Se davvero il mondo finisse…

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E se davvero il mondo finisse domani? Mi chiedo, ben convinto della montatura mediatica del caso e del fatto che un semplice palindromo numerico non può avere alcuna influenza sulle sorti del pianeta. Ma mettiamo che la profezia si avverasse. Saremmo pronti ad affrontarla? Intendo, come civiltà, saremmo pronti ad assumercene la responsabilità?

Quale sia stata davvero la causa della fine dei Maya nessuno lo sa con certezza. Ciò che è certo è che una delle più influenti e conosciute civiltà mai esistite sulla Terra è scomparsa nell’arco di qualche decennio dopo aver prosperato per oltre 2500 anni. Conflitti interni, epidemie, disastri naturali, disgregazione sociale sono le cause più accreditate per il loro improvviso collasso.
Quello che, però, più ci interessa in questo momento non è tanto la loro storia o il loro lascito come patrimonio artistico-culturale, quanto una profezia dai contorni offuscati da misticismo e superstizione.
Sta calando il sole mentre scrivo queste righe e sulla scrivania libri e polvere avvolgono i miei dubbi. Le piante grasse intente, si spera, a fagocitare onde elettromagnetiche provenienti da ogni aggeggio elettronico in funzione, mi osservano impassibili.
E se davvero il mondo finisse domani? Mi chiedo, ben convinto della montatura mediatica del caso e del fatto che un semplice palindromo numerico non può avere alcuna influenza sulle sorti del pianeta.
Ma mettiamo che la profezia si avverasse. Saremmo pronti ad affrontarla? Intendo, come civiltà, saremmo pronti ad assumercene la responsabilità? E sì perché è proprio «responsabilità» il termine giusto da utilizzare per l’immaginaria preparazione all’apocalittico scenario di domani.
Immaginiamo, per un istante, di essere ovunque vogliamo nel Mondo ma proprio allo scadere dell’ultimo rintocco prima della mezzanotte tra il 20 ed il 21 dicembre. Stanotte, a mezzanotte.
L’ultimo giro d’orologio prima che le lancette si sovrappongano trascinando la Terra verso il baratro ci apparirebbe un lunghissimo respiro prima dell’ignoto. Con la solita strafottente aria, che ha da sempre contraddistinto la nostra civiltà, avremmo la presunzione di credere che nulla, alla fine, potrà andar male. Perché il «figlio di Dio» ce la fa sempre. Ricorderemmo le arche sacre, l’apertura delle acque, l’assunzione celeste. Ad ogni modo, ci illuderemmo in volteriana memoria, tutto andrà per il meglio. Bene o male il nostro giardino l’abbiamo curato. Pangloss l’abbiamo anche un po’ snobbato, ma aveva ragione.
Eppure, dentro di noi un brivido freddo, impercettibile, s’insinuerebbe proprio qualche secondo prima dell’ultimo suono di campane e dinanzi il buio della mente s’aprirebbe d’improvviso. Ci attanaglierebbe un rimorso. Un rimpianto. Avvolgeremmo il nastro della nostra singola esistenza d’individui per analizzare in pochi secondi una vita intera. Riesumeremmo gli errori, sorrideremmo alle gioie ed agli amori, c’intristirebbero i ricordi di lutti ed i dolori, ma giunti all’ora fatale saremmo comunque consapevoli di aver vissuto. Spesso di aver sopravvissuto. Di avere, in ogni caso, seguito il film dei fotogrammi che giorno dopo giorno hanno riempito la pellicola. La nostra, unica, pellicola a disposizione.
Quale sarebbe allora, in un ultimo sforzo d’introspezione, la ragione di quel senso di vuoto nello stomaco poco prima della fine? Penseremmo a ciò che insieme alla nostra vita sta per scomparire. Alle case ed ai palazzi. Alle piramidi ed al colosseo. Alle auto ibride ed alle biciclette. Alla borsa di New York ed alle banconote contraffatte. Tanto che importa, ci diremmo. Una volta che non ci saremo più chi potrà rimpiangere tutto ciò? Come le anime, anche le cose sono destinate a svanire in luoghi lontani dalla nostra comprensione. Ma così, ancora, non avremmo colto il senso di quella tristezza nell’ultimo secondo utile. Ci stringeremmo per mano, per non morire da soli. Perché la debolezza umana emerge soltanto quando dinanzi c’è l’ignoto. Ci circonderemmo delle persone care, di coloro che restano a condividere quest’assurda sorte. Ma non sarebbe abbastanza. Avvertiremmo ugualmente gli organi in rivolta, la mente in agonia, lo spirito annichilito.
Col cielo di tenebre ed il sole scomparso, le piogge e le alluvioni, i fulmini e gli incendi, il vento e gli uragani, una luce sottile nell’oblio illuminerebbe la terrorizzata ricerca di un perché. Finalmente ci apparirebbe chiaro. Un pensiero da sempre presente in noi, ma volontariamente relegato nei meandri della memoria. Quell’ansia da annullamento totale avrebbe a quel punto una causa ben chiara. Non l’estenuante ricerca di un senso nella sopravvivenza individuale, ma l’ignorata necessità di un significato universale.
Non ci taglierebbe il respiro, l’ultimo che pensiamo di poter realizzare, l’angoscia di non aver vissuto pienamente da singoli, ma quella di aver chiuso il libro senza averne letto tutte le pagine. Ed il resto, averle strappate e bruciate.
Ci soffocherebbe il rimorso atroce di esser stati gli artefici unici e soli della malattia, prima ancora che sopraggiungesse la morte. Di aver creduto di poter ignorare quanto scritto in quell’immenso libro che ora sta per finire, di poterne distruggere le parole. Di esserci, con superbia, illusi di poter controllare tutto, di essere i padroni di quel mondo che ora in un attimo sta per scomparire.
Allora ci sembrerebbe banale, se non l’avessimo voluto ignorare per millenni, che non tanto la fine è che conta, quanto ciò che è accade prima che tutto finisca.
Seduti ad osservare l’orizzonte che arretra e scompare nell’infinito, in attesa che l’ignoto assorba anche noi e tutto il resto, supplicheremmo un po’ di tempo per agire, dopo aver finalmente capito.
I secoli di guerra e di violenza nei confronti dei popoli e delle persone, le atroci torture inflitte ad animali indifesi ed il lento agognare di ogni vivente. Le brutture umane non potrebbero minimamente essere compensate dalla Gioconda o dalla Primavera, dalla Sinfonia n° 5 o dall’Ultimo canto di Saffo. Non basterebbe la bellezza creata dai singoli, anche nel piccolo della quotidianità, dall’amore della madre, dal sacrificio del padre, dall’aiuto dello sconosciuto a bilanciare gli orrori inflitti alla Vita stessa dalla nostra umanità, che di quella Vita è stata miseramente parte.
Prima della fine, ci volteremmo indietro e riusciremmo già ad osservare i disastri che incoscientemente abbiamo creato. Alla devastazione di ogni ecosistema, all’usurpazione di ogni bene naturale, all’appropriazione indebita ed ingorda che abbiamo perpetrato ai danni della Natura, che da madre, pur al termine dei suoi giorni, ha sempre cercato di proteggerci. Solo allora ci renderemmo conto della follia di massa di cui siamo stati complici. Della maniacale assurdità che secolo dopo secolo ha portato i computer sui nostri tavoli in legno, ma ha lasciato terra polverosa laddove quel legno era parte di una foresta. La stessa che ha riempito le dispense di ogni assurdo ingordo sfizio e che ha reso i mari una tomba vacua e silenziosa. Che ha garantito ogni lusso alle ferie, ma ha spento la bellezza della primavera. Che ha reso virtuale ogni emozione, ma ha condotto gli innocenti ai crematori.
E vedremmo i bambini, accovacciati ai nostri piedi, contemplare il mondo che si disgrega. Loro, gli unici uomini ancora senza sensi di colpa, ne sarebbero confusi. Davanti ai loro occhi guarderebbero un vuoto che ingoia la vita e voltandosi, spaventati da quel crudo spettacolo, osserverebbero la devastazione creata dai loro padri. Così schiacciati da un passato di violenza sulla Terra e da un futuro che incalza trascinando il mondo nell’oblio, non saprebbero più dove andare.
In quel momento, in quel preciso istante saremmo pienamente consapevoli. In quello stesso lasso infinitesimale di tempo il requiem della profezia Maya inizierebbe a suonare in sottofondo. Con gli sguardi persi e le braccia prive di ogni volontà, in un unico flebile respiro esaleremmo il pentimento di un’intera specie. Di quell’uomo che ha saputo scoprire la luce, ma non ha mai capito come accenderla in se stesso.
Sfiancati da quell’estremo sforzo di comprensione cadremmo in ginocchio, in ogni parte del mondo, per scoprire alzando la testa che la luna è ancora lì, che ci osserva, giudice silenzioso. Ed il sole sta per sorgere, ancora, in un 21 dicembre 2012 che invece di segnare la fine del mondo ha sancito l’inizio dell’umanità.
E penseremmo alla Terra che ci ospita, a quanto sia bella, alla Natura che è in e con lei, a quanto l’abbiamo sfruttata ed alla Vita, che eccezione universale più che regola, abbiamo svalutato, corrotti dal profumo fittizio del denaro. Rivolgeremo i pensieri indietro per guardare avanti, per ridare valore a ciò che lo merita. Rivaluteremmo così ogni essere vivente ed ogni luogo che ne permette l’esistenza. Rivaluteremmo la bellezza, il senso dell’unione e dell’appartenenza. Usciremmo dall’effimero universo elettronico in cui ci eravamo rinchiusi per guardare al mondo come un luogo nuovo in cui tornare a gioire.
Lo faremmo in un Rinascimento d’Umanità, in cui la verità non è più il mistero da svelare, ma si manifesta in ogni nuvola che davamo per scontato, in ogni fiore che ignoravamo passeggiando, in ogni uomo di cui non sentivamo più la fratellanza.
Che tu sia benvenuto, dunque, 21 dicembre 2012.
Buongiorno a te che hai intuito la fine e ne hai fatto un nuovo inizio…