L’illusione che adattarsi sia questione di tecnica e non di fisiologia sta producendo più danni che benefici. La vita si adatta in maniera vitalistica, non tecnologica. Se pure fossimo in grado di ridurre ai livelli del 1950 le emissioni la loro concentrazione si manterrà a livelli preoccupanti per molti altri secoli. I mutamenti del clima vanno ridotti, ma anche affrontati con un approccio che tenga conto delle strategie messe in atto dalle specie e dagli ecosistemi in cui queste vivono
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Qualche anno fa, invitato come esperto sul tema dall’Iucn, mi fu proposto di coordinare insieme ad altri due rinomati scienziati un lavoro di ricerca sulle strategie di adattamento messe in opera in tutto il mondo per far fronte ai mutamenti climatici. Il tutto doveva confluire in un libro, che sarebbe poi inaspettatamente diventato uno dei più citati sul tema, dal titolo «Building resilience to climate change: Ecosystem-based adaptation and lesson from the field» (Andrade Perez A.P., Herrera Fernandez B., Gatti Cazzolla R., (eds.) Ecosystem management series, 9, Iucn, Gland, 2010).
L’adattamento, scrivevamo nel testo, l’insieme degli adeguamenti naturali o dei sistemi umani in risposta a stimoli effettivi o previsti (Ipcc 2007), sta diventando un parte sempre più importante della discussione sulle strategie ambientali, in particolare nei Paesi in via di sviluppo sottoposti a un rischio maggiore dovuto ai cambiamenti climatici. Una delle principali sfide per l’adattamento è comprendere e dimostrare come l’adattamento funzioni e quali siano le implicazioni per la resilienza. Questa tipologia dinamica di adattamento consente di promuovere la resilienza sia degli ecosistemi sia delle società umane, al di là delle opzioni tecnologiche semplici focalizzate principalmente sulla costruzione di infrastrutture e altre misure simili.
Recenti studi, sottolineavamo nel libro, hanno dimostrato un impatto negativo di molte strategie di adattamento sulla biodiversità, soprattutto nel caso delle barriere difensive costruite per impedire le inondazioni costiere. Simili strategie potrebbero tramutarsi nel cosiddetto «mal-adattamento» nel lungo termine, se le componenti ecologiche che regolano gli ecosistemi vengono alterate. D’altro canto, le strategie di adattamento che incorporano la gestione delle risorse naturali possono risultare positive per l’uomo e la biodiversità. In questo contesto, esiste una forte necessità di sviluppare strategie di adattamento per la tutela della biodiversità e la gestione delle risorse naturali. Questo aspetto è rilevante, non solo per il raggiungimento degli obiettivi di conservazione della biodiversità, ma anche per mantenere quei servizi ecosistemici che forniscono il cosiddetto «adattamento sociale».
Prima della pubblicazione del libro alcuni autori avevano sottolineato la necessità di avere esempi operativi di principi di adattamento e hanno raccomandato lo sviluppo di un processo di pianificazione dell’adattamento pratico per sostenere le attuali politiche e migliorare l’integrazione delle scienze sociali nei programmi di pianificazione.
C’è poco tempo
Secondo l’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc), pubblicato quest’anno, la temperatura globale del pianeta potrebbe aumentare oltre la soglia di sicurezza di 2°C entro la fine di questo secolo, raggiungendo un punto di non ritorno, se non si agirà in maniera drastica. Gli incrementi di temperatura sono legati ai mutamenti dei regimi di precipitazione e le differenti regioni del mondo riceveranno una quantità di piogge maggiore o minore rispetto all’attuale. Vi è, inoltre, già un incremento nell’incidenza e nella gravità degli eventi estremi (ad esempio, uragani e inondazioni).
Lo stesso rapporto afferma che il cambiamento climatico avrà impatti significativi sulla biodiversità a diversi livelli di organizzazione. Studi focalizzati sugli impatti per la biodiversità hanno dimostrato che vi sono cambiamenti significativi per gli ecosistemi e di distribuzioni delle specie, principalmente a causa della crescente temperatura e dei regimi di precipitazione alterati. Queste variazioni nella distribuzione delle specie porteranno a un aumento dei tassi di estinzione.
Inoltre, si prevede che i cambiamenti climatici alterino la composizione delle specie di molti ecosistemi, modificandone la loro funzionalità a causa della riduzioni della ricchezza specifica. L’invasione prevista di specie alloctone in numerosi ecosistemi è stata anche indicata come una delle principali cause di squilibri negli ecosistemi a causa dei mutamenti climatici.
Gli impatti dei cambiamenti climatici
Molti studi condotti in diverse parti del mondo hanno già dimostrato che gli impatti dei cambiamenti climatici influenzano la pesca, il ciclo dell’acqua e del carbonio e i processi di sequestro di quest’ultimo. Il cambiamento climatico può incidere anche sulle interazioni ecologiche tra cui le simbiosi, le competizioni, le relazioni predatore-preda, le malattie e le interazioni ospite-parassita, l’impollinazione, e l’erbivoria.
Le varie nazioni stanno iniziando, solo ora e con molto ritardo rispetto ai moniti degli scienziati, a sviluppare e attuare politiche di adattamento per far fronte gli impatti suddetti. Tali strategie sono una delle due principali risposte che abbiano per scongiurare danni irreversibili. L’altra possibilità è la mitigazione, cioè la riduzione delle emissioni di gas serra in atmosfera. Ovviamente l’attuazione della prima possibilità può fornire una scusante per i governi per rimandare le politiche serie di riduzione drastica dell’emissione di GHG (gas climalteranti).
Certamente, l’adattamento senza la mitigazione non ha alcun senso, ma è bene chiarire che anche la mitigazione senza adattamento non può funzionare. Perché le specie, dagli albori della vita sulla Terra, si sono sempre adattate ai mutamenti ambientali, solitamente in modo inconsapevole attraverso l’evoluzione e la selezione naturale. Per la prima volta nel corso della storia naturale un’unica specie (che è anche la principale modificatrice degli equilibri climatici) ha la possibilità di riflettere su come indirizzare l’adattamento evolutivo a un clima che cambia. Ma sta sbagliando quasi tutto. L’illusione che adattarsi sia questione di tecnica e non di fisiologia sta producendo più danni che benefici. La vita si adatta in maniera vitalistica, non tecnologica. Se pure fossimo in grado di ridurre ai livelli del 1950 le nostre emissioni (e dovremmo farlo, altrimenti l’adattamento sarà solo un ridicolo viatico) la concentrazione di GHG si manterrà a livelli preoccupanti in atmosfera per molti altri secoli. I mutamenti del clima vanno ridotti (limitando le emissioni in meno di 30 anni), ma allo stesso tempo vanno affrontati mediante un approccio che tenga conto delle strategie messe in atto dalle specie e dagli ecosistemi in cui queste vivono.
La dicotomia non è tra mitigazione (riduzione della CO2) e adattamento (resilienza agli effetti), ma tra non voler far nulla (e illudere il mondo che l’adattamento ci salverà) e fare tutto il possibile (ponendo in essere un drastico taglio alle emissioni, mentre si tenta di affrontare i cambiamenti che inevitabilmente verranno).
Secondo Campbell et al. (2009) le strategie di adattamento tendono a concentrarsi su aspetti tecnologici, strutturali, sociali ed economici e mancano i collegamenti con la biodiversità. Tuttavia, sono chiare oggigiorno le evidenze tra la biodiversità e il cambiamento climatico (Cbd, 2009).
La quantificazione della vulnerabilità (definita dall’Ipcc come il grado in cui un sistema è suscettibile, o ha la capacità di far fronte agli effetti negativi del clima, compresa la variabilità e gli estremi) è uno strumento fondamentale per comprendere dove il cambiamento climatico ha effetti maggiori e quali siano gli ecosistemi più suscettibili.
Quale adattamento
La valutazione della vulnerabilità è il fondamento per qualsiasi strategia di adattamento ecologico. Se ben condotte, queste analisi sono la chiave per lo sviluppo di soluzioni adattative efficaci che forniscono all’umanità la capacità di adattarsi e alla natura la possibilità di «aggiustare» se stessa nel miglior modo possibile e in maniera tempestiva, permettendogli di far fronte ai rapidi cambiamenti che si verificano nei suoi processi.
L’adattamento ai cambiamenti climatici non è un fenomeno nuovo. Nel corso della storia umana, le società si sono adattate alla variabilità del clima modificando ad esempio gli insediamenti, i modelli agricoli e gli stili di vita. L’adattamento nella storia umana è stato, nella maggior parte dei casi, un successo. Tuttavia, il numero di società collassate (come spiega Jared Diamond nel suo famoso libro «Collasso») dimostra che non tutte le culture hanno avuto la possibilità di cambiare i loro modelli di vita in modo tempestivo e sono state capaci di sopravvivere ai cambiamenti climatici e ambientali. Nel 1992, il cambiamento climatico e le sue conseguenze sulla sostenibilità della società attuali hanno dato origine alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici (Unfccc), firmata a Rio de Janeiro in Brasile. I primi sforzi della Unfccc erano diretti verso la creazione e l’attuazione di misure di mitigazione.
Tuttavia, consapevoli che gli effetti dei cambiamenti climatici sono inevitabili nel breve e medio termine (e di fatto già si verificano) l’adattamento è visto ora nel contesto internazionale come una strategia altrettanto importante, insieme alla mitigazione. Purtroppo, la teoria e la pratica dell’adattamento al cambiamento climatico sono solo in fase embrionale e molto resta ancora da fare per garantire che le misure di resilienza siano ben progettate e realizzate con successo.
L’adattamento è importante in tutti i paesi, ma soprattutto in quelli meno sviluppati, nelle piccole isole, in quelli in via di sviluppo e in stati che hanno economie che dipendono da settori più suscettibili al clima come l’agricoltura, il turismo e la pesca. Inoltre, l’Ipcc afferma che il cambiamento climatico colpisce le comunità umane più povere in maniera molto più rilevante rispetto alle altre. Queste comunità sono spesso emarginate e ricevono servizi limitati e scarso sostegno dai governi.
Tale situazione ha promosso il concetto di «adattamento basato sulle comunità», che racchiude una serie di attività volte a stimolare l’adattamento da parte delle comunità locali e le persone più povere in maniera integrata e partecipativa. In termini di biodiversità, l’adattamento efficace è un adeguamento che prepara un ecosistema o una comunità a condizioni nuove o diverse senza semplificazioni o perdita delle loro strutture, funzioni e componenti. Le risposte naturali della biodiversità ai cambiamenti derivanti da nuove situazioni ambientali sono note come «aggiustamenti autonomi». Questi includono proprietà quali resistenza, il recupero di capacità (resilienza), la vulnerabilità e la sensibilità alle variazioni.
Le agenzie speciali e buona parte della comunità scientifica ritengono, tuttavia, che (considerate le rapide variazioni causate dall’uomo) gli adattamenti autonomi, gestiti naturalmente, non saranno sufficienti per arrestare la perdita di biodiversità e di servizi ecosistemici. Pertanto, lo sviluppo di attività messe in atto dalle società umane e conosciute col nome di (adattamento programmato) sembra essere fondamentale.
Queste azioni dovrebbero svilupparsi in diversi settori come l’agricoltura, la gestione delle risorse idriche, lo sviluppo di infrastrutture sostenibili e applicate a diversi livelli di pianificazione: locale, regionale, nazionale e internazionale. L’Ecosystem-based Adaptation (Eba) è un approccio che sviluppa resilienza e riduce la vulnerabilità delle comunità locali ai cambiamenti del clima. Attraverso la considerazione dei servizi ecosistemici da cui dipendono le persone per adattarsi ai cambiamenti climatici, l’Eba integra l’uso sostenibile della biodiversità e dei servizi ecosistemici con le strategie di adattamento (Cbd, 2009). L’adattamento viene così visto come un elemento chiave per la creazione di una società resiliente. L’Eba pone speciale enfasi sui servizi ecosistemici che sono alla base del benessere umano di fronte ai cambiamenti climatici. Secondo la Banca Mondiale la gestione sostenibile degli ecosistemi in grado di fornire vantaggi sociali, economici e ambientali, può essere ottenuta sia direttamente attraverso un utilizzo più compatibile delle risorse biologiche e sia indirettamente attraverso la protezione dei servizi ecosistemici. In questo modo, però, si continua ad anteporre un interesse economico a uno di tipo ecologico.
Gli ecosistemi
Continuando a parlare di «gestione degli ecosistemi» si presuppone il potere dell’uomo nel plasmare a proprio piacimento la natura che è l’esatto opposto di un adattamento ecologico alle mutevoli condizioni ambientali. Quest’ultimo non deve prescindere dal riconoscere che gli esseri umani sono parte integrante della natura e interdipendenti (con mutuale beneficio) ai sistemi ecologici. Il concetto di Eba integra e supporta il concetto già citato di «community-based adaptation». Esso comprende una vasta gamma di strategie attuabili a livello locale, di comunità, che consentano di affrontare i cambiamenti climatici in modo efficace. L’Eba dovrebbe essere applicato in modo appropriato, come parte di una strategia di adattamento più ampia, che potrebbe anche includere l’educazione, la formazione, la sensibilizzazione e lo sviluppo di sistemi di allarme rapido (early warning systems). Gli obiettivi principali del Eba sono, pertanto, promuovere la resilienza delle comunità garantendo il mantenimento dei servizi ecosistemici, supportando l’adeguamento dei diversi settori sociali, riducendo il rischio di disastro e prevenendo quel «mal-adattamento» che può essere il risultato di una mancanza di informazioni e di elevati livelli di incertezza. Così, le strategie di Eba che promuovono la resilienza degli ecosistemi (e delle comunità che da essi dipendono) ai cambiamenti climatici, assicurando la continuità della fornitura di beni e servizi, sono di particolare importanza per i paesi poveri del mondo e i più vulnerabili.
Adattarsi è la risposta biologica ai cambiamenti esterni. Darwin ha illustrato al mondo come questo continuo evolversi permetta alle specie di sopravvivere. Le capacità di adattamento delle specie, però, non sono sempre proporzionali alla rapidità con cui i mutamenti climatici stanno avvenendo sul pianeta. L’intervento della nostra orba specie ha alterato profondamente equilibri consolidatisi in milioni di anni. Ora, sperare che tutto possa risolversi smettendo di emettere GHG, dopo un secolo di follia tecno-energivora, è una mera illusione. D’altronde, credere di avere, oltre al potere di distruggere, anche quello di «forzare» (o aiutare, come ci piace credere) la Natura ad adattarsi ai nostri sconvolgimenti, è una ridicola presunzione.
Se non freneremo la corsa verso il nulla che spreca risorse ed energie per un effimero benessere, adattarci sarà sempre più difficile. Se, invece, sapremo rinunciare con gioia a uno sfarzo inutile e poco gratificante in cambio di tempo per permettere agli ecosistemi di adattarsi senza grande opera del deus ex machina umano, allora qualunque strategia di adattamento sarà valida perché indirizzata dalla Natura in toto e non da un’unica arrogante e capricciosa specie, che rompe complessi giocattoli e pretende di aggiustarli continuando a lanciarli dalla finestra.