Niente ambiente… siamo politici

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Il palazzo di Montecitorio a Roma
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Quanti esponenti delle nostre forze politiche annoverano la protezione dell’ambiente e la prevenzione fra i problemi da affrontare con urgenza, non solo durante l’ultima campagna elettorale, ma persino all’uscita dalle consultazioni del Presidente della Repubblica per la formazione del nuovo governo? E gli italiani da «artisti», non meditano sulle lezioni del passato e non pensano al futuro, si vive solo nel presente

– Perché questo dibattito on line – Gli interventi di Ugo LeoneWalter GanapiniMassimo Scalia

Continuiamo il nostro dibattito sulla situazione italiana e il territorio. L’intervento di Alessandro Martelli *, noto esperto internazionale nel campo delle costruzioni antisismiche, calca la mano sull’impalcatura legislativa fortemente carente ma soprattutto sulla mancanza di volontà politica nell’applicarla e offre una sua chiave di lettura.

L’anno scorso «Villaggio Globale» pubblicò alcuni miei articoli in cui sottolineavo la mancanza, in Italia, di adeguate politiche di prevenzione dal terremoto e dagli altri rischi naturali (politiche atte, in particolare, a proteggere da essi le scuole e gli altri edifici strategici e pubblici). L’ultimo di tali articoli, da me scritto assieme agli amici proff. Alessandro De Stefano del Politecnico di Torino e Benedetto De Vivo dell’Università di Napoli «Federico II», riguardava il grave stato di insicurezza degli ospedali italiani. La rivista lo pubblicò nel numero di dicembre, intitolandolo, come peraltro da me suggerito, «Ma in che mani siamo?». 

A seguito dei primi interventi che ho letto di recente nell’ambito del dibattito on line promosso da «Villaggio Globale», «tendente a capire dov’è finito l’ambientalismo italiano, che strade ha percorso e perché siamo così arretrati dopo anni intensi di elaborazioni scientifiche, iniziative e leggi anche storiche», ho ripensato a quel titolo. Mi sono reso conto del fatto che, forse, esso è incompleto, che, con il mio «j’accuse» parziale, limitato ai rappresentanti delle nostre Istituzioni, sono caduto anch’io in uno degli italici vizi, quello di dar sempre tutta la colpa ad altri di ciò che di male ci accade, senza indagare su quella che è la nostra parte di colpa (dove per «nostra» intendo quella di tutti noi cittadini).

Onestamente, forse, all’interrogativo espresso da quel titolo occorrerebbe dare la risposta «siamo nelle nostre mani», o, almeno «siamo in mani molto simili alle nostre». Infatti, i rappresentanti delle nostre Istituzioni sono persone da noi elette. Pertanto, non possono essere (molto) peggiori di noi.

Credo, infatti, che, alla base dell’attuale drammatico stato di degrado dell’ambiente in Italia e degli elevati rischi che ciò comporta, sia in condizioni cosiddette «normali» (inquinamento continuo di varia origine, in primis industriale o conseguente a depositi o rilasci abusivi di sostanze pericolose), sia a fronte di tutti gli eventi incidentali che periodicamente interessano il nostro territorio (terremoti, frane, alluvioni, incendi, incidenti in impianti industriali, disastri ferroviari, ecc.), ci siano gli italici difetti. Come dimostra la nostra storia, l’Italia è terra di geni e di artisti, frutto (positivo) anche di un (negativo) nostro individualismo sfrenato. È questo individualismo sfrenato, infatti, che ci rende incapaci non tanto di ideare, quanto di portare a termine grandi progetti che richiedano umile lavoro di gruppo (alla tedesca od alla giapponese, per intenderci). Anche questo è facilmente verificabile. E quelli volti alla protezione dell’ambiente ed alla prevenzione sono grandi progetti.

Da «artisti», non meditiamo sulle lezioni del passato e non pensiamo al futuro, viviamo solo nel presente. Pertanto, come Paese, non investiamo nel futuro; anzi, a mio avviso, la mentalità dell’investimento non l’abbiamo proprio (o non l’abbiamo più). Lo dimostrano non solo gli esigui fondi dedicati alla protezione dell’ambiente ed alla prevenzione, ma anche (ad esempio) quelli, altrettanto esigui, stanziati per la ricerca scientifica, nonché la scarsissima attenzione che i nostri governanti ed i nostri rappresentanti a Bruxelles prestano ad assicurarci un rientro accettabile, tramite il finanziamento dei nostri progetti comunitari, dei cospicui contributi che, per la ricerca stessa, paghiamo all’Europa. La ricerca non porta a risultati oggi, né domani, ma solo dopo anni (però li porta eccome, ed in altri paesi di ciò si è ben consci).
Il ricercatore, da noi, dunque, è considerato dall’opinione pubblica quasi alla stregua di qualcuno che lavora solo per il proprio diletto, a spese della comunità, di un perditempo, e lo Stato lo sottopaga. L’industria italiana, poi, investe in ricerca ancor meno dello Stato e preferisce ora andare a produrre in paesi che offrono mano d’opera a basso costo.

Subito dopo la laurea, all’inizio degli anni 70, lavorai 5 anni all’estero, in Germania, Usa e Francia (purtroppo, poi, tornai…) e verificai le differenze: gli italiani spesso eccellono se inseriti in organizzazioni funzionanti, come quelle esistenti nei paesi succitati. Anche dopo essere rientrato in Italia, per le attività di ingegneria sismica che ho svolto all’Enea, ho continuato a collaborare attivamente con tanti altri paesi (Giappone ovviamente incluso, dato il mio tipo di attività) ed ho viaggiato parecchio. Sono stato fra i primi, nel settore della sismica, ad ottenere finanziamenti dall’Europa. Per ottenerli, però, ho dovuto inserire nelle partnership, regalando loro nostre idee, grandi aziende estere (tedesche, francesi), in grado di fare lobby e di far approvare i progetti: i nostri funzionari in Europa (salvo alcune nobili eccezioni) pensavano solo alla loro carriera, magari «servendo» gli interessi di altri paesi, dato che dall’Italia non potevano aspettarsi gran che (mentre, ad esempio, i funzionari francesi, arruolati tutti nel «Club Innovation», non sgarravano, ma, a fronte di buoni risultati, dal loro paese erano premiati).

È dal nostro individualismo sfrenato che discendono, dunque, a mio avviso:
l’assenza di qualsiasi mentalità di «investimento»;
la conseguente scarsissima percezione dei rischi in Italia, a tutti i livelli (popolazione ed Istituzioni di ogni ordine e grado);
l’incompetenza e la superficialità (quantomeno) dei nostri rappresentanti istituzionali e dei responsabili degli Enti preposti, in materia di protezione dell’ambiente e di prevenzione;
last but not least, che ogni catastrofe sia considerata da molti (pure se non ridono al telefono) un ottimo affare, anche in considerazione delle procedure di emergenza (cioè al di fuori di qualsiasi usuale regola di trasparenza e senza gli usuali controlli) adottate per distribuire i finanziamenti.

Non vorrei essere troppo malevolo, ma sospetto fortemente che, fra le cause del continuo rinvio dell’adozione di adeguate politiche di prevenzione e di protezione dell’ambiente, influiscano non solo l’incapacità, ma anche gli interessi di chi, con l’emergenza, si arricchisce.

Così come sospetto che il continuo rinvio dell’entrata in vigore obbligatoria di nuove normative atte a proteggere la vita e l’ambiente risponda all’interesse di alcuni gruppi, a scapito della sicurezza. Per fare qualche esempio che, in parte, ho già citato in miei precedenti articoli, basti ricordare, circa la protezione dal terremoto, che l’obbligo di utilizzare la nuova normativa sismica per la progettazione degli edifici fu rinviata ogni anno, dal 2003, fino all’estate del 2009, «grazie» ai cosiddetti decreti «milleproroghe» ed alle «furbate» di nostri compiacenti parlamentari: fu solo «grazie» al terremoto in Abruzzo che tale pratica perversa cessò. Non basta, perché la data ultima per l’effettuazione delle analisi di vulnerabilità sismica degli edifici strategici e pubblici, dal 2003 è stata prorogata, con analoghi «strumenti», addirittura fino alla fine di marzo dell’anno scorso (e tale obbligo non risulta esser stato ancora da tutti rispettato).
E, purtroppo, non basta ancora, perché la Legge 8 novembre 2013, n. 128, «conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 12 settembre 2013, n. 104, recante misure urgenti in materia di istruzione, università e ricerca» (13G00172, GU Serie Generale n. 264 del 11-11-2013), entrata in vigore del provvedimento del 12 novembre 2013, recita, all’Art. 10-bis. («Disposizioni in materia di prevenzione degli incendi negli edifici scolastici»): «Le vigenti disposizioni legislative e regolamentari in materia di prevenzione degli incendi per l’edilizia scolastica sono attuate entro il 31 dicembre 2015 (sic). Con decreto del ministro dell’Interno, ai sensi dell’articolo 15 del decreto legislativo 8 marzo 2006, n. 139, da emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, tenendo conto della normativa sulla costituzione delle classi di cui agli articoli 9, 10, 11 e 12 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 2009, n. 81, sono definite e articolate, con scadenze differenziate, le prescrizioni per l’attuazione».

Infine, è ben triste constatare come, in molti casi (si veda, ad esempio, quello dell’Ilva di Taranto), l’inerzia di decenni costringa la magistratura ad intervenire pesantemente e porti allo scontro fra le esigenze della sicurezza e quelle del lavoro: un ricatto bello e buono!

Di questa situazione, a mio parere, anche le associazioni ambientalistiche hanno la loro parte di colpe: ritengo che, troppo spesso, alcune di esse abbiano disperso e tuttora disperdano la loro credibilità con azioni dettate solamente da opinabili ideologie: mi riferisco, ad esempio, alle vecchie battaglie contro il nucleare (che, a mio avviso, invece, può essere sicuro ed utile, anche per l’ambiente, se correttamente realizzato), nonché alle attuali battaglie contro la Tav.

Ciò detto, che possiamo fare? Andarcene a stare in un paese più civile o almeno spedirci i nostri figli? Voglio sperare che questa non sia l’unica soluzione, ma che sia possibile ravvederci. A tal fine, però, occorre, prima di tutto rapidamente «cambiare testa» e che lo facciamo tutti noi, acquisendo rispetto per gli altri e per l’ambiente, nonché percezione dei rischi. Poi occorre votare bene, «mandando casa» i nostri rappresentanti nazionali, regionali e locali che tale rispetto e tale percezione non dimostrano (quanti esponenti delle nostre forze politiche avete udito annoverare la protezione dell’ambiente e la prevenzione fra i problemi da affrontare con urgenza, non solo durante l’ultima campagna elettorale, ma persino ieri, all’uscita dalle consultazioni del Presidente della Repubblica per la formazione del nuovo governo?).

Infine, le associazioni ambientalistiche, d’ora in poi, devono concentrarsi solo su istanze serie, sui problemi veri.

La mia è una risposta forse banale, ma spero non (del tutto) utopistica. Comunque, per sperare di arrivare a qualche risultato è indispensabile che chi, sui temi ambientali, è più competente e più sensibile (di persone così ce ne sono, anche in Italia) incrementi da subito i suoi sforzi per una corretta formazione ed informazione, che «rompa le scatole», ancor di più di quanto non faccia oggi e denunciando (senza farsi intimidire) tutto ciò che va denunciato, e, soprattutto, che faccia lobby. Facile? No di certo.

 

* Presidente dell’associazione Glis (Isolamento ed altre Strategie di Progettazione Antisismica) e dell’International Seismic Safety Organization (Isso); presidente fondatore ed attuale vicepresidente e coordinatore della Sezione Territoriale dell’Unione europea e degli altri paesi dell’Europa occidentale dell’Anti-Seismic Systems International Society (Assisi); coordinatore del Task Group 5 on Seismic Isolation of Structures dell’European Association for Earthquake Engineering (Eaee-TG5); membro del consiglio direttivo dell’Associazione nazionale italiana di ingegneria sismica (Anidis) in rappresentanza del Glis; membro del Collegio dei Docenti del Dottorato di Ricerca in «Ingegneria Civile, Ambiente e Territorio, Edile e in Chimica» del Politecnico di Bari