E se i medici prescrivessero di adottare un animale?

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foto di A. Perrini
Foto di A. Perrini
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Gli animali, la loro compagnia, la condivisione di una parte della nostra esistenza non curano le malattie, certo. O almeno non le curano tutte. Ma sarebbero una spinta notevole a tornare a darci una visione diversa e migliore del nostro rapporto possibile con gli altri abitanti della terra, tornando a proporre una visione più ampia della nostra esperienza di umani

Qualche volta mi piacerebbe addirittura scriverlo in ricetta, prescriverlo come fosse un farmaco anzi meglio. Con meno effetti collaterali, con meno controindicazioni, con più effetti benefici e sicuramente più sorrisi. Mi piacerebbe vedere la faccia dei miei pazienti dinanzi ad una proposta così «strana» o inconsueta eppure così logica, razionale, gioiosa e ragionevole. Un cane, un gatto, dei pesciolini rossi o qualsiasi animale che possa essere di compagnia e regalare un nuovo ed ulteriore motivo di vita e di benessere.
Mi piacerebbe scoprire le reazioni dinanzi ad un foglietto di indicazioni mediche che non indirizzasse poi alla farmacia o verso uno specialista oppure ancora verso un centro diagnostico o terapeutico ma che costringesse a chiedersi come iniziare un’avventura di vita (e di salute) a partire da un nuovo compagno di esperienze, cercandolo in un negozio di animali o da un amico o da conoscenti, meglio ancora prelevandolo da un canile o sottraendolo alla strada.
Perché un animale al quale proponiamo la nostra amicizia ed il nostro calore, al quale decidiamo di concedere un po’ del nostro tempo e dal quale avremo in cambio mille attenzioni e premure (sicuramente più di quante noi ne possiamo dedicare a lui) diventa portatore di una diversa maniera di rapportarci a noi ed al mondo. Diventa interprete diverso anche di quelli che sono i nostri malesseri e le nostre a volte troppo spesso ingigantite «malattie» per farci tornare in un universo di reciprocità di sentimenti dei quali la nostra società si sta gradualmente scordando mettendo sempre più al centro della nostra esperienza esistenziale un controllo tecnicistico e nevrotico di quei parametri che di volta in volta vengono venduti o spacciati come predittori di presunta buona salute e quindi forieri di lunga vita.
Vien da farli, questi pensieri, quando sempre più frequentemente pensiamo di ridurre il problema della depressione a fatto biochimico o neurormonale per trattarlo poi, e conseguentemente, esclusivamente con farmaci e tisane. Vien da farli, questi pensieri, quando pensiamo che lo stress debba esser combattuto solo ed esclusivamente con ansiolitici di varia fattura o quando ci convinciamo che un estratto erboristico possa regalarci quella quiete dell’animo che invece ha immancabilmente motivazioni ben più profonde di quelle che possano essere gestite da una ventina di gocce di tranquillante o da un thé bevuto con animo fiducioso.
Siamo abituati, anche se solo ultimamente, a pensare agli animali d’affezione come possibili protagonisti di pet therapy per pazienti o situazioni particolari ed abbiamo imparato che un cavallo o un cane o un gattino possono risvegliare o tenere desta l’attenzione di quanti hanno problemi di reattività neurologica o deficit o che necessitino di percorsi di recupero funzionale a vari livelli.
I risultati sono brillanti, ne siamo divenuti consapevoli, e l’univocità delle reazioni è tale e talmente entusiastica da non lasciare spazio a dubbi di sorta. Ma non basta, o meglio è possibile comprendere di più e fare di più.
Mi riferisco alla possibilità di affidare, alla nascente amicizia con un animale qualsiasi, quel diffuso senso di tristezza, inadeguatezza, solitudine, invecchiamento e molto altro che vediamo comparire con tanta regolarità. In persone che non riescono a riconoscere pienezza al tipo di vita che hanno o in coloro che sentono passare gli anni e maturano un senso di apprensione e malinconia o in quelli che sono così tanto presi dal controllare fobicamente ciò che avviene nel proprio corpo da non riuscire più ad intravedere una diversa maniera di relazionarsi col mondo esterno. Rivolgendosi quindi al medico (ed alla medicina) a cui chiedono ossessivamente di poter star meglio, in qualsiasi modo, con qualsiasi nuovo farmaco, dopo qualsiasi esame possibilmente nuovo, ultratecnologico, superpreciso.
E invece scopri che se quella persona sceglie di condividere la propria vita con un gattino, con un cagnetto, con degli uccellini o anche con dei pesciolini rossi finirà per cambiare: un po’ o tanto, chissà. Ma sicuramente cambiare.
Ricomincerà a scoprire l’apprensione per uno stato di silenzio e la gioia di un assalto amichevole, comincerà a pensare all’appetito del cagnolino e non solo al proprio, smetterà di tormentarsi alla ricerca di una malattia presunta, nel proprio organismo, per farsi un po’ ubriacare dall’amicizia con un essere vivente pieno di allegria e di voglia di vivere.
Gli animali, la loro compagnia, la condivisione di una parte della nostra esistenza non curano le malattie, certo. O almeno non le curano tutte. Ma sarebbero una spinta notevole a tornare a darci una visione diversa e migliore del nostro rapporto possibile con gli altri abitanti della terra, tornando a proporre una visione più ampia della nostra esperienza di umani.
Qualche volta mi piacerebbe scriverle in ricetta, queste cose. Come se fossero un farmaco. Anzi, meglio. E forse una volta o l’altra queste cose le scriverò.

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