Se dovessimo elencare tutti gli allarmi di pericolo per assenza di misure di sicurezza (per i luoghi da noi frequentati e per la nostra vita o anche solo per il nostro benessere) non avremmo difficoltà a rilevare sia la sconfinata quantità di situazioni e di attività (spesso a noi ignote) che possono generare danni al nostro vivere (o quantomeno logoranti ansie), sia la complessità delle loro articolazioni. Una complessità che, per non farci mancare nulla del peggio possibile, facciamo regolarmente accompagnare, poi, da norme che attivano stressanti controlli (spesse volte inutili o inefficaci e deresponsabilizzanti ed elusive nelle loro travisabili formalità) o che sono addirittura deviate da scelte opportunistiche di parte (sostenute da forti interessi precostituiti). In effetti, a ben vedere, più che di definizione di norme di sicurezza, a volte, può venire il plausibile dubbio che si tratti solo di procedure di certificazioni formali, che possono permettere di eludere la sostanza delle sicurezze e legittimare dati di fatto che anche il solo buon senso non permetterebbe mai di accettare.
Possiamo ricordare a questo proposito il caso dell’atrazina, un diserbante diffuso nella coltivazione del mais e oggetto di interessi diversi (di produttori e di utilizzatori), che ha inquinato, in particolare, le fonti di acqua potabile della valle Padana. I valori limite nelle acque potabili, stabiliti per legge, sono stati oggetto di cambiamenti negli anni 70. Successivamente, dopo un primo riconoscimento dell’atrazina come sostanza cancerogena, ne era stato vietato l’uso. Il divieto era, poi, rientrato, con alcune deroghe con le quali l’atrazina di fatto poteva essere considerata innocua. Infine, è stata ufficialmente vietata nel 1992, pur se, ancora oggi, è in circolazione in un suo mercato nero.
C’è, dunque, il pericolo che i problemi della sicurezza si riducano ad una pratica di certificazioni formali che crea tutto un mondo opaco e che, invece di dare risposte efficaci per la nostra sicurezza, può costruire una visione, a dir poco, snaturata della realtà (tutta impegnata a soddisfare adempimenti formali e a vantare giustificazioni estemporanee, oltreché a difendere interessi particolari di varia origine) con una conseguente elevata probabilità (anche per la mancanza di professionalità e formazione adeguate) che tutto continui a funzionare in sostanziale continuità con i rischi di sempre.
Fra fonti di rischio in crescita (con lo sviluppo di nuove tecnologie e prodotti), inadeguatezza e ritardi dei controlli (sui materiali, sull’ambiente e sulla salute dei lavoratori e delle popolazioni eventualmente coinvolte), le prospettive verso una buona qualità di vita non sembrano offrire scenari corrispondenti alle nostre attese (come sono quelle di difesa da agenti nocivi per la nostra salute). I processi di produzione, i consumi, l’efficacia delle norme di sicurezza sul lavoro e nei nostri ambienti di vita, non sembrano proporre un futuro di sicurezze anche per gli equilibri ambientali che garantiscono, al nostro pianeta, quelle concrete e fertili condizioni vitali che non sono astratti diritti dei cittadini, dei lavoratori e dell’ambiente, da invocare nell’ora dei buoni propositi.
Intanto, cresce, oggi, il ricatto occupazionale che, sempre più spesso, pratica meno sicurezza e difesa della salute negli ambienti di lavoro. Una situazione che, oggi, sotto molti aspetti, è più drammatica di quella che proponeva, qualche decennio fa, l’inaccettabile monetizzazione del rischio. Una situazione che richiama l’amaro ricordo di un immorale passato e che oggi si traduce in diffusa disoccupazione e in condizioni, a volte, di estrema povertà (percepita nel peggiore dei modi possibili per inaccettabili e dilaganti ingiustizie e per mancanza di libere alternative da sviluppare e da mettere alla prova).
Nel passato, a partire dagli inizi della rivoluzione industriale di fine settecento, la sicurezza riguardava il successo del mondo del fare. La sicurezza di non avere ostacoli che si frapponessero agli affari è stata la condizione necessaria perché, successivamente, si potessero sviluppare l’industria e il commercio, i beni di consumo, i servizi e le tecnologie di produzione, sempre più sofisticate, per creare mercati spinti dalla moda delle novità. Alle sicurezze per l’uomo sembra quasi si sia giunti solo come un nuovo campo di sviluppo, per nuovi prodotti e servizi, e di opportunità di nuovi profitti.
L’industria del farmaco, per esempio, investe, oggi, solo su prodotti che hanno mercato (e, invece, non dà risposte, pur disponibili, ai bisogni che non coincidono con i propri interessi commerciali). Per il suo notevole fatturato (inferiore solo a quello dell’industria degli armamenti militari), questa industria rappresenta un caso emblematico di quanto la sicurezza di disporre di una terapia sia in realtà una variabile indipendente dai bisogni reali di cura della nostra salute, ma dipenda dalla convenienza dei profitti che se ne possono trarre.
La sicurezza dell’uomo, per chi deve impegnarsi nella competizione, dei mercati globali, se non è proprio considerata un insopportabile fastidio, viene decisamente condannata come un lusso che non possiamo permetterci. All’uomo non resterebbe, dunque, che affidarsi alla buona sorte: quella che manteneva in vita gli schiavi (la cui anonima sopravvivenza certamente non angosciava chi poteva, con un semplice ordine, sostituirli), ma anche i soldati del secolo scorso (mandati al fronte per vincere o morire) o che, in sua mancanza, induce alcuni ad intraprendere attività criminali di ogni genere (tragico mestiere che in tempi di crisi e in varie forme, diventa, per alcuni, opportunità di sopravvivenza). Certo è che, se non c’è una riflessione, personale e condivisa, sulle prospettive di cambiamento (che non siano, ancora, il vano tentativo di rendere sostenibile l’insostenibile illusione di poter far crescere il mercato globale dei consumi, trovando sempre più risorse da consumare e negando, invece, la priorità delle risposte ai diffusi bisogni essenziali), in futuro, per sopravvivere si dovrà continuare, sempre più, sulla strada della vendita della salute: un bene inalienabile offerto, con un rito sacrificale primordiale, alla divinità del profitto.