Non possiamo però limitarci a fare riflessioni solo sulle primarie e irrinunciabili sicurezze che riguardano la nostra salute psico-fisica. Dobbiamo considerare, infatti, anche l’immenso spazio concesso ad azioni che arrivano fino a turbare gli equilibri dell’economia reale (è questo il caso che riguarda lo spazio, ormai senza regole, occupato da predatorie attività finanziarie). Oggi, le società finanziarie possono accumulare enormi profitti (con totali garanzie per loro stesse) e possono, di fatto, operare vendendo esoterici argomenti economici (ma anche banali slogan) su come mettere in sicurezza i risparmi e, nello stesso tempo, presentando, come naturale, l’incertezza dei risultati finali.
Di fatto le società finanziarie possono non rischiare nulla di proprio (per loro, male che vada, tutto può finire solo con i mancati guadagni), mentre l’eventuale fallimento dei propri affari coinvolgerà (in termini di costi e di perdite) non solo i loro clienti risparmiatori e le loro risorse (a volte anche fraudolentemente gestite in speculazioni esposte a rischi incontrollabili se non proprio destinate a non andare a buon fine), ma anche risorse pubbliche (con la conseguenza di sopprimere servizi essenziali per i cittadini) o quelle sottratte, con l’imposizione di nuove tasse, a contribuenti del tutto estranei alle attività speculative.
Le attività finanziarie si muovono in un mondo virtuale che incide pesantemente sul mondo reale con una relazione che ha un’unica direzione e missione: il dominio assoluto del potere virtuale dei soldi sulle attività produttive. La necessità di competere e di approfittare apre spazi attraenti, ma incontrollabili, ad imprese che, invece di rispondere alle domande vere del mercato dei bisogni, mettono a rischio la propria sopravvivenza offrendo risposte senza domande, confidando di vincere imponendo una moda, con distruttive (e non solo inutili) competizioni. Un’impresa che scommette, mette a rischio i propri valori economici o (non avendo propri capitali da investire) si affida all’unica e irrazionale scelta, quella di rischiare tutto, per il successo, puntando sul finanziamento esterno. Su quest’ultimo passaggio si basa la potenza delle attività finanziarie che, coprendosi in vario modo dai propri possibili rischi, mettono sotto scacco tutta l’attuale economia mandata continuamente a distruggere risorse e sintonie con gli equilibri naturali, per autoreferenti vittorie che hanno riscontri solo nell’accumulo infertile, se non disastroso, dei loro profitti.
Il liberismo e il mercato dei consumi sono gli strumenti operativi con i quali, di fatto, la finanza ha assunto il controllo diretto ed indiretto del mondo intero: dal costo del lavoro, alle scelte produttive, alle politiche economiche, al welfare, alle relazioni internazionali, ai modelli di vita di intere comunità (lasciate libere di scegliere l’unica opzione che non potevano non scegliere, quella dei consumi). Le attività finanziarie vivono di cose astratte, imprendibili che vantano legittimità assurde, ma accettate e riconosciute dalle loro stesse vittime. È una attività che vive solo di contratti, confezionati e riconfezionati, che non producono nulla, assicurano speranze, ma poi diffondono insicurezze, con equivoche e arbitrarie valutazioni. Dai risultati ottenuti (al di là delle crisi imposte a tutti, ma non a se stessi che ne sono la causa) risulta evidente che queste attività sono diventate solo un modo fraudolento per spostare soldi e lucrare su questo nocivo servizio potenziato fino all’inverosimile da una globalizzazione neoliberista che ha deciso e intende imporre, in vivo, all’intera umanità e per l’eternità, un gioco del Monopoli mondiale per depredare le risorse e le unicità esistenziali di ogni essere umano.
Il valore aggiunto di questa attività, in concreto, non esiste: il profitto è ottenuto con la trattenuta di una tangente applicata ad ogni movimento di denaro che «sottrae» soldi ad alcuni e li «attribuisce» ad altri. Un gioco condotto sulle artificiose suggestioni di un mercato di concetti immateriali (ricchezze, rendite, plus valenze) e di un mondo virtuale (fatto di denaro, di scommesse, di sentiment, di rumor) imposti alla materialità di prodotti reali che dovrebbero invece rispondere ai bisogni dell’uomo.
In queste condizioni, dunque, il mondo finanziario, dalle risorse utilizzate, non potrà mai creare valore aggiunto (che è invece creato, in forma di beni e servizi per i bisogni, da attività economico-produttive reali e da quel tipo di finanza che non specula per depredarle, ma le promuove). Purtroppo il mondo finanziario, anche per la sua inconsistenza materiale, può applicare le proprie visioni e invenzioni, tratte anche da esaltate visioni ideologiche, nella più completa arbitrarietà, come se fosse uno spontaneo fenomeno naturale, o meglio come se fosse una distruttiva catastrofe naturale, pur non avendone alcuna prerogativa e tanto meno la stessa natura.
Sono ben note le arroganti pretese delle società finanziarie, ma gli alibi, «sapientemente» costruiti, poi, intorno alle loro attività e l’attenzione prestata alla costruzione di una loro buona immagine, finisce col rappresentarle in modi rassicuranti, finanche in loro immacolate e nobili ricostruite origini. Il valore di queste attività, infatti, viene attribuito a storiche bontà di strumenti (come la speculazione, il rating) che erano a garanzia dei migliori equilibri economici. Il danno, che viene generato (a partire dalla prima bolla finanziaria, quella dei tulipani nella prima metà del secolo XVII, nel corso della quale un bulbo di quel fiore raggiunse una assurda cifra record corrispondente oggi a quasi 30.000 euro) non è mai attribuito a distorsioni dovute a meccanismi economico-finanziari, ma all’avidità umana che avrebbe indotto molti sprovveduti, ad accumulare ricchezze per disporre del potere che ne poteva derivare.
In realtà, attribuire le crisi all’avidità umana o ai meccanismi speculativi distorti, di fatto non cambia la sostanza del risultato. Però, se l’origine delle bolle speculative non viene attribuita ai meccanismi economico-finanziari (che danno spazi inaccettabili e potenti all’esercizio dell’avidità umana), ma è attribuita direttamente all’avidità umana, le società finanziarie possono invocare un alibi a sostegno di una propria immacolata estraneità al male delle attività predatorie della speculazione. Non meno infidamente suggestivo, per la neutralità vantata, è il ruolo della finanza come certificatore della bontà delle «naturali» conseguenze dell’incontenibile e scaltra vocazione umana verso quel «fare le cose» che è elemento, di fatto indispensabile, per fare profitti, anche se si tratta di un fare privo di senso. In realtà, il fare le cose, pur essendo una vocazione umana fattuale, non ci esime, però, dal riconoscere in esso (in mancanza di consapevolezze e di responsabilità umane) la tendenza a trasformarsi in un destino inesorabile, che distrugge equilibri vitali.
Deve avere certamente un forte significato (ed offre anche una buona occasione per riflettere) il fatto che le sicurezze relative dei profitti finanziari, per gli attuali speculatori, siano alimentate dalle probabili insicurezze di successo nella gestione delle risorse economiche, prodotte dall’ingegno e lavoro di altri loro simili, che si trovano su un fronte diverso da quello parassitario della finanza.
C’è una malvagità criminale, in chi soffia sull’insicurezza (creata dalla precarietà delle competizioni fra le attività produttive) e che sembra avere come fine (al di là delle storie raccontate) quello di generare sottomissioni e disincentivare (con alti costi sociali ed economici) ogni forma di integrazione collaborativa. È una malvagità che non solo ostacola le risposte vitali ai bisogni umani, ma permette, anche, dispotiche e improduttive operazioni da parte di agenzie finanziarie di rating che fanno profitti sull’affidabilità degli investimenti che proprio gli stessi rating (da loro decisi, in un mondo ricostruito a proprio uso e consumo) determinano per le attività economiche (anche di intere nazioni) trasformate, così, in loro vittime predestinate.
C’è una violenza in chi sfrutta il lavoro e l’ingegno umano, per fare profitti ingiustificabili, saccheggiandoli, attraverso una mediazione commerciale e finanziaria che vive su «libertarie» pratiche monopolistiche (quelle stesse che sono condannate dal libero mercato se sono applicate alla gestione democratica dei beni comuni). In questi casi si arriva fino al ricatto totale, fatto pesare, a vari livelli, dai mediatori sui produttori, attraverso la minaccia di un’insicurezza costruita e usata come un’arma per sottometterli al potere del mercato (libero solo di nome). È, per esempio, la minaccia di non distribuire i prodotti di consumo (che finiscono, così, destinati all’obsolescenza delle mode) o i prodotti agricoli (destinati, così, alla deperibilità).
È certo che, se non ci fosse il mercato dei consumi, ci sarebbe da prendere semplicemente atto che i soldi (con i quali il potere globalizzato governa, oggi, il mondo) non sono di chi se li piglia, ma di chi li organizza e del contesto nel quale vengono amministrati e nel quale hanno la possibilità sia di dare qualità a scelte sinergiche, sia di trovare un proprio senso nella condivisione consapevole, responsabile e finalizzata a migliorare le condizioni di vita, a produrre nuove conoscenze e ad esprimersi nella forma di quella naturale solidarietà che porta le società umane a collaborare e non solo per i vantaggi (di uno sviluppo del benessere materiale di pochi o di molti) offerti da un sistema integrato di economie reale.
Non è utopia, ma realismo umano che, per buona sorte, le imposizioni ideologiche (per esempio, quella di far misurare il significato della vita dalla quantità di ricchezza posseduta) non riescono ancora a sopraffare nell’ambito delle culture delle comunità umane più piccole, da quelle familiari a quelle amicali (dove, le arroganze finanziarie, ancora non dettano legge, perché tutte spontaneamente sviluppate intorno a domande vere che sappiamo formulare e a riflessioni che trasformano la diversità in ricchezza di risorse).
Siamo in un momento difficile della storia umana, ma (come i fatti del tempo passato raccontano) tutto ciò che (pur non avendone la natura) viene invece presentato come un bene, essendo privo di senso, è destinato ad esprimersi in termini di un prepotente solipsismo puntato, nella sola direzione di un percorso miserevole e senza storia perché è solo destinato a nascere e morire con ogni singolo individuo. Per venir fuori da questa condizione, è necessario ricominciare a formulare domande di senso e, allora, la natura umana (aiutata, forse e ancora una volta, da quella ricerca del bello che dall’esterno sa invadere pacificamente e amichevolmente le nostre miserie) potrà percepire e superare gli ostacoli delle prepotenze, che non permettono di esprimersi nella sua essenza, e potrà non finire negli stolti ingranaggi di un mercato che sa solo consumare risorse.
In questa prospettiva diventa ingiustificabile ogni nostra acritica sopportazione degli abusi e delle sottomissioni indotte dall’inconscia paura delle insicurezze e dalla convinzione che il potere, nonostante tutto, sia capace di garantire l’ordine necessario per combattere un temuto male che, invece, proprio in quell’ordine, si annida.
La disponibilità individuale (o di una particolare comunità umana) di risorse sottratte ad altri (senza corrispondenti ed efficaci solidarietà e condivisioni), i brevetti che impongono equivoci diritti economici (come fossero tributi feudali sull’esistere delle cose naturali), il rispetto di leggi unilateralmente definite a vantaggio di interessi particolari, sono tutte forme di dominio, sugli equilibri naturali e fra le economie delle diverse società umane, che ostacolano il progresso umano e quel naturale senso di sicurezza che nasce dalle relazioni fra le diversità. Un dominio che diventa legge e che impone timori e paure con i quali il potere sottomette l’uomo e può liberamente gestire le risorse comuni per i propri interessi.
Nel passato all’uomo, nel peggiore dei casi, poteva capitare di cambiare padrone, per lui i rischi personali legati al vivere quotidiano, rimanevano sostanzialmente immutati. Chi rischiava, in quel passato, era, forse, il potere minacciato da un altro potere antagonista e i sistemi di alleanza sui quali i poteri costruivano il loro successo a la loro sopravvivenza.
Nei tempi più recenti l’uomo e le comunità di appartenenza, appaiono emotivamente coinvolti e assoldati per la difesa di condizioni di vita, di lavoro, di appartenenza, di interessi (anche se non direttamente connesse con le proprie aspirazioni più profonde) o per le scelte alle quali si possono trovare, per cultura e tradizione, formalmente associati (difesa di un ordine istituzionale, sviluppo di un modello di società, condivisione di uno stile di vita, opportunità per il proprio saper e voler fare le cose).
Di fatto, quindi, dall’attuale sistema di potere, siamo addirittura indotti non solo a dare un valore assoluto alla moneta (caricata di significati impropri e di un’egemonia che arriva addirittura a imporre scelte a lei non pertinenti essendo solo uno strumento e non avendo fondamenti per esprimere volontà e decidere scelte), ma anche a reagire alle insicurezze, di una sua ambigua gestione, pagando l’acquisto di altre insicurezze (ricercate solo perché contengono la speranza di fare meglio o che comunque portano ad immaginare di aver tentato le migliori strade delle possibili sicurezze). Un meccanismo che si attiva ormai automaticamente e che ci priva di ogni possibilità di valutazione critica delle attività nelle quali ci troviamo coinvolti (per esempio quelle formalmente indicate come tutela dei risparmi, ma che possono usare le tecniche e le pratiche dei giochi di azzardo, non per dare sicurezza ai risparmi, ma solo per far deviare la ricchezza già esistente a vantaggio di qualcuno con un corrispondente svantaggio per altri).