La felicità da incontrare

531
Tempo di lettura: 8 minuti

Dobbiamo tutti rispondere a quelle contingenze materiali che pongono limiti quantitativi alla nostra sopravvivenza e che richiedono condivisioni e collaborazioni per poter ottimizzare l’uso delle risorse sui lunghi tempi e sulla qualità del futuro dell’uomo.

I beni della Terra non hanno segni che ne distinguano la proprietà, dunque sono beni indivisibili di tutta l’umanità e sono disponibili, in modo finito, per i bisogni di una nostra buona sopravvivenza (beni che la Terra, ancora oggi, offre in abbondanza per tutti e che, quindi, non richiedono un responsabile globale che eserciterebbe un potere, non delegabile ed equivocamente assegnato, e che, comunque, finirebbe fatalmente con l’occuparsi di interessi particolari).
Sui consumi materiali dobbiamo, quindi, dare risposte a domande fondamentali che riguardano la definizione e l’attuazione delle condizioni necessarie (pur se non sufficienti) di contesto che non ostacolino la ricerca della felicità. È significativa, a tal proposito, la diffusa e immotivata convinzione che, oggi, la libertà umana coincida con tutto ciò che è connesso con il libero mercato dei consumi (radicato e garantito solo dal regime economico-finanziario liberista) e che il Wto (organismo con pieni poteri finali sulla regolazione dei commerci economici e finanziari mondiali) sia una specie di istituto di beneficenza che provvede alla correttezza e alla difesa delle libertà di commercio. Ma c’è di più perché una possibile alternativa (per esempio, quella della decrescita felice, ma non solo) viene proprio considerata un attentato alla libertà, un pericolo di instaurazione di un regime illiberale! Si rimuove, quindi, la percezione della conseguente totale e macroscopica mancanza della concreta libertà di operare anche in modo alternativo alle pratiche distruttive e alla esaltazione dei banali meccanicismi economici teorizzati dalle alienazioni deterministiche del XIX secolo.
C’è, allora, da prendere atto che, oggi, siamo in una dittatura economico-finanziaria che, senza evidente spargimento di sangue, nei luoghi da lei ben presidiati, ha conquistato silenziosamente un potere globale assoluto. Un assoluto che ci viene imposto, che ormai trova normale sconfinare (confondendo e riscrivendo ogni regola condivisa) anche nei campi più ampi delle politiche nazionali e internazionali, rendendo inefficace e innocuo ogni riferimento alle istituzioni e funzioni di un sistema democratico, cambiando il senso stesso della democrazia, tutto come in un gioco delle tre carte nel quale siamo obbligati a perdere: un gioco mai condiviso, tanto meno richiesto, ma imposto, appunto. Siamo di fronte alla presunzione di un bene assoluto che è insostenibile in qualsiasi prospettiva venga presentato. Siamo di fronte ad un’imposizione, di governo totale del mondo, inaccettabile e, forse, conviene riflettere e coinvolgere anche chi, forse in buona fede (quella che inebria gli sprovveduti o entusiasma i furbastri) ancora non si rende conto del falso concetto di libertà tutto confinato negli angusti recinti di un mistificante mercato che si fa fraintendere autodefinendosi «libero».
Quando si invoca la felicità la nostra attenzione e i nostri pensieri devono essere, invece, tutti impegnati sul fronte della ricerca del senso delle cose e della qualità delle nostre risposte per non cadere in quei meccanismi precostituiti che agiscono fuori dagli equilibri democratici (chi ha deciso il Wto? Chi decide i paesi nostri nemici un giorno e amici il giorno dopo? Chi decide il senso dello sviluppo e le priorità e relazioni fra obiettivi di sviluppo economico e di progresso umano? Chi decide in che modo usare le risorse, comprese quelle finanziarie?). Forse abbiamo addirittura dimenticato che le istituzioni sono democratiche solo se informano, se chiamano le comunità a fare scelte consapevoli e responsabili, senza imbonimenti, senza precostituire scelte invocando emergenze o occasioni da non perdere o prospettando speranze di un mondo migliore.
In qualunque modo si viva o si sopravviva, la felicità rimane sempre una ricerca che riguarda le nostre capacità di relazionarci e di riflettere su qualsiasi fenomeno del mondo che rivive nelle nostre ricostruzioni mentali. È una ricerca che mette alla prova, le ipotesi e le possibili comparazioni, sui fenomeni della nostra realtà per interpretarla, per comprenderla (per riconoscerne e condividerne le qualità), per viverla e per seminare, distribuire e moltiplicare i suoi frutti, senza togliere niente a nessuno, anzi favorendo l’arricchimento reciproco con lo scambio moltiplicatore di esperienze e di riflessioni personali.
Molti hanno, forse, provato la soddisfazione di un obiettivo perseguito e raggiunto, ma anche l’amarezza del dover prendere atto che la rilevanza riconosciuta ai risultati, così, raggiunti, tende poi a svanire nel tempo, come se si trattasse di un bene di consumo. Alcuni si danno un progetto di vita che non sembra rispondere ai vicoli del tempo a nostra disposizione, ma anche loro sembrano raccogliere precarie soddisfazioni che finiscono, così, con l’accompagnare le crescenti preoccupazioni di un futuro sempre più incerto e disorientante. La felicità di una sicurezza possibile, che permetta di affrontare problemi e situazioni rimanendo in pace con se stessi e con i propri intorni di vita, non sembra perseguibile con percorsi ordinari e di senso comune.
Anche i successi formali dell’esercizio di un potere, che dia almeno la certezza di poter imporre una propria visione di bene o di giustizia, produce solo banali e del tutto deludenti armonie meccaniche individuali, da un verso, e indignate opposizioni collettive, dall’altro. Sembra, dunque, che in questo modo, si possano, forse, soddisfare personali idee di ordine meccanico ma, certamente, non le aspirazioni più profonde e libere che siano capaci di dare senso alla nostra vita e garantire una ricerca fertile della felicità.
Nella vana attesa di una felicità compiuta, molti finiscono, così, col trovarsi ad affrontare, da sprovveduti, il momento, drammaticamente rimosso, della fine, della nostra esperienza terrena. La felicità, che immaginiamo di poterci procurare definendo e raggiungendo mete che sfidano le nostre capacità e il tempo a nostra disposizione, non sembra, infatti, trovare spazi automatici per realizzarsi. La felicità che molti immaginano di aver vissuto, ricostruendola come in un film sulla propria vita, spesso è solo un sogno ad occhi aperti, un incantamento che porta ad immaginare di aver ricevuto dalla vita un meritato premio dopo lunghe attese (che sostanzialmente sono state, solo, piene di affanni e di disorientate opere e che, forse, non hanno neanche prodotto significative forme di benessere).
Per nostra natura, tutti proviamo il piacere di una lunga amicizia o, ancor più, di una scelta a procreare nella quale, con la gioia di un abbraccio, viene facilitata un’intesa che può trasformare due volontà, due corpi in una sola realtà sinergica impegnata, senza risparmiarsi, nel dare alla luce nuove vite e nuovi e più virtuosi intorni, di intelligente impegno a partecipare agli equilibri naturali. Chiamiamo amore quelle relazioni che, prive di interessi unilateralmente concepiti e praticati da singoli o gruppi, offrono spazi infiniti di armonia e solidarietà alle nostre aspirazioni più profonde, ai nostri progetti di vita che ci sentiamo impegnati a costruire e ricostruire senza immaginare e pretendere vantaggi per se stessi. Sappiamo metterci creativamente in gioco per dare (liberati dall’ossessione del possedere e del potere) umana compiutezza ad un’idea di felicità che non è un prodotto finito, ma una condizione da alimentare in itinere.
È una idea che l’uomo può verosimilmente perseguire, nella complessità delle relazioni, senza pretendere che la sua felicità sia bella e pronta in una banale scatola di montaggio. Un’idea di felicità che può trovare verifiche, ma che certamente non si sostanzia in nuove e raggiunte capacità di produzione e consumo o che possa negare o almeno smorzare (come fosse un rimedio terapeutico) gli sconfortanti limiti delle proprie prestazioni, il dispiacere di un bene negato, la depressione che segue al non riuscire ad adeguarsi alle imprevedibili contingenze di una vita materiale, il deludente svelamento di una realtà di vita troppo complessa e diversa da quella immaginata e che, quindi, ci appare negata.
La felicità è, dunque, altro rispetto a ciò che può essere offerto dal «senso comune» delle cose. Chi da questo senso comune volesse far derivare le proprie scelte di vita, di fronte alle conseguenti inutili attese, sarà, allora, fatalmente portato a concludere, che la felicità non è di questo mondo. La felicità, che finirà col mostrarsi come un’illusoria speranza, potrà, forse, rimanere nelle nostre fantasie, ma solo se alimentata da persistenti bisogni esistenziali che portano a immaginare una felicità che, pur introvabile, rimane l’unico riferimento che possa dare una giustificazione al vivere umano. Sulla felicità ridotta ad una illusoria speranza c’è anche chi ne ricostruisce una sola, assoluta ed unica per tutti, ma tanto precaria da ritenere indispensabile fissarla in conseguenti formule e ordini sociali applicati, in nome di un delirante, arbitrario, autoreferente e assoluto bene universale da somministrare al mondo intero, a cominciare da indefinite razze consenzienti che si vorrebbero presentare come la parte migliore del genere umano (o, forse, quella solo mentalmente turbata).
La felicità, anche per chi non perde la speranza di incontrarla, appare come un fenomeno complesso che richiede l’attivazione, la pratica e la cura di qualità umane che non possono essere trascurate o addirittura disconosciute. È, infatti, nel riuscire a dare valore e senso alla condivisione della diversità umana che la felicità può trovare il terreno fertile per mettere radici, crescere e far crescere la qualità della sua fruizione da parte dell’uomo. La felicità è una ricchezza umana che non è espressa da un arido elenco di felicità individuali, ma è un bene che è tanto più disponibile per tutti, quanto più viene proposta nella sua diversità e sperimentata nella condivisione di pensieri, di energie vitali e di occasioni che ci interrogano sulla possibilità di fare scelte alternative.

La ricerca della felicità deve disporre di alternative per non rischiare di diventare un acritico percorso, con il rischio di implementare obiettivi precostituiti e di non sentire la necessità di sapere verso quali finalità e quali significati sia indirizzato. Pertanto è anche una ricerca che non può essere delegata, perché non rischi di trasformarsi in uno strumento legittimato all’esercizio vergognoso del potere dell’uomo sull’uomo. Un potere, questo, che negherebbe, con la sua inseparabile arroganza, la ricerca sul senso delle cose e, quindi, sulla stessa felicità. Un potere che sarebbe impegnato ad opprimere le coscienze per ricevere un proprio vitale ma perverso consenso non solo da parte di opportunisti e criminali (che aspirano a gestire i beni comuni e a dominare su un popolo di sudditi, per trarne privilegi esclusivi) ma, anche, da parte dei molti sprovveduti e benpensanti, blanditi con promesse e concessioni (distribuite non si sa con quale pretesa di legittimità) che sono invece diritti e doveri inalienabili di ogni individuo e, forse, non solo umano.
La felicità non è un oggetto da possedere, ma è un bene che può incontrare chi si fa promotore di fenomeni vitali: godiamo anche solo della visione di un ambiente naturale vitale, ma siamo, troppo spesso, incapaci di spendere questo piacere per cercare la felicità con la riflessione sul significato espresso da quello stesso ambiente naturale. Sembra che l’uomo non abbia mai tempo sia per soffermarsi a riconoscere quei fenomeni vitali, quegli equilibri naturali, quella socializzazione delle risorse naturali (che assicurano la loro rinnovabile disponibilità), sia per dare senso alle cose e poter, così, offrire ai propri occhi e alla propria mente, una direzione e un’identità creativa che dia sostanza ad una propria ricerca della felicità.
Se ci proponessimo di valutare il rapporto fra energie spese e qualità dei risultati raggiunti (attraverso, pur pochi, casi emblematici della storia dell’uomo) e se lo dovessimo analizzare alla luce di quelle conoscenze geniali e strategiche (offerte dalle scoperte scientifiche e dallo sviluppo economico e tecnico-tecnologico), potremmo forse rilevare una grande quantità di felicità che poteva essere condivisa da molti, ma che non siamo stati capaci di realizzare. Abbiamo immensi e qualificati patrimoni di conoscenze a nostra disposizione, ma non facciamo scelte di vita che li valorizzino. Facciamo, invece, scelte istintive che portano a reiterare gli stessi errori e che, come avviene in tutti i fenomeni meccanicamente spontanei, portano solo ad un aumento di Entropia. Consumiamo risorse ma non produciamo, cioè, qualità vitali (che pur sappiamo di poter offrire al divenire dei fenomeni naturali) e, quindi, non riusciamo a procurarci (lasciandoci sopraffare dalla soddisfazione distruttiva del nostro «possedere le cose» che sottrae e non aggiunge valore agli equilibri naturali) la felicità creativa del nostro esistere.
La felicità è un bene che si può incontrare solo se sono interpretate intelligentemente le strade che vengono offerte per fare scelte condivise, consapevoli e responsabili. È, dunque, una presenza che accompagna l’uomo, solo in quei contesti sociali che lui stesso può, con le sue scelte, rendere vitali. «Non si può essere felici da soli», non è solo espressione di una saggezza fuori tempo in un mondo che sembra tutto impegnato a misurare la quantità delle cose solo per deciderne il prezzo e il profitto. Ma per non invocare inutilmente una saggezza che (sfuggendo all’attenzione dei molti) sembra oggi inapplicabile, converrebbe più concretamente analizzare e valutare il significato di un mercato globale che ha sostituito lo scambio delle risorse economiche (necessarie per rendere vitali i luoghi abitati dall’uomo) con il loro consumo terminale. Far crescere l’Entropia, senza produrre fenomeni vitali in sintonia con gli equilibri naturali (come avviene con i nostri consumi), rende infertili le energie messe in gioco: non è solo una grave perdita di risorse e di qualità della vita, ma è, anche, distruzione del nostro habitat, delle condizioni uniche che permettono la nostra sopravvivenza. Disperdere risorse (disordinarle e non poterle differenziare), degradare energie (trasformare tutto in un calore senza qualità energetiche) rende irrecuperabili anche gli equilibri vitali: è, dunque, il nostro suicidio, ma è anche molto di più perché è l’omicidio programmato delle future generazioni.

 

Walter Napoli, Tossicologo e analista ambientale