In contraddizione con ogni speranza fatta immaginare verso i successi da costruire e contro ogni predicazione che annuncia prossime ma improbabili fortune personali, i sacerdoti, i loro seguaci e i sostenitori del credo ideologico liberista, si impegnano concretamente solo nel far leva sui miti della globalizzazione per generare imprese (o cartelli di imprese) di produzione e commercio, sostanzialmente monopolistiche e quindi concettualmente inconciliabili con il libero mercato. Nonostante la sbandierata concorrenza che dovrebbe salvare il mondo e che non ammette la formazione di monopoli, le multinazionali e i loro cartelli sono il braccio operativo di un meccanismo di dominio totale dei mercati da parte di un «liberismo reale» che esercita un potere finanziario e politico superiore, molto spesso, a quello delle stesse nazioni nelle quali opera con le proprie attività.
Il fatto è che il concetto di sostenibilità non può avere riferimenti definiti e immutabili. Sembra, invece, che l’idea della sostenibilità sia acquisita, nel disastroso senso comune delle cose, come un sentimento istintivo che apre a un credo supremo, univoco e assoluto, che dispone a perseguire un benessere materiale e che non si sa quando, ma si è convinti che verrà. Un sentimento che è considerato (indipendentemente dai risultati che produce) profondamente positivo e incontaminato quasi fosse un valore spirituale e che gode, anche, di una zona franca per svilupparsi fuori da ogni controllo, ma che poi porta tutti, fatalmente e ciecamente, a finire asserviti alle miserie umane del potere dell’uomo sull’uomo.
«Sostenibile», nelle dinamiche delle relazioni comunicative sociali, più che un concetto sembra essere, oggi, espressione di una moda con le sue opportunità e le sue stagioni. Da un riscontro sulla presenza del termine «sostenibile», nei titoli degli articoli del quotidiano «la Repubblica» (allegati compresi) è stato costruito un quadro delle frequenze annuali, di questo termine, che mostra quanto sia cresciuto il suo uso, che (a partire dalla definizione di sviluppo sostenibile proposta, nel 1987 dalla commissione Brundtland, nell’ambito del programma Unep) si è trovato a conquistare sempre più gli spazi della comunicazione (arrivando anche a favorire un suo significato indefinito e usato, nel lessico del senso comune delle cose, per indicare tutto e il contrario di tutto).
Di fatto, dalle frequenze riportate in tabella, si può riconoscere, per il settore Economia, una crescita e una successiva riduzione delle frequenze, quasi a indicare una moda, che presenta il suo massimo nell’anno 2008 (forse, negli anni successivi vi è stata una minore enfasi sulla praticabilità di un’economia sostenibile che ha, così, avuto sempre meno argomenti da vantare).
Nel settore Ambiente il termine «sostenibile» sembra tenere buone posizioni con un trend in continua e regolare crescita (in mancanza di un’economia finanziarizzata sostenibile, sembra che notevoli speranze di qualcosa di sostenibile siano state affidate a questo settore). La sostenibilità interessa, poi, in modo crescente, ma con bassi valori, anche il settore dei consumi (con la crisi, i consumi soffrono e, forse, si può immaginare che la sostenibilità sia spontaneamente percepita come una scelta o una condizione di vita imposta e già acquisita). È certo, comunque, che attraverso il fenomeno moda, che ha promosso l’idea che possa esistere un mondo sostenibile, il liberismo ha fatto passare e ha imposto un’idea di crescita virtuosa del mercato globale dei consumi che, almeno inizialmente, non trovava molto gradimento nell’opinione pubblica.
In realtà, la «sostenibilità» (al di là del feeling, sul quale questo fortunato termine sembra poter contare) è destinata a rimanere un concetto vago e inadeguato se non sarà accompagnato da processi di revisione continua che ne definiscano le caratteristiche, in tempo reale, con il divenire della realtà. Ma, anche una sua revisione continua, non garantisce il superamento delle sue inadeguatezze, se non dovesse svilupparsi contemporaneamente la consapevolezza che, nello stato attuale, questo concetto serve solo a segnare confini arbitrari di realtà, somministrate come sostenibili, ma che sono messe, invece, al servizio di particolari e forti interessi non condivisi e sono imposte, anche con violenza, da arroganti poteri.
Fuori da ogni idealismo e ideologia, è evidente che la sostenibilità non è una verità assoluta rivelata, ma un concetto culturalmente consolidato il cui merito, però, può trovare una propria coerente e affidabile articolazione e strutturazione di base, solo se si forma nell’ambito di un vissuto personale per potersi, poi, sviluppare ed essere condiviso nell’ambito dinamico e più ampio degli interessi collettivi.
Nell’ambito delle iniziative produttive e commerciali (che determinano grandi o piccole modifiche dei territori e delle strutture sociali), la sostenibilità è, però, nella disponibilità decisionale solo di pochi individui, addetti ai lavori, mentre i molti possono solo subire le conseguenze di uno scontro fra interessi che si trovano in contrasto fra loro: da quelli sui profitti da dividere fra le imprese impegnate a «fare le cose» (infrastrutture, servizi, manutenzioni, troppo spesso a spese di contribuenti, di fatto impotenti nell’intervenire direttamente sugli sprechi e abusi perpetrati a loro danno), a quelli dei fruitori attivi che ne vorranno trarre i maggiori vantaggi per i loro affari, a quelli delle popolazioni che sopporteranno anche solo i disagi (ma potranno sperare nel miglioramento almeno di qualche servizio), a quelli che potrebbero, invece, essere chiamati solo a pagare per opere che, in vario modo possono essere a danno delle loro comunità e del loro possibile operare per il bene comune (per il controllo dell’inquinamento ambientale, delle alterazioni igieniche, delle deturpazioni paesaggistiche e architettoniche, di quei cambiamenti rapidi che possono anche modificare, irreversibilmente e drammaticamente, particolari opportunità vitali, fino a sconvolgere i complessi equilibri uomo-territorio).