L’uomo, qualsiasi cosa faccia contro il pianeta si pone sempre al centro sulle possibili ricadute su lui stesso e, se queste si sgonfiano, il problema… non c’è più. Ma alla lunga vivere su un pianeta malato ci fa male lo stesso anche se al momento la relazione ci sfugge
Se come esseri umani la smettessimo di metterci sempre al centro dell’universo e di porre le nostre esigenze ed i nostri capricci al primo posto di ogni possibile scala di priorità probabilmente cominceremmo a vedere le cose in una maniera diversa e più rispettosa per tutte le altre specie viventi. E se cominciassimo a dare un senso alle ferite inferte al pianeta a prescindere dalle ricadute (vere o presunte) sulle nostre esistenze di umani sicuramente finiremmo per rapportarci con maggiore correttezza a tutto il mondo che ci circonda.
È una considerazione, banale fin che si vuole ma certamente reale, che viene in mente quando si leggono notizie e commenti che non sanno davvero andare più in là del naso di chi li scrive. Ci riferiamo, ad esempio, alle considerazioni sulle conseguenze della disseminazione in mare di inquinanti prodotti dall’attività umana e, fra questi e per dirne solo uno, sulle plastiche ormai presenti negli oceani (che qua e là, spinte dalle correnti, hanno formato vere e proprie isole galleggianti) e che col tempo, ridotte in millimetrici frammenti, vengono ingurgitate dai pesci entrando in una catena alimentare lunga e complessa al termine della quale c’è o ci può essere l’uomo.
Basterebbe l’assurdità di una condotta così sconsiderata nei confronti di un bene essenziale come l’acqua, di un ecosistema così decisivo come quello dei mari, di specie così preziose ed anche più antiche dello stesso uomo come quelle che popolano gli oceani per gridare allo scandalo ed alla necessità di una inversione di rotta, con la previsione e l’attuazione di politiche di riduzione del danno che tale è (lo ripetiamo) a prescindere da ogni altra considerazione. Perché avvelenare mari e pesci, deturpare oceani e laghi, creare isole false con fatiscenti scarti di petrolio è condizione molto più che sufficiente per generare un moto di rifiuto e di ribrezzo verso uno sviluppo che non riesce a trovare anticorpi contro errori così pacchiani.
Ma il punto di vista del nostro ombelico pone le questioni solo quando e se le conseguenze dei nostri atti si pongono in conflitto con le nostre esigenze e le nostre abitudini così da lasciar trasparire possibili danni all’uomo: solo allora scatta l’allarme, a volte giustificato, a volte molto meno. E quando si comprende che non c’è allarme per gli umani il rischio è che tutto rimanga com’era prima. È il caso della plastica scaricata in mare che, in questi giorni, sta creando le premesse per riflessioni sulla possibile entrata nella catena alimentare umana dei residui «mangiati» dai pesci e quindi pericolosi per l’uomo. «I pesci mangiano la plastica e poi possono avvelenare l’uomo», questo uno dei titoli di giornali e strilloni del web per allertare sulle conseguenze dannose dello sversamento in mare di tonnellate di plastica (e, appunto, ricompattate al largo in isole affatto ecologiche). Le recenti ricerche secondo cui in ben sei casi su dieci si sono ritrovati residui di questi derivati del petrolio nell’intestino di pesci predatori analizzati e provenienti da aree soggette ad inquinamenti vari fra cui, appunto, quello della spazzatura in plastica hanno fatto gridare all’allarme perché quella plastica ingerita potrebbe poi entrare nella catena alimentare e quindi giungere sino all’uomo, con esiti al momento non ancora chiari. Il suggerimento è quello di non consumare «troppo» pesce spada, «troppo» tonno, «troppi» pesci a rischio (già, ma quando il troppo è il «troppo»?)
Il problema però è un altro, e vorremmo sommessamente sottolinearlo proprio alla luce di quanto abbiamo affermato all’inizio: poiché la plastica ingerita a causa dell’introito causato dal consumo di pesci che si siano cibati a loro volta di minuscole particelle di plastica potrebbe non risultare così dannosa come si è soliti dire, strillando all’inizio notizie di questo genere, la conseguenza potrebbe essere quella di uno sgonfiamento del problema, una volta tranquillizzati da rassicurazioni tutte mirate a comprendere gli esiti sulla salute umana di situazioni che hanno ben altri risvolti. La consolazione che assumere quantità variabili di plastica provenienti dall’inquinamento marino potrebbe non avvelenare (come invece fa, detto per inciso, il mercurio) non ci sembra che possa essere una valida ragione per far finta di nulla: la plastica in mare (una bottiglietta o un’isola: la differenza è minima!) è un ecocidio a prescindere. Bisogna fare qualcosa e farlo subito. Anche se, alla fine della giostra, non avvelena l’uomo. Smettiamola di lanciare allarmi solo se la paura investe la nostra salute, della quale ci stiamo nevrotizzando in misura addirittura eccessiva: stiamo ammazzando il pianeta e questo basta e avanza per cambiare sia abitudini sia egocentrici punti di vista.