La vicenda dei 30 attivisti dell’Associazione prigionieri in Russia per aver dimostrato contro la Gazprom in Artico sotto l’accusa di pirateria ha spinto Greenpeace a ringraziare l’Eni per una semplice lettera di intercessione. Ma l’Eni resta una grande inquinatrice. Se il suo ambientalismo fosse vero perché non ha sciolto le relazioni con Gazprom? Alcune politiche ambientaliste generano equivoci e sono dannose per l’ambiente
Sono tutti col fiato sospeso in questi giorni per la sorte dei 28 attivisti e dei due freelance di Greenpeace arrestati in Russia con l’accusa di pirateria, dopo aver manifestato pacificamente, contro le trivellazioni nell’Artico, nei pressi di una delle piattaforme della Gazprom.
Tra petizioni nazionali e appelli, ognuno sta facendo la sua parte per ridare la libertà a manifestanti pacifici, il cui obiettivo era semplicemente ricordare all’opinione pubblica ciò che sta avvenendo nell’Artico a opera delle compagnie petrolifere e del gas. Il coraggio dei 30 manifestanti è ammirevole e deve essere riconosciuto a livello internazionale affinché il governo russo riveda la sua decisione di trattenere gli ecopacifisti.
Le trivellazioni nel Circolo polare mettono a rischio l’intero ecosistema glaciale e incrementano l’intensità degli effetti climalteranti dei gas atmosferici. Non è possibile continuare a dipendere da gas e petrolio in un mondo sovrappopolato che deve, oramai, attingere queste risorse non-rinnovabili (o almeno rinnovabili in tempi geologici, ma non umani) da aree in cui l’estrazione è dispendiosa, complessa e ancor più dannosa per l’ambiente (come i gas al di sotto della banchisa artica o quelli bituminosi di scisto).
Un immediato passaggio alle rinnovabili, associato al risparmio energetico e alla riduzione della popolazione umana sono l’unica strada percorribile. Le dinamiche geopolitiche del gas, ad esempio, oltre a procrastinare la dipendenza dai combustibili fossili, creano situazioni di servitù internazionale (come tra la Russia e la Cecenia o l’Ucraina) e lasciano il potere concentrato nelle mani di poche multinazionali invece di distribuirlo ai cittadini, come avverrebbe con le fonti rinnovabili diffuse.
Su questo tutti, o quasi, concordano.
Ciò che appare alquanto dissonante è, invece, la notizia diffusa in questi giorni secondo la quale Greenpeace avrebbe, dopo anni di lotte, ringraziato la multinazionale dell’energia italiana Eni per una lettera scritta dall’ad Paolo Scaroni al Ceo della Gazprom, chiedendo di premere per far liberare i trenta attivisti. In una nota, Greenpeace ha espresso la sua gratitudine a Eni. «Il suo gesto – ha affermato Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo dell’organizzazione – è importante proprio perché viene da un partner industriale di Gazprom, azienda russa di cui contestiamo i progetti industriali nell’Artico».
Sebbene l’associazione ambientalista abbia mostrato riconoscenza nei confronti di un acerrimo nemico che per una volta ha dato una mano al gruppo, ha di fatto rispolverato ampiamente l’immagine di un’azienda che nel mondo non è certo tra le più virtuose ed è, insieme a Gazprom, altrettanto responsabile delle trivellazioni nell’Artico.
I più importanti media italiani non hanno esitato a titolare: «Greenpeace ringrazia Eni». Sembra difficile che l’organizzazione non abbia riflettuto sulle implicazioni di questa uscita pubblica nei confronti della compagnia petrolifera. Avranno certamente pensato, Onufrio & co., che a prescindere da cosa un’azienda, per anni denunciata e accusata dei più gravi disastri ambientali (dalle trivellazioni nel canale di Sicilia all’affondamento della piattaforma in Congo, dallo sversamento a Gela e a Taranto alle trivellazioni nel mare di Barentes, dalle emissioni della centrale di Brindisi alle piattaforme nell’Artico e nel delta del Niger (tutte «cattive azioni» osteggiate dall’associazione in passato), abbia fatto di buono per l’ambiente, ringraziarla pubblicamente certamente la renderà più pulita agli occhi dell’opinione pubblica.
Se poi l’azienda in questione per l’ambiente non ha fatto nulla di buono, ma pensando bene a quanto ne avrebbe ricavato in immagine, ha semplicemente risposto all’appello di alcuni parlamentari italiani, scrivendo una letterina a Babbo Natale, non si capisce proprio perché lucidarne l’apparenza così pubblicamente.
D’altra parte se Eni fosse davvero interessata alla liberazione degli attivisti nell’Artico potrebbe tranquillamente troncare la partnership con Gazprom e fare pressioni concrete (economiche) affinché il colosso russo sia più clemente con gli ambientalisti. Una semplice lettera, richiesta e commissionata, che non ha sortito alcun effetto tra l’altro, non dovrebbe meritare una tale gratitudine, che lascia un solo messaggio ai più, che pensano: «però, vedi, Eni non è come Gazprom, forse ci tiene all’Artico». E non fa altro che il gioco di chi vuole continuare a ricavare profitti a discapito dell’ambiente.
È vero, la vita e la libertà dei 30 attivisti conta più di qualunque ideologia, ma anche la vita dei milioni di africani intossicati dagli sversamenti delle aziende petrolifere, i bambini soldato e le vittime delle guerre causate dall’utilizzo delle fonti fossili, le migliaia di specie che rischiano l’estinzione a causa dei mutamenti climatici importano. A Greenpeace, forse. A Eni, probabilmente meno. Però se il connubio diventa così stretto e cordiale, nonostante gli impercettibili passi in avanti compiuti da Eni nei confronti della protezione dell’ambiente (d’altra parte un negozio di animali può impegnarsi a migliorare la condizione della sua «merce», ma sempre esseri viventi commercia), l’opinione pubblica viene confusa e questo fa il gioco delle aziende, che dopo un bel «greenwashing» continuano a operare come prima, peggio di prima.
In molti, nel mondo dell’ecologismo, hanno evidenziato che le azioni delle associazioni ambientaliste negli ultimi decenni sono diventate meno incisive e risolutive e questo perché piuttosto che ostacolare, denunciare, danneggiare l’immagine delle aziende che devastano l’ambiente, come fatto in passato, le grandi multinazionali dell’ambientalismo hanno iniziato ad adottare la strategia, molto più redditizia per entrambe le parti, di non farsi la guerra, di stringere accordi, stabilire partnership, prendere finanziamenti con la scusa di «un impegno» da parte delle aziende, che forse mai arriverà.
Lo conferma il fatto che con gli attivisti si è schierato anche il presidente del board di Shell (altro partner strategico di Gazprom nell’Artico). Anche la Shell potrebbe interrompere ogni attività d’estrazione petrolifera (ma una compagnia petrolifera cos’altro fa se non estrae petrolio?) e ogni rapporto con Gazprom per le trivellazioni nell’Artico. Ma difficilmente questo avverrà. Ringraziarla per il suo impegno non farebbe altro che il gioco dell’azienda, anche se gli amministratori delegati sfoggiano tutta la loro sensibilità (e quando sanno di distruggere un intero ecosistema, con orsi polari, pinguini, etc. perché non sono così attenti e sensibili?).
D’altronde, l’improbabile matrimonio associazioni ambientaliste-aziende multinazionali non preoccupa solo per i danni, piuttosto che per i benefici che porta alla causa ecologista, ma soprattutto perché finisce per essere il viatico da cui passare per poter continuare a fare i propri comodi, tutti un po’ più ricchi (una sorta di cauzione per uscire di galera, dove se hai i soldi e paghi, puoi delinquere a piacimento).
Chissà, infatti, se dopo le pressioni e le parole di congratulazioni per l’impegno ambientale la Mattel, ad esempio, abbia smesso d’inscatolare le Barbie con gli alberi delle foreste tropicali o se Ferrero, patron di Nutella, sia ben consapevole che la dicitura «grasso vegetale» tra i suoi ingredienti vuol dire tenere a cuccia le multinazionali dell’ambiente, ma non mi lascia capire se in quella generica definizione vi sia nascosto l’olio di palma e col mio nome sull’etichetta, ogni mattina, non stia mangiando un po’ d’oranghi anch’io, nonostante Greenpeace mi assicuri che «Nutella salva la foresta». Nonostante si ostini a non scrivere esattamente quale olio utilizza nella sua crema alla nocciola.