C’è qualcuno che sostiene che non ci possiamo permettere l’attuale livello di vita e tanto meno di welfare. È forse tempo, allora, senza cadere in depressione, che cominciamo ad usare la nostra intelligenza per passare da una valutazione che definisce neutrali le ricadute dei nostri comportamenti (sul consumo di risorse, sulla tenuta degli equilibri ambientali…) e dei nostri modi di pensare (il mercato come pensiero unico e principio universale che premia i meritevoli col successo dei consumi, il profitto come cornucopia del «vero» benessere…), ad una serena analisi di che cosa noi possiamo decidere di «fare a meno» prima che altri se ne preoccupino con finalità e obiettivi diversi dai nostri.
Non possiamo fare a meno di dare risposte ai bisogni e non possiamo neanche fare a meno dell’economia che li può gestire, possiamo invece fare a meno dei mercati dei consumi e di tutto ciò che questo assurdo sistema di produzione-consumo impone sottraendo ogni possibile alternativa. Un piccolo ma sorprendente esercizio, che può evidenziare le distorsioni di questo sistema, consiste nel provare a fare la spesa in un supermercato acquistando solo i prodotti che, sulla base dell’esperienza del loro uso, riteniamo indispensabili per i nostri bisogni distinti da tutto ciò che è solo quantità e qualità di consumi non vitali.
C’è un’assunzione di responsabilità personale che sembra essere stata rimossa da quelle vetrine delle offerte dei consumi che hanno fatto terra bruciata delle nostre domande esistenziali, dei nostri problemi veri, dei nostri bisogni e della felicità di ritrovare noi stessi nel riconoscerci, confrontarci, condividere esperienze, costruire sinergie. Abbiamo una ricchezza incalcolabile di relazioni, vere e da valorizzare, che non costano, che non vantano diritti esclusivi, che rispettano gli altri, che si occupano del bene comune, tutte condizioni in sintonia con la felicità che è un sostantivo singolare perché riguarda la natura dell’uomo e non il singolo individuo che pensa di potersela procurare sottraendo per sé le risorse di tutti.
La felicità, dunque, non è un momento di alienazione, non è la disponibilità di un luogo vuoto e neutrale (una specie di Nirvana) che ci consegnerebbe alla pace e alla serenità per assenza di azioni e di passioni, non è neanche il luogo virtuale dei «sogni ultimi» che, oggi, un numero crescente di esseri umani sono indotti a coltivare per non soccombere al peso delle distruttive competizioni, delle ingestibili delusioni, delle frustranti impotenze.
La felicità è invece una ricerca che tutti, giovani e adulti presenti a se stessi, sono naturalmente portati ad intraprendere per non trovarsi alla fine con ricchezze materiali (comunque da abbandonare) accumulate a vantaggio di una parte, impoverendone l’altra. La passione che possiamo provare in questa ricerca è una energia che spinge a esplorare luoghi, materiali ed immateriali, essenziali per conoscere, per fare domande, per verificare risposte, per dare senso all’esistere, per comprendere l’essenza di quei momenti e di quel divenire della realtà che costruiscono le nostre diverse identità e bisogni vitali e che attivano relazione fra tutto ciò che avviene nei nostri intorni fisici e mentali.
La felicità non si possiede in modo esclusivo, ma anche lei non possiede nulla in modo esclusivo perché non toglie nulla a nessuno e dà, invece, tutto di sé a tutti. La felicità, perché non inaridisca in un’immagine e nei momenti di una sua formale espressione, deve essere alimentata dalle consapevolezze che dobbiamo impegnarci sia a costruire con le nostre conoscenze e riflessioni, sia a condividere e integrare per metterle a disposizione di tutti, per moltiplicarne l’uso, i contenuti e i metodi di cura e di ricerca e di cura. È un cambiamento che, però, non può certo avvenire dall’oggi al domani, ma può concretizzarsi passando da idea a progetto, sempre da revisionare in itinere.
Ma questo, oggi, sembra essere un problema già in fase di proposta. La sola idea di cambiamento si scontra, infatti, con un sistema globale che non ha (e non ha nessuna intenzione di attivarle) procedure di innovazione che non siano strettamente connesse ai meccanismi di produzione e consumo. Oggi, non hanno prospettive di cambiamento, non solo le popolazioni dei paesi privi, o privati, addirittura di risorse essenziali per la sopravvivenza, ma anche le popolazioni più democraticamente attrezzate. Queste ultime, in particolare, sono indotte a godere di privilegi e di speranze perché, così, non abbiano motivo per chiedere un cambiamento almeno fin quando lo spreco delle risorse mondiali assicurerà (senza che qualcuno debba industriarsi per una loro gestione razionale) anche più di quanto è necessario per il mercato libero di consumi esclusivi.
La felicità non è fine a se stessa, ma è una energia che è anche capace di valorizzare le qualità umane di creatività e di capacità di cambiamento. Ma, con l’idea di una felicità, individuale o di gruppo, da conquistare e senza apertura alle relazioni sinergiche, i nostri scenari di vita, impostati sulla «competizione», incontreranno, purtroppo, notevoli inerzie sulle strade del cambiamento. La competizione, infatti, non è solo inutilmente distruttiva, ma è anche causa di dispersione di sinergie operative e di mancanza di interesse verso una qualificazione delle competenze necessarie per il progresso delle società umane. Le comunità rimangono, così, sostanzialmente paralizzate nella condizione di una sola somma di individui resi autoreferenti e messi a praticare solo finzione di attività di cambiamento e di sviluppo critico, della conoscenza e dell’informazione, necessari per la vita democratica e il progresso condiviso delle nostre diverse comunità umane.
Oggi, le situazioni politiche, sociali ed economiche delle diverse popolazioni della Terra, vengono proposte alla nostra percezione, come fenomeni rilevanti, solo attraverso gli scenari delle realtà internazionali affidati in gestione a sistemi mediatici che, di fatto, assolvono il compito di elaborare e fornire significati semplificati, forse anche deviandone il senso. Sono i significati preordinati, per esempio, allo sviluppo globale del mercato libero dei consumi, all’integrazione in essi, addirittura, di paesi antidemocratici (diventati oggi ottimi partner, nonostante quei regimi antidemocratici continuino a negare anche formali libertà e diritti alle loro popolazioni) tutti, però, in linea con gli obiettivi del sistema mondiale di produzione e consumo.
In questi scenari alla felicità vengono fatte assumere le forme concrete di affascinanti prospettive con le quali, sembra inutilmente, si tenta di rianimare speranze perdute: la diffusione (ormai prossima per definizione) della democrazia occidentale in ogni parte del mondo, l’Europa dei popoli dopo gli egoismi e le truffe dell’Europa dei soldi, la sconfitta del terrorismo che serve a militarizzare le democrazie (che non si preoccupano invece di comprendere la natura delle estreme e violente contrapposizioni, per porre veri rimedi invece di fare guerre che le alimentano), le primavere arabe che devono però rispondere a immutabili equilibri economico-militari internazionali.
Il dubbio non stimola più la curiosità e la conoscenza, ma è diventato una perfida copertura per prepotenti ingiustizie (con costi sociali rilevanti per chi, da tutto ciò, ne riceve solo danno e ha, poi, difficoltà insuperabili per far valere le proprie giuste ragioni). Le inossidabili e strumentalizzate incertezze del dubbio offrono, infatti, un valido e decisivo sostegno, sul versante di chi vanta la legittimità di interessi particolari, privilegi, ingiustizie, abusi, mentre, sull’altro incolpevole versante, procura danni, in termini di sottomissioni, delle libertà e dei diritti, di furti di risorse economiche ambiguamente acquisite e, soprattutto, di inaccettabili diseguaglianze che emarginano in modo terminale masse sempre più ampie di cittadini del mondo e ne impoveriscono le diversità.
Il fatto è che, oggi, senza averne la percezione e la misura, siamo passati dall’arte del vivere in società (l’«arte dell’incontro», ad elevata impronta relazionale, che arricchiva le conoscenze e le consapevolezze di tutti) ai meccanismi di una comunicazione mediatica che, ormai sfacciatamente (attraverso suggestive finzioni, finalizzate ad indottrinare i malcapitati), plasma i nostri comportamenti e modi di pensare e rende formale e marginale la comunicazione interpersonale.
Suggestive storie e avvincenti giochi di intrattenimento inducono, attraverso martellanti messaggi e situazioni, ad aderire a incrollabili convincimenti ideologici (fatti veicolare attraverso la riproposizione continua di argomentazioni, anche false, che alla fine portano ad accettare come vera tutta una visione preconfezionata della realtà e rendono familiari e normali condizioni di vita drammaticamente competitive).
Tutti gli scenari, di questa comunicazione mediatica, enfatizzano, oggi, in modo anche solo implicito, sia il successo delle ideologie liberiste (percepite come speranza di un nuovo mondo, che in realtà impone, in modi solo più sofisticati e ingannevoli, il solito esercizio del potere dell’uomo sui propri simili e una libertà del «fare» assoluta, senza limiti e controlli), sia un modello unico di vita che garantirebbe risposte compiute ad ogni nostro problema (in realtà garantisce solo il condizionamento delle nostre consapevolezze, delle nostre relazioni, di tutta una nostra cultura deviata a vantaggio di un ridimensionamento, verso il basso, delle informazioni sulle ragioni e sulla gravità dei problemi).
In particolare, negli scenari della comunicazione e dell’intrattenimento c’è un surrogato di felicità che viene offerto da rassicuranti processi di «normalizzazione» attraverso una realtà ricostruita (fedelmente forse solo nelle forme ma non certo nel senso) da racconti (per esempio quelli anche recenti sugli scenari drammatici delle guerre, sui collassi di attività economiche e finanziarie globali, sui disastri umani nelle regioni più povere del mondo), ma anche quelli che vengono, addirittura, celebrati nei riti competitivi e nei rischi implementati, come «innocenti» giochi, in suggestivi programmi televisivi di intrattenimento (per esempio, gli attuali programmi a premi e di sfida alla fortuna).
Fra la concretezza dei premi e il coinvolgimento emotivo (di una sfida resa drammatica dal rischio di fare scelte perdenti), avanza l’intento, discretamente occulto, di formare individui (quelli che partecipano come attori o spettatori) adattati ai ruoli culturalmente subalterni che dovranno essere assunti a sostegno e in difesa dell’ideologia liberista, per permetterle di sopravvivere a se stessa. Dopo il suo collasso e la delusione finale delle attese generali, di un mondo migliore, con le quali si era fatta inizialmente accettare, la sopravvivenza del liberismo sarà, infatti, possibile solo se tutti saranno stati convinti che il mercato dei consumi è la risposta ad una domanda ben radicata nelle nostre aspirazioni più profonde.
Il liberismo, cioè, fonda le sue prospettive di sopravvivenza non nelle fallimentari, e ormai impresentabili, vantate qualità del mercato libero dei consumi, ma nella trasformazione delle proprie mire egemoniche globali in ragioni di vita di popolazioni asservite al suo potere: la volontà degli oppressori diventerà progetto di vita sostenuto dagli oppressi.
Non ci sarà un liberatorio muro di Berlino da abbattere, ma c’è già chi confida nell’effetto dell’abitudine all’esistente, al peggio che deriva e che le popolazioni, dei paesi più avanzati, sono stati addestrati, da lungo tempo, a sopportare come normale costo e, addirittura, ad interpretare, come prova di un virtuoso cambiamento in atto.
C’è un surrogato di felicità che potremo ricevere se saremo ancora disponibili ad accettare il rimodellamento dei drammi quotidiani, il ridimensionamento delle preoccupazioni, il riposizionamento verso l’alto delle soglie di allarme anche nelle certezze di un tragico epilogo epocale. Per l’innocenza presunta dei fautori di tale epilogo e per la neutralità degli esecutori delle relative opere, anche in questo caso non ci sarà da individuare e da punire in modo esemplare i responsabili: le responsabilità saranno sicuramente socializzate e imputate ad una incolpevole trascuratezza generale dei comportamenti, anche questi competitivi, di vittime e carnefici. Tutti, poi, tranne i morti procurati, potranno avere, così, un surrogato di felicità piccolo, personale, incomunicabile, ma sufficiente per essere riconosciuti e sentirsi vivi, premiati e innocenti.
È certo che la riduzione, di ogni evento, nei confini di fenomeni che ristrutturano, secondo modelli «normali» e «predefiniti», i significati dei fatti, alterano le nostre capacità critiche e questo è già un grave problema, di correttezza della comunicazione, da affrontare e risolvere. Ma, ancor più c’è da riflettere sul fascino emotivo esercitato dalle rassicuranti rappresentazioni deformate di una realtà normalizzata. Queste rappresentazione possono, infatti, indurre felici appagamenti che seducono anche per la «genialità» richiesta a chi contribuisce, con diligente solerzia, a farsi parte attiva nelle buone opere di relativizzazione dei disagi delle crisi e nel rendere formalmente inconfutabili la sopportabilità, la necessità e le giustificazioni morali delle più atroci prepotenze.