemi quotidiani, tutti impegnati nel «fare» immediato e nel procurare patenti di sostenibilità ad attività che sostenibili non sono, ogni diversità di tradizioni, di comportamenti e di modi di pensare dell’uomo, si presenta, oggi, cancellata nella sua originalità e appare, invece, già rielaborata e riscritta nei termini devitalizzati di un adeguamento all’uniformità e nei termini cogenti di vincoli assoluti. I meccanismi senza alternative del mercato dei consumi, che governano il nostro mondo globalizzato, tendono, infatti, a eliminare ogni diversità in quanto ostacolo ai maggiori profitti conseguibili con economie di scala e con la standardizzazione di prodotti destinati ai consumi di massa.
L’inibizione di vere alternative, ad una vita orientata e alimentata univocamente dalla ricerca dei profitti (da accumulare o da destinare ai consumi), è perseguita con una suggestiva strategia ideologica che convince proponendo a tutti mete di successo o occasioni per fare fortuna (che, in realtà, sono disponibili solo in pochi, pur se emblematici, casi). Ma in questi stessi casi, pur improbabili, ciascuno può identificarsi e sperare in un proprio successo e, soprattutto, può ricostruire una propria immagine, coerentemente inserita in un contesto di attesa di un benessere economico previsto come imminente. È un percorso reso verosimile e confortato dai riscontri univoci dei quali solo le ideologie sono capaci, è un percorso che pervade, omogeneizza, presidia e muove ormai ogni attività umana, ogni cultura, ogni fede religiosa, ogni espressione e volere della politica, ogni valutazione, è un percorso che offre occasioni di diffusione e conservazione di un pensiero unico (oggi è quello liberista) che si è prepotentemente affermato (senza forme democratiche di partecipazione e di scelta) nella realtà dei nostri giorni.
Tutti questi sono, di fatto, vincoli imposti senza alternative, a quella parte ampia, delle popolazioni delle nostre società moderne, culturalmente ed economicamente più deboli. Sono vincoli che non prevedono alternative, neanche per il nostro futuro, perché l’imperante pensiero liberista, nel suo liberismo liberticida, sostiene, semplicemente, che «non ci sono alternative» («There Is No Alternative», in sigla: TINA) ed opera solo in questa direzione [vedi: Costretti a giocare al mercato libero, al paragrafo La politica, in Né Vecchio Né Nuovo, «Villaggio Globale», anno XV, n.57, marzo 2012].
Diversamente dal senso attribuito da questo disperante enunciato, le alternative, invece, esistono, ma sono state tutte sottratte, neutralizzate e, ancora oggi, continuano ad essere demolite tutte le opportunità che creatività e competenze umane potrebbero rendere disponibili. Ci troviamo, di fatto, in un mondo a senso unico nel quale i valori riconosciuti sono solo quelli misurati dal denaro per produrli, per possederli, per trasformarli in oggetti e occasioni per fare profitti economici o per fare una deformata «beneficienza» (attività tutta ridotta a settore di investimento necessario per dare sostegno morale a un «fare profitti» che ne è strutturalmente privo). Il denaro diventa, così, un fine e contiene, in sé, il conseguente e inevitabile compito di massimizzare i profitti. È questo un meccanismo che blocca quei processi di innovazione sostanziale, che l’uomo riconosce, nel profondo delle proprie aspirazioni, come processi creativi che danno senso alla propria diversità impegnata a rispondere, con intelligenza, ad una realtà fisica, sociale, mentale, spirituale, che è sempre in divenire.
Oggi abbiamo nuove emergenze, dovute a bisogni locali, che non sono solo quelle delle popolazioni più povere, ma sono anche quelle di molti paesi che non dispongono più delle loro migliori e rare risorse naturali (quelle intellettuali comprese) che sono state deviate e asservite alla «macchina», resa intangibile, che muove i mercati globali della finanza e dei consumi.
Vi sono, poi, emergenze ancora più complicate che pesano sul mondo immateriale di un nostro vissuto che viene a trovarsi disarticolato, nel proprio contesto sociale, dall’avanzare delle soggettività individuali e delle competizioni imposte da un equivoco e dilagante liberismo che vorrebbe premiare non si sa bene quali meriti e punire le diversità. In queste condizioni diventa fatale che si affermi la dipendenza sociale, economica, culturale, e tutta una paralizzante povertà di relazioni umane e di sinergie che degenera sempre più nel tempo per l’assenza di regole e verifiche condivise nell’accesso e uso delle risorse naturali.