A proposito di talidomide, cancro e vivisezione…

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Le diverse specie hanno reagito in modo differente alla somministrazione del talidomide. I topi non presentavano tossicità anche a concentrazioni di 4.000 mg/kg. Il talidomide, però, causa anomalie congenite nell’uomo a 0,5 mg/kg. Il farmaco veniva prescritto in compresse da 50 mg per 50-200 mg/giorno. Il talidomide è stato ampiamente testato e molti studi hanno dimostrato che esso non causa deformità degli arti nei roditori o nelle cavie. I test su varie specie di cavie non hanno mostrato malformazioni dei feti dopo l’ingestione di talidomide da parte delle madri

In seguito alla mia missiva rivolta a Caterina Simonsen, che evidenziava i risvolti etici e scientifici della sperimentazione animale, si è acceso un fervente dibattito, spesso costruttivo e interessante, alle volte provocatorio e ignorante.
Alcuni detrattori della sperimentazione animale hanno sollevato dubbi sulla validità del caso «talidomide» come esempio di danni derivanti dai test sugli animali effettuati prima della messa in commercio dei farmaci e, in generale, hanno asserito che la sperimentazione animale non è solo necessaria, bensì da intensificare.
Secondo alcuni di loro le malformazioni causate ai nascituri dal passaggio ematico extraplacentale del racemo dannoso non furono dovute all’errata valutazione degli effetti sull’uomo del farmaco, ma alla colposa assenza di test di teratogenicità su cavie in gravidanza. Questo, a loro parere, confermerebbe che, se si fossero effettuati più test sugli animali, l’incredibile comparsa di amelia e focomelia nei bambini non ci sarebbe mai stata, perché il farmaco non sarebbe stato commercializzato.
Sebbene nella lettera avessi semplicemente accennato al fatto che la sperimentazione sugli animali, in quel caso fosse responsabile della sottovalutazione del rischio per l’uomo, come in molte altre situazioni (si veda ad esempio questo riferimento on line che cita 50 casi documentati con pubblicazioni su riviste mediche e biologiche di danni causati all’uomo derivanti dalla sperimentazione sugli animali), per onestà intellettuale e rigore scientifico ritengo opportuno fare alcune precisazioni in merito.
Innanzitutto, non è assolutamente vero che non vennero effettuati test sugli animali in gravidanza per il talidomide. I test di teratogenicità erano ben noti e comuni negli anni pre-talidomide e numerose review erano state pubblicate negli anni 50 e 60 con argomento: i test teratogenici (si veda la letteratura consigliata sotto). Gli studi sono stati così numerosi che Wilson nel 1979 ha suggerito che il numero di pubblicazioni scientifiche riguardanti gli effetti teratogeni e la teratologia in generale non sono nemmeno aumentati dopo il caso talidomide.
Roald Hoffmann, premio Nobel per la chimica, ha osservato che la sperimentazione animale per la teratogenicità dei nuovi farmaci era già di routine nelle principali aziende farmaceutiche. Infatti, ha dichiarato lo scienziato, i laboratori Hoffmann-LaRoche hanno pubblicato un importante studio sul sistema riproduttivo per il farmaco Librium nel 1959; i Laboratori Wallace hanno fatto lo stesso per il Miltown nel 1954. Entrambi gli studi sono precedenti al caso talidomide.
Il «Sunday Times» di Londra, il 27 giugno 1976 ha pubblicato i risultati di indagini molto approfondite sul disastro talidomide e ha dichiarato che nel 1958 i test di teratogenicità erano di prassi. Inoltre, secondo i ricercatori Stephens, Trent and Rock Brynner (The Dark Remedy: The Impact of Thalidomide and Its Revival as a Vital Medicine. Perseus Publishing, 2001), i test di tossicità sugli animali sono stati condotti prima del rilascio del talidomide.
Poiché tutti i registri dalla Grünenthal sono stati distrutti è difficile oggi, se non impossibile, sapere quali test siano stati eseguiti per il talidomide. Tuttavia, di sicuro i test di teratogenicità su animali erano comuni a quel tempo.
Certamente, una maggior sperimentazione sugli animali di quel farmaco non avrebbe impedito il disastro. C’è da rilevare, infatti, che si è proceduto in quel caso a ulteriori studi proprio perché erano stati rilevati effetti dannosi manifesti sull’uomo. La stessa Wikipedia (che alcuni commentatori della lettera hanno citato e che, evidentemente, non è la miglior primaria di documentazione in campo biomedico) riporta che: «Nel 1962 Somers ripeté l’esperimento del 1960 su animali gravidi e con una forma più biodisponibile, ed ottenne risultati positivi». La maggior biodisponibilità della forma galenica utilizzata e i ripetuti test (ben oltre, persino, l’attuale obbligo di legge per la sperimentazione su animali gravidi) confermarono qualcosa che a posteriori si sapeva già.
Ma maggior sperimentazione animale avrebbe mostrato, se non vi fossero state prima le evidenze sull’uomo, casi di teratogenicità? È probabile di sì, ma è altrettanto probabile che nessun effetto sarebbe stato comunque rilevato nei feti. Il talidomide, infatti, è una molecola complessa ed esiste come isomero S (-) e R (+). Ciascuno di essi ha diversi meccanismi d’azione ed effetti, un tratto comune a molti farmaci anestetico-simili. Si ritiene che l’isomero S (-) sia la variante teratogena, ma la tossicità di un farmaco può essere determinata, in parte, dai suoi metaboliti. Il talidomide si scompone in numerosi metaboliti e quindi gli effetti di interazione di ciascun metabolita con le cellule possono variare considerevolmente. Lu et al. nel 2004, ad esempio, hanno dimostrato l’esistenza di rilevanti differenze ed effetti specie-specifici nel metabolismo epatico del talidomide e hanno scoperto che l’emivita della molecola nel plasma era più breve nei topi che negli uomini. Gli scienziati non hanno trovato metaboliti idrossilati di talidomide negli esseri umani nonostante questi si fossero formati in elevate percentuali in alcune specie (ad esempio, la quantità del 5-hydroxythalidomide era alta nei topi, più bassa nei conigli e appena rilevabili negli esseri umani).
Simili differenze nel metabolismo possono avere implicazioni notevoli e differenziate per specie, per quanto riguarda la tossicità.
Chung et al. hanno osservato che i profili di concentrazione plasmatica, nel tempo, per i singoli pazienti umani trattati con talidomide erano molto simili tra loro, ma differenti e significative proprietà farmacocinetiche sono state rilevate tra pazienti umani e topi o conigli a cui era stato somministrato il talidomide.
In sintesi, le diverse specie hanno reagito in modo differente alla somministrazione del talidomide. I topi, ad esempio, non presentavano tossicità anche a concentrazioni di 4.000 mg/kg. Il talidomide, però, causa anomalie congenite nell’uomo a 0,5 mg/kg. Il farmaco veniva prescritto in compresse da 50 mg per 50-200 mg/giorno. Il talidomide è stato ampiamente testato e molti studi hanno dimostrato che esso non causa deformità degli arti nei roditori o nelle cavie. Secondo Homburger et al. i ratti in molti test hanno mostrato prevalentemente un aumento di riassorbimenti fetali e solo raramente qualche malformazione fetale, mentre i test su varie specie di cavie non hanno mostrato malformazioni dei feti dopo l’ingestione di talidomide da parte delle madri.
Newman et al. hanno dichiarato che «anche se le prove di alcuni studi hanno mostrato casi di embriotossicità usando dosi orali ≥100 mg/kg/die, l’esposizione al talidomide nel ratto non si traduce nella risposta teratogeno tipica e specifica». Somers ha dimostrato anche che «nei ratti non è possibile prevedere gli effetti teratogeni del talidomide».
Tuttavia, quando le cellule del roditore sono esposte al talidomide su substrato aortico o nei modelli di cornea, l’angiogenesi viene inibita. In base a questa constatazione, si potrebbe inferire che lo sviluppo di effetti teratogeni potrebbe essere influenzato proprio dall’angiogenesi. La mancanza di attività d’inibizione dell’angiogenesi in ratti e topi sani potrebbe essere dovuta alla differente via di metabolizzazione del talidomide nei roditori rispetto ai primati. Altri processi, come le differenze nei recettori o nella struttura delle barriere placentari possono essere ritenute concause.
Riporto sotto un’ampia letteratura per coloro che sono interessati ad approfondire il caso talidomide. Un’ottima review degli studi sul farmaco e della sperimentazione di questo sugli animali la si può trovare in Rete.
Ad ogni modo, ciò che mi stupisce è la superficialità e l’arroganza di molti detrattori della sperimentazione animale, che più o meno esperti del settore biomedico, si arrogano il diritto di difendere un modus operandi che continua a esistere solo perché nel XXI secolo ci ostiniamo ciecamente a dare più valore ai soldi che alla vita (è vero una capsula Petri per la sperimentazione in vitro costa non più di € 100, ma necessita di costosi reagenti, terreni di coltura, camere d’incubazione, termostati, molto più personale di ricerca, etc., mentre una cavia da laboratorio la si alimenta a basso costo, la si stabula, la si utilizza quando serve e poi la si sacrifica, anzi la si ammazza, con estrema indifferenza).
Ciò che mi fa riflette è come, al di là del caso talidomide, questi detrattori abbiano completamente ignorato le implicazioni etiche da me sollevate (che costituiscono buona parte della lettera) e che da tempo vengono poste in primo piano da chi sostiene che sacrificare migliaia di vite di animali non-umani per poterne forse (e male) curarne qualcuna umana è, comunque (validità scientifica o meno) un insensato sopruso del presuntuoso atteggiamento di una specie che si crede Dio onnipotente.
Ignorare la morale, quella bioetica tanto invocata e raramente applicata, è antiscientifico quanto mistificare le implicazioni di un approccio indegno da parte di quella categoria di viventi che con superbia definiamo umanità.
Secondo coloro che ignorano (e mi scrivono in questi giorni) l’etica della scienza e si attaccano a pagine buie della storia medica umana e adatta a piacimento teoria della selezione naturale per avvallare lo status quo, da biologo evolutivo, non dovrei stupirmi (come è stato evidenziato in alcune e-mail) «del fatto che una specie ne usi un’altra per sopravvivere/nutrirsi/migliorare le sue condizioni».
Invece, devo esser franco, mi stupisco di come una specie che sta devastando il pianeta su (e di) cui vive alla rincorsa di un obiettivo che essa stessa ignora, che si riproduce senza sosta e controllo occupando e distruggendo ogni ecosistema in cui staziona, che sfrutta ogni altro gruppo di viventi con ingordigia e violenza, che cerca di prolungare il suo naturale ciclo di vita a discapito della morte di milioni di altri esseri e, non riuscendo a violare le leggi di natura, s’impegna con tutte le sue forze a sezionare, ammalare, uccidere qualunque animale gli sia più comodo in questo bieco sforzo (che aumenta solo la quantità e non la qualità degli anni vissuti; continuo a ritenere che la ricerca di cure contro il cancro stenterà a decollare sino a quando non si punterà a un approccio olistico e sistemico, che analizzi i fattori scatenanti e gli effetti ambientali sull’organismo e non atomizzi meccanicisticamente organi e tessuti delle cavie alla ricerca di un’improbabile euristico elisir di guarigione), che pur di far carriera accademica (per questa ragione, pubblicare studi che non hanno previsto una fase sperimentale animale è pressoché impossibile su molte riviste) è disposta a torcere il collo a centinaia di animali innocenti e giustificare poi tutto questo con l’esigenza medica, mi stupisco, dicevo, di come l’Homo sapiens sapiens non riesca a trovare un’etica e un senso nel pensiero di chi è contro tutto ciò e lo addita, invece, come eco-terrorista o nazi-animalista.
È vero, in Natura, una specie ne usa un’altra «per sopravvivere/nutrirsi/migliorare le sue condizioni», ma mai con una tale presunzione. Mai con simile accanimento, ossessivo sfruttamento, indiscriminato sopruso. Soprattutto indirizzando la competizione verso la cooperazione. Altrimenti la straordinaria biodiversità di questo pianeta sarebbe già stata depletata (letteralmente, «liquefatta», tipico di una società liquida profetizzata da Zygmunt Bauman).
D’altro canto, se l’uomo accettasse come principio esistenziale e morale, basilare, semplicemente che «una specie ne usi un’altra per sopravvivere/nutrirsi/migliorare le sue condizioni» e giustificassimo in questo modo la sperimentazione animale (che è propriamente, al contrario di quanto sostengono i benpensanti, definita anche «vivisezione», poiché prevede spesso la ricerca e la dissezione di animali vivi anestetizzati), dovremmo anche accettare lo stupro e l’infanticidio (comportamenti presenti in molte specie, spesso causati da limitazione degli habitat e stress di origine antropogenica) che la «moralissima» umanità, in questi casi, ripudia. Sarebbero comportamenti altrettanto naturali, eppure vengono puniti con l’arresto nella società umana.
Perché, allora, l’utilizzo degli animali nella ricerca viene ritenuto esente da critiche, seppur scientificamente valide, considerato «puro» e addirittura da incentivare, nonostante faccia parte secondo alcuni della stessa categoria di comportamenti «d’utilizzo naturale» di una specie nei confronti delle altre?
Sarà che la Natura conviene seguirla quando ci fa più comodo e violentarla quando non ci è più utile. Così è sempre stato. Così è dall’avvento della civiltà, che ha creato un uomo doppiamente sapiens al punto di non essere più in grado di vivere senza doversi continuamente curare, senza dover ricorrere alla morte di altri per illudersi di aver allungato la propria di vita. Senza comprendere che conta la qualità e non la quantità (forse ci saranno più ottantenni di un lustro fa, ma quante sono le badanti oggigiorno e quanto è aumentata l’incidenza delle malattie neurodegenerative senili?).
Con rispetto per tutti nella speranza che questa sia stata e continui a essere l’occasione per un sano dibattito sulla sperimentazione, rinnovati auguri di guarigione a Caterina e a tanti che come lei sono affetti da molteplici patologie e un ringraziamento ai numerosissimi messaggi di sostegno, ma anche di educata critica (il resto è spazzatura cyberdeficiente).

Per la letteratura essenziale sul caso talidomide, citata nel testo, si veda: Greek R., Shanks N. and Rice M. J., The History and Implications of Testing Thalidomide on Animals, The Journal of Philosophy, Science & Law, Volume 11, October 3, 2011 www.miami.edu/ethics/jps.

 

Roberto Cazzolla Gatti, Biologo ambientale ed evolutivo