Ogm e nucleare: business e insicurezze

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Prenderemo in esame (come esempi di questa tendenza a trasformare uno sviluppo tecnologico, ad alto rischio, in crociata contro una natura da dominare e asservire alla volontà di qualche fanatico del «fare le cose» che forse immagina di poter ricostruire il mondo) solo due riferimenti: la produzione di Ogm, sostitutivi di prodotti naturali, e il nucleare da fissione per la produzione di energia elettrica.

C’è una lapidaria ma incontestabile osservazione-riflessione di Galilei con la quale converrebbe affrontare alcuni temi etico-scientifici relativi al rapporto vincoli-risorse che possiamo rilevare negli equilibri ambientali. «La natura non intraprende a fare quello che non può essere fatto» è quanto sostiene Galilei nel suo «Dialogo dei massimi sistemi».
Impegnati a suddividere la materia per scoprirne i segreti, abbiamo perso il contatto con la realtà: ogni strada per realizzare tutto quello che scopriamo di poter fare è legittimata da un nostro impulso, entusiasmante, ma di fatto incontrollato, a fare le cose. Gli impatti (disastrosi o benefici che siano) nella loro indeterminatezza diventano, però, fonti di insicurezze perché ogni cosa è lasciata, nelle mani del mercato, dei consumi e dei profitti, che se è vero che non opera per sostenere ideologie, è vero però che nelle ideologie trova il sostegno efficace per monetizzare e lucrare su ogni cosa, raggiungendo così livelli sorprendenti di genialità distruttiva: tutto può essere venduto, posseduto e alla fine confinato in discarica per ridare nuovi spazi al mercato e alle sue offerte immaginate come inesauribili. Lo scienziato e il tecnocrate vivono innocentemente le proprie eccellenti capacità di fare ciò che capita di saper fare e inventare: ma la ricerca e i risultati ottenuti non fanno parte di un gioco a premi, tipo caccia al tesoro nascosto di conoscenze ancora da scoprire e da applicare.
Il riduzionismo nel quale opera, la cultura del fare le cose (alla ricerca, oggi, anche del microscopico ignoto, da trasformare in innovazione e da mettere sul mercato dei consumi), rischia di diventare l’assoluto di riferimento di ogni nostra azione. La scoperta scientifica vive, oggi, come un bene assoluto affrancato da ogni valutazione critica che, nel migliore dei casi, può solo riguardare l’ottimizzazione del profitto in funzione delle possibili applicazioni da mettere in vendita. Ma tutto questo è estraneo al senso delle cose che non vive solo di scoperte scientifiche che, invece, in mancanza di riflessioni, rendono incomprensibile il divenire della realtà e possono solo generare, nelle loro incompiutezze, profondi e impropri sensi di insicurezza. Le cose del mondo, infatti, non diventano più sicure se noi disponiamo di maggiore conoscenze: potremmo solo cercare di proteggerci meglio dagli effetti di traumatici fenomeni naturali, ma non possiamo neanche immaginare di poter migliorare meccanicamente gli equilibri naturali, solo perché disponiamo di nuove conoscenze (in realtà le nuove conoscenze asservite ai consumi non vanno certo in questa direzione).
La scienza nel passato ha creato problemi ai sostenitori di ideologie che venivano messe in discussione dalle nuove scoperte. Il popolo di quei tempi non era certo interessato direttamente a seguire lo sviluppo delle nuove conoscenze e delle nuove insicurezze che ne potevano derivare, non era neanche oggetto di imbonimenti volti ad estorcere i suoi inutili consensi: aveva ben altri problemi (come quelli della sopravvivenza) da affrontare. Oggi, invece, la scienza e il mercato si sostengono a vicenda facendo intendere l’esistenza di una nuova civiltà nella quale la scienza sostiene il mercato, il mercato sostiene la scienza e tutti e due sostengono la compiutezza immaginaria di un mondo nel quale potere e conoscenza possono suggerire l’obbligo di un consenso vincente e assoluto verso la loro mistificante offerta di sicurezza.
In vendita c’è, oggi, una sicurezza tecnologica che viene fatta immaginare ormai prossima all’assoluto, ma che, in concreto, ha portato solo alla desertificazione delle alternative e alla sostituzione dei contesti naturali con realtà virtuali (già oggi, infatti, c’è la possibilità di appartenere ad un mondo fatto tutto di spettacoli e televendite). Il contesto fisico e culturale è di fatto vincolato, in modo determinante, dal riduzionismo applicato alle conoscenze (con la loro suddivisione e dispersione in singole discipline), che diventa semplificazione del vivere in una serie preordinata di atti formali che offrono gli scenari falsi di una società, tutta sotto controllo, che persegue il bene, che esercita un potere che dà ordine e sicurezza alle cose (ma che, poi, nel tempo la nostra coscienza riconosce come cause di angosce e di paure, che sottraggono conoscenze e relazioni, che inibiscono alternative e attività creative e che alla fine diventano origini di profonde e insopportabili insicurezze).
Può apparire paradossale, ma a questo impegno a ridurre tutta la realtà a pochi meccanismi da offrire alla nostra mente, fa poi riscontro la convinzione che sia illimitata, la capacità complessa, del sistema Terra, di adattarsi, in piena sicurezza, anche a modifiche estreme (in questo caso quelle che, i mezzi tecnologici già oggi a nostra disposizione, permettono di realizzare agendo su territori sempre più vasti, per renderli funzionali al sistema di produzione e consumo di beni e servizi).
A ben vedere potremmo riconoscere che il nostro stato non è descrivibile solo come una generica riduzione in schiavitù dell’umanità ad opera del fare distruttivo dell’innovazione tecnologica, ma è anche una più devastante rimozione delle sicurezze dinamiche che sono patrimoni della nostra cultura: è un attacco letale alla nostra capacità di costruire e alimentare la sicurezza umana della speranza che è investimento sul futuro della nostra Terra.
Sembra che si voglia tenere lontana l’umanità dall’assumere una responsabilità adulta (verso una gestione finalizzata del tempo e delle risorse disponibili) e si voglia invece farla vivere in quella spensieratezza infantile che non prevede ancora, nelle sue esperienze, il pensiero del futuro, che confida in una figura genitoriale che perdoni anche i suoi tragici errori, che la protegga: niente di meglio per non permettere di affrontare e cercare il senso costruttivo delle certezze nelle relazioni con i propri simili e con gli altri fenomeni vitali naturali. Una mancanza di responsabilità che non permette neanche di riconoscere, nell’interpretazione scientifica dei fenomeni,i segni forti e chiari che la natura ci invia e che nel migliore dei casi vengono usati solo per descrivere un fenomeno vitale, anestetizzato e privo del suo senso.
È questo il caso dell’ingegneria genetica, con la quale si indica una tecnica capace di sostituire pezzi elementari di materiale biologico di una specie, con pezzi elementari diversi di materiale biologico di un’altra specie. In natura non viene usata questa tecnica, ma non per un capriccio, per un dispetto, per un danno che magari si può immaginare destinato a colpire (come fosse un malevolo destino) le fortune umane.
In questa tecnica c’è, forse, qualcosa di prometeico che affascina, ma qui non si tratta di rivendicare, anche per l’uomo, il possesso del fuoco riservato agli dei dell’olimpo: un fuoco solo da portare da lì a qui. Siamo in presenza di meccanismi chiave della vita e soprattutto di quelle condizioni che non conosciamo (e che mai potremmo conoscere nella loro pienezza) che creano relazioni vitali fra diversità. Non siamo di fronte a pezzi meccanici di un Lego da comporre lasciando alla fantasia la costruzione di una struttura che la natura non ha, quantomeno, mai provato (forse con sensate motivazioni e che certamente non possiamo pensare di superare con le nostre ignoranze in tema). Siamo, invece, di fronte a elementi complessi, capaci di autodefinirsi in una complessità imperscrutabile dall’uomo.
Se è vero che si tratta di una sostituzione, di sequenze di Dna, che si mostrano capaci di fornire alla specie, così modificata, migliori performance produttive, oggi, però, sono imprevedibili gli esiti sugli equilibri in atto e sul loro evolversi che può anche essere fortemente condizionato da variazioni imprevedibili, pur se inizialmente possono essere ad impatto trascurabile. Sono rischi a noi del tutto ignoti (disponiamo, attualmente, solo della presunzione di saper porre rimedi successivi intervenendo, ancora, con altre modificazioni (tutta un’industria della quale non c’è necessità, anche se queste conoscenze e capacità operative sono risorse da non sottovalutare in casi di estrema necessità per tutto il genere umano). Oggi, quindi, non si può negare che il settore dell’ingegneria genetica è fonte di insicurezze, ma che è anche fortemente spinto da interessi speculativi che vogliono realizzare un monopolio nel mercato agricolo del seme, una potente e immediata opportunità per fare profitti. Per il nostro pianeta, rimane, invece, solo la conseguenza di mettere a rischio la diversità necessaria alla tenuta degli equilibri naturali. Infatti un eventuale uso degli Ogm tenderà a sopraffare nel tempo (con la loro prevalenza in campo) la diversità vitale delle altre espressioni biologiche di quella stessa specie.
L’ingegneria genetica può essere una libertà umana, ma non è un percorso che (a parte i danni prevedibili e le insicurezze che ne deriverebbero per la gestione delle insostituibili risorse agricole) abbia un senso nell’opera che la natura ha svolto e continua a svolgere in favore dei fenomeni vitali: siamo di fronte solo a una scommessa, a un rischio estremo per la nostra vita, che non può essere accettato e tantomeno imposto per fare business. L’ingegneria genetica non è un gioco di scambio di figurine sulla natura, per altro deviato da lobby e politiche internazionali ricattatorie decise dall’economia del libero mercato che, senza controlli, finalizza tutto al profitto che se ne può ricavare, mettendo ogni cosa sul mercato dei consumi e, forse, anche un efficiente progetto di autodistruzione.
Altra cosa sono invece le tecniche biologiche, usate dall’uomo, ma che sono fenomeni già presenti in natura e quindi al riparo dalle insicurezze di scelte delle quali si ignorano gli effetti. Con la selezione e gli incroci si possono sviluppare, infatti, particolari predisposizioni, presenti in una certa specie, per sviluppare prestazioni ritenute più favorevoli ai bisogni dell’uomo: non si modifica nulla artificialmente, ma si usano particolari esemplari di quella specie e habitat (scelti sulla base di loro specifiche caratteristiche) per far esprimere, ad una specie, qualità più vantaggiose (mucche che producono più latte e di migliore qualità, cavalli da corsa, grano duro, pomodori con particolari e gradevoli sapori, incroci vari fra alberi da frutto).
Ma, a volerla dire tutta, oggi, la diminuzione delle sicurezze non è solo il segno di uno stolto o diabolico progetto di inaridimento di quella complessità biologica che, da sempre, è fonte di risorse e di fenomeni dinamici indispensabili per alimentare i fenomeni vitali della Terra. C’è, infatti, anche un’assurda convinzione ideologica, che ormai impera sul mondo, secondo la quale tutto è merce e, quindi, la legge che presiede ogni fenomeno vitale non è quella degli equilibri ambientali (al più anche loro trasformabili in eventuali oggetti di un mercato, per esempio, per attribuire un maggiore valore economico ad un territorio), ma è quella dell’equilibrio fra domanda e offerta, è quella della competizione. Su un certo prodotto o servizio, anche fra prodotti di natura diversa, tutto è governato dalle insicurezze arbitrariamente imposte dalle mode, dai dumping, dalle speculazioni operate con l’alterazione dei prezzi, dalla formazione di cartelli fra i produttori di una stessa merce, dalle contraffazione delle merci, dai brevetti che pretendono diritti su prodotti agricoli tradizionali di specifici territori e popoli, dalle modificazioni fraudolente delle condizioni di libera concorrenza, dalle decisioni di politica economica che favoriscono particolari produttori.
Tutti, questi ultimi, sono elementi di distorsioni continue, anche solo, della vantata legge del mercato che di fatto è, dunque, del tutto sostituita dalla volontà di un potere assoluto che si autoproclama fonte di regole e, insieme, diventa anche fonte delle più arbitrarie e occultate eccezioni e dei conseguenti pericoli che ne possono derivare per la sicurezza della vita dell’uomo e dell’ambiente. Di volta in volta, vengono decise regole in nome della concorrenza e del mercato libero (sempre bisognoso di devianti incentivi) che in realtà creano condizioni di vantaggio non tanto per il sistema produttivo ma per chi svolge attività di intermediazione commerciale, di distribuzione delle merci e di finanziamento di tutte le attività connesse. Dunque tutto un mondo di insicurezze, ideologicamente e ipocritamente mimetizzate, messe a sostegno di un mercato che si vorrebbe far credere strumento di progresso, ma che, invece, mette a rischio anche le condizioni per la nostra sopravvivenza.
In queste condizioni anche la tecnologia (sotto certi aspetti anche lei asservita e vittima della speculazione e dei disastri che questa sa procurare) non è in grado di offrire sicurezze a vantaggio del progresso umano e tanto meno potrà, in particolare, fornire sicurezze sugli impatti dei risultati ottenuti con le modificazioni genetiche. Lo stesso principio di precauzione applicato in modo formale potrebbe trasformarsi in un falso ideologico: il principio è di per sé vero, ma la sua applicazione per la valutazioni degli impatti (dovuti, in questo caso, alle modificazione genetiche) può dare dati non veri per il riduzionismo con il quale viene effettuata la valutazione di un fenomeno complesso: per quanto tempo deve essere applicato il principio di precauzione? 10 o 100 o 1000 anni? quale affidabilità hanno i parametri da mettere sotto controllo se dobbiamo ridurre la complessità dei fenomeni coinvolti solo a quelli a noi noti? cosa possiamo sapere sul bilancio finale (sarà una conferma di una scelta sostenibile o sarà causa di ulteriori problemi, dei quali non c’è proprio necessità)?
Non siamo in presenza di processi deterministici per i quali vi è una diretta e sicura relazione fra causa ed effetto e non si può neanche conoscere il tempo nel quale possono avere effetto tali impatti: non è di fatto possibile andare al di là di un aleatorio calcolo statistico sulla correlazione fra modificazioni genetiche e le relative variazioni, che si suppone possano essere indotte e rilevabili, dallo stato di salute dell’uomo e dell’ambiente. Dunque è tutta una scommessa, su interventi del tutto arbitrari sugli equilibri vitali del nostro pianeta, che oggi è solo un azzardo, un inutile azzardo.
Non sono pochi i casi nei quali possiamo solo limitarci a rilevare che la tecnologia si applica, mentre la sicurezza la si può solo raccontare anche senza nessun nesso con i processi tecnologici. L’uso dell’energia nucleare da fissione degli atomi, è uno di questi casi. Siamo in presenza di fenomeni complessi (le trasmutazioni nucleari): durante il processo di fissione sappiamo solo che inizialmente viene introdotto materiale fissile e che alla fine vengono rilasciati energia termica, in forma di vapore in pressione, e materiale fissile esausto. Ma che cosa succeda nel reattore non è dato di saperlo. È possibile solo controllare quello che avviene, in modo del tutto indiretto, rilevando la temperatura e raffreddando il reattore quando supera certi valori oltre i quali diventa impossibile bloccare il processo di fissione nucleare, con la conseguente fusione del nocciolo (questo è ciò che è avvenuto, per esempio, a Cernobyl e a Fukushima, e che continuerà ad avvenire), con meccanismi, sempre a noi del tutto ignoti, perché il fenomeno complesso della trasmutazione nucleare è irriducibile ad un fenomeno da noi interpretabile e gestibile secondo protocolli deterministici che riguardino i processi fisici che avvengono nel reattore nucleare: sono troppo pochi i parametri a noi noti e controllabili.
Tutto un azzardo tecnologico condotto con gli occhi bendati del non sapere che cosa avviene nel reattore e del poter solo controllarne la temperatura, cosa questa che non dà la sicurezza di un controllo deterministico sulla trasmutazione in atto, ma che cerca, con vari sistemi di emergenza ridondanti, di rendere minima la probabilità relativa che nel reattore avvengano fenomeni irrimediabilmente fuori controllo, con le conseguenti fatali immissioni di materiale radioattivo in aria ambiente e inquinamento dei liquidi necessari per limitare e occultare, diluendoli, i danni all’ambiente.
In realtà, questo azzardo tecnologico dovrebbe essere portato come esempio emblematico di situazioni, di massima insicurezza, create dall’uomo: far avvenire un fenomeno per usare i suoi potentissimi effetti, del quale si usano i potentissimi effetti, ma del quale non se ne sa interpretare la dinamica a livello di ciò che avviene nel corso della trasmutazione nucleare. Si sa solo empiricamente che in presenza di materiale fissile, è possibile realizzare le condizioni critiche necessarie per un rilascio di neutroni capaci di provocare, con i loro urti, una ristrutturazione degli atomi fissili in altre specie atomiche, con produzione di quantità notevoli di energia termica e rilascio di altri neutroni. Si sa, ancora empiricamente che questo processo può essere controllato solo rallentando la velocità dei neutroni (assorbendone direttamente l’energia cinetica con materiali specifici) ed estraendo calore (raffreddamento) dal reattore: i meccanismi con i quali avvengono questi processi di fissione rimangono, invece, ignoti. Non si può, quindi, invocare nessuna sicurezza nella gestione della fissione nucleare, si può solo dichiarare che viene effettuato solo un controllo empirico del calore prodotto con la misura indiretta della temperatura presente nel reattore di un impianto: la dinamica delle trasmutazioni nucleari, invece, sfuggono alle nostre conoscenze.
La Tepco (società alla quale era ed è ancora affidata la sicurezza degli impianti nucleari di Fukushima) ha dovuto ammettere recentemente (solo perché costretta dall’evidenza delle prove) di aver nascosto agli organi di sicurezza e all’informazione pubblica l’immissione in mare di notevole quantità di liquidi radioattivi e di non sapere da dove questi provengano e che quindi queste immissioni, per ora, sono destinate a continuare (non è possibile, infatti, sospendere il raffreddamento dei reattori, con l’acqua che poi finisce in mare, senza correre il pericolo di immissione più incontrollabile di fumi radioattivi in aria ambiente).
Intanto il danno nelle acque marine è già avvenuto e continuerà ad aumentare. Con molto ritardo, sono stati attivati i divieti di pesca in una vasta zona. I danni alle persone sono stati già prodotti, ma l’accertamento delle conseguenze per la popolazione godranno del dubbio d’inventario, essendo imprecisabile in quei luoghi i tempi delle diverse occasioni di inquinamento radioattivo, quest’ultima compresa (gli effetti, come al solito, sono certi, ma non sono accertabili i colpevoli e il danno alle vittime).
Dobbiamo, però anche riconoscere che il rilascio del materiale radioattivo non è un atto criminale della Tepco, ma è un evento non controllabile in un qualsiasi impianto nucleare andato fuori controllo. Sugli impianti di Fukushima, dopo gli incidenti ai reattori, non si sono commessi errori, ma solo interventi previsti e prevedibili che per la loro connaturata e irriducibile incompiutezza non avrebbero potuto mai affrontare la complessità indomabile della fusione del combustibile nel reattore.
Sulla sicurezza degli impianti nucleari, ci sono solo responsabilità non assumibili, anche se formalmente se ne definiscono alcune (del tutto inadeguate) e si nomina, addirittura, un responsabile che non potrà mai essere considerato tale (è come se si volesse nominare un responsabile del bel tempo sul quale l’uomo non è certo capace di intervenire per determinare e cambiare le condizioni già esistenti). In caso di incidente nucleare, il danno, al territorio e alla popolazione, è l’unica sicurezza sulla quale possiamo contare. C’è un’ingestibilità della sicurezza connaturata, con la fusione nel nocciolo del materiale fissile, che dal momento dell’incidente non può che continuare a produrre neutroni e calore perché non esiste un protocollo di intervento «risolutore» che permetta di sapere cosa stia avvenendo e come provvedere all’interruzione della fusione del nocciolo del reattore.
L’atto criminale della Tepco sta, invece, nella mancata immediata informazione (sull’immissione in mare di acqua radioattiva) agli organi competenti (che per altro non avrebbero potuto fare niente di più, se non vietare, come poi è stato fatto, tutte le attività nell’ambito delle acque inquinate). Questo quadro descrive una complessità e come essa è tragicamente destinata a sfuggire al controllo umano. Gli interventi, in questi casi, non potranno che limitarsi a contenere le conseguenze nocive di eventi che sono inarrestabili. È proprio per questo che, allora, per ridurre la temperatura ed evitare produzioni di fumi radioattivi, si può arrivare a preferire di raffreddare con acqua il calore emesso nel corso della fusione del nocciolo del reattore, con la conseguenza di doverla poi smaltire e (a voler pensare male) con la decisione di sversarla in mare confidando che la diluizione ne possa, poi, far perdere le tracce.
Questo tipo di problemi, ma soprattutto ciò che non possiamo sapere o ci viene nascosto, potrebbe darci la misura delle insicurezze, strutturali e funzionali, ingiustificabili alle quali siamo esposti. In questo caso, siamo di fronte a scelte ad alto rischio e non obbligate, vantaggiose solo per quel perfido «fare» che anima (ma anche umilia per assenza di intelligenza valutativa) chi lo cavalca.
Se entriamo, poi, nel merito della qualità e quantità di misure da definire per un cosiddetto piano di sicurezza, in caso di incidente di una centrale nucleare, e se teniamo presente che non è possibile stabilire preventivamente la gravità delle conseguenze determinate dalla fusione del combustibile nel reattore (non sapendo quali processi sono in atto), è evidente che dovrebbe scattare un’allerta totale che porterebbe alla desertificazione delle zone interessate (misure relative ad impatti contenuti suggeriscono aree con raggio almeno di 80 Km dalla sede dell’impianto nucleare. In un paese ad altissima densità di popolazione, come nel caso dell’Italia, questa allerta corrisponderebbe ad un esodo di tipo biblico di popolazioni con drammatiche conseguenze economiche e sociali e con costi neanche immaginabili. Dunque dovremo accontentarci, per esempio, di allontanarci il più possibile dall’impianto nucleare. Ma se le vie di fuga sono, poi, solo in una direzione (come è per la metà del territorio pugliese circondato su tre lati dal mare) ai malcapitati non rimarrà che pregare perché il fall aut non li colpisca, spinto dal vento proprio nell’unica direzione di fuga percorribile. Una situazione, questa, che certamente non è, in alcun modo, un piano di sicurezza e che, anzi, non ha nessuna relazione neanche con qualsiasi significato che volessimo dare al concetto di sicurezza.
Se poi prendiamo atto che non riusciamo ad accogliere neanche poche decine di migliaia di immigrati non è difficile immaginare cosa potrebbe succedere se dovessimo trovarci addirittura a gestire alcuni milioni di sfollati in caso di incidente nucleare. Non so quale politico potrebbe immaginare di assumere una tale responsabilità scommettendo sulla fortuna e sulle rassicurazione di tecnici (responsabili di suggerire indicazioni forse troppo esposte ai loro entusiasmi tecnologici e alle loro deformazioni professionali) che passano irresponsabilmente dalla relatività delle certezze dei modelli scientifici, alla sicurezza del fare le cose sulla quale sembra però semplice trovare un esperto di qualche cosa che (per sprovvedutezza, per innamoramento della scienza e della tecnologia o per altro) è pronto a sostenerne le ragioni e assumere ignote e ingestibili responsabilità di un fenomeno sconosciuto. Spesso viene confusa la sicurezza degli impianti con la sicurezza della gestione del processo di trasmutazione non riducibile ad un processo di tipo deterministico e viene il sospetto che questo non è solo un modo superficiale di affrontare il problema della sicurezza di un impianto nucleare.

La sicurezza è un argomento che può essere utilizzato anche per preordinare un alibi in difesa di chi fa scelte irresponsabili e che si salva se ha rispettato anche solo le regole formali di sicurezza (che, non essendo esaustive eludono ogni responsabilità certificabile, anche se è stato prodotto il massimo danno alle persone e alle cose). In questo caso, le paranoiche ragioni di diversificazione delle fonti di energia, dovrebbero spingere tutti i cittadini a prendere coscienza dei fatti e a denunciare l’inettitudine politica e tecnica di chi opera per dare spazio sostanzialmente a lucrose attività nel campo delle infrastrutture (che le tecnologie, oggi, hanno reso infertili anche sul fronte occupazionale) facendo credere che tutto questo sia in favore dei consumatori, una specie, già oggi, economicamente insostenibile (per la crisi, ancora senza una vera soluzione, del fare e del consumare), ma assolutamente indispensabile per il libero mercato.
Una specie che, oggi, appare in via di estinzione, ormai solo sospesa, quasi in apnea, nell’attesa di un’improbabile sua rigenerazione, ma certamente sempre meno fiduciosa in un futuro solo tecnologico. Sarà una magra consolazione, ma la memoria è labile e le responsabilità tendono ad essere occultate: sarebbe bene, allora, che i nomi di tutti i tecnici e i politici, responsabili di scelte relative alle grandi infrastrutture e alle misure che decidono i modelli di sviluppo, fossero consegnati a segni ben visibili della nostra storia e a monumenti indistruttibili e ben visibili di informazione.
Oggi rischiamo di diventare tutti vittime e, insieme, carnefici, delle trasformazioni del nostro vivere in una lotta anche violenta fra emarginati, tutti, comunque, asserviti ad uno sviluppo che nega nel profondo il senso di un vivere umano, sempre meno necessario ad una tecnologia che mal sopporta di dover rendere conto a quei vincoli sociali, culturali e politici che le vengono imposti da quell’uomo, della cui presenza potrebbe, solo se volesse, liberarsene per sempre.
Non so se il nostro destino sia, ormai, nelle mani dei meccanismi di produzione di un futuro ideologicamente ispirato da visioni tecno-scientiste. Non so se la produzione del mais sarà regolata dagli equilibri naturali (che ne hanno garantito fino ad oggi la continuità e la qualità come componente del cibo umano) o se sarà, invece, regolata dai giochi e dalle scommesse finanziarie sulle manipolazioni possibili del DNA. Non so se l’energia nucleare, in un lontanissimo domani, sarà vista come oggetto di un nostro culto primitivo (propiziatorio, estremo e un po’ magico per l’ignoranza delle liturgie con le quali veniva amministrato) verso un ente superiore al quale venivano dedicati forme rituali di sottomissione, tutte accompagnate da produzione e consumo di ogni cosa producibile e consumabile.
So, però, che in tutti questi, purtroppo immaginabili scenari, le sicurezze per l’uomo e per l’ambiente terrestre, pur se oggi disponibili, sempre più spesso non sono neanche prese in considerazione mentre, quelle ritualmente somministrate, non sono, certamente, quelle che vorremmo vedere realizzate.