Il solare e l’eolico sono stati re-imposti alla grande sulla ribalta italiana, anche quella futura, dalle determinazioni dell’ultimo Consiglio europeo del 23/24 ottobre 2014. I termini di questi accordi erano in realtà già definiti prima dell’estate, cioè prima del crollo del prezzo del petrolio, che forse i nostri mediatori italiani nella stesura di quegli accordi non avevano previsto.
In Italia e negli altri Pigs (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna) purtroppo le elaborazioni che portano a questi accordi non sono minimamente seguite dall’opinione pubblica, e persino i contenuti poi formalizzati di queste determinazioni sono più supposti che conosciuti, in quanto spesso considerati ovvi e banali, come fossero orientati solo ed esclusivamente alla salvaguardia del clima, in un embrassons nous generale e generico.
Non così in altri Paesi. Si veda ad es. l’«Economist» del 1° Novembre 2014 dove l’editorialista trova strano che in Europa i gravissimi problemi economici sembrino surclassati da un’accanita attenzione verso il clima. Apparentemente, ma non realmente. Idealisti in Ue ce n’è di sicuro, in Italia è pieno, ma c’è pure chi non lo è affatto. All’«Economist» non sfugge in quegli accordi una pertinenza radicalmente diversificata e divergente: della riduzione delle emissioni da un lato e dell’aumento delle rinnovabili dall’altro. Differenza che dovrebbe allarmare proprio i Pigs, cioè i Paesi la cui l’economia è più fossil-dipendente. Da un lato, sottolinea l’«Economist», l’obbligo di ridurre ulteriormente le emissioni di gas-serra graverà sui singoli Stati membri in proporzione percentuale diretta con le rispettive emissioni nazionali attuali. Viceversa, l’impegno ad aumentare la percentuale di rinnovabili non sarà nazionale, bensì del collettivo dei 28: ogni singolo Paese potrà contribuirvi sino al 40%, o anche oltre, dice l’agreement, ma quel che conta è che a qualcuno è consentito scendere sino allo 0%, se ha ridotto in altro modo le emissioni. La divaricazione quindi aumenterà ancora. Da un lato staranno ancora meglio i Paesi la cui economia non ha bisogno di contrarsi per ridurre le emissioni essendo dotati del nucleare1. Dall’altro lato staranno ancora peggio quelli come l’Italia, che invece devono scegliere fra tre rimedi: o comprimere ulteriormente la propria economia fossil-dipendente (anche mentre il prezzo del petrolio ribassa), o pagare multe salate, oppure spendere ancor di più nelle rinnovabili, senza che questa terza opzione risolva, per la sua intermittenza, il bisogno di ricorre alle due precedenti.
Noi italiani dovremmo leggerci l’accordo, in originale inglese, oppure in italiano.
L’«Economist» ironizza su chi punirà il mancato rispetto di tale obiettivo sulle rinnovabili, «vincolante» per eventuali imputati che coinciderebbero con gli stessi giudici. Recita infatti l’accordo: «Questo obiettivo sarà vincolante a livello dell’Ue e sarà realizzato mediante i contributi degli Stati membri informati all’esigenza di raggiungere collettivamente l’obiettivo dell’Ue».
In realtà, l’unico vincolo grava sugli Stati membri che non tagliassero le loro eccessive emissioni, non essendo dotati di nucleare o di sufficiente idroelettrico: per questi soli l’aumento delle costose ed intermittenti rinnovabili diventa obbligatorio. In Italia dovremo quindi aumentare la nostra quota percentuale di energia da rinnovabili, che già l’anno scorso ci è costata tredici miliardi e ce ne ha resi tre2. Per il resto siamo ancora più liberi di prima di scegliere fra le solite altre due opzioni: se tagliare ancora di più la nostra economia fossil-dipendente, o pagare ancora più multe.
L’Economist ironizza sugli sconti ottenuti dai poveri Paesi anti-nucleari: gli irlandesi per le troppe flatulenze delle loro mucche (methane-belching cows), che grazie a tale sconto non dovranno completamente sterminare; ed i portoghesi per gli sbalzi paurosi delle loro rinnovabili, che potranno essere compensati via elettrodotto attraversante tutta la penisola iberica, sino alle centrali nucleari francesi oltre i Pirenei. Come già le centrali nucleari francesi compensano per noi attraverso le Alpi, al costo per noi della costruzione di due nuove centrali nucleari per loro all’anno. In questo periodo le nostre TV diffondono una pubblicità dell’Ue che esalta questi scambi, senza ovviamente dire per chi sono un costo e per chi un guadagno.
Questo stesso diktat divaricatorio viene ripetuto, specificamente ed esclusivamente sulle rinnovabili, varie volte; eccone una seconda: «Tutti gli Stati membri contribuiranno alla riduzione globale dell’Ue nel 2030 con obiettivi compresi fra lo 0% e il -40% rispetto al 2005»; ed eccone una terza: «Tali obiettivi verranno raggiunti nel pieno rispetto della libertà degli Stati membri di determinare il proprio mix energetico».
Quest’ultima affermazione, sebbene in contrasto con la lettera e lo spirito del vigente Trattato Euratom, non è una novità. La Iea (Agenzia internazionale per l’energia), un organismo dell’Ocse con sede in Parigi, ha pubblicato un libro nel 2008 che passa in rassegna la politica energetica dell’Ue. A pagina 27 tale rassegna, basata su una visita di una delegazione Iea alla Commissione europea, dichiara che: «Riconoscendo le sensibilità riguardanti alcuni aspetti della politica energetica in alcuni Paesi membri, la azioni Ue di politica energetica hanno sempre rispettato, e continueranno a rispettare, due principi: primo, che gli Stati membri sono ultimativamente responsabili per il loro mix energetico nazionale; e, secondo, che le risorse energetiche indigene sono una risorsa nazionale, non europea». In effetti, sarebbe difficile cambiare le «sensibilità» di qualunque popolo, dal norvegese allo scozzese, che considera i propri idrocarburi come «risorse energetiche nazionali», e neppure è questo uno scopo del Trattato Euratom; ma è possibile, ed anche uno scopo dei trattati fondanti la costruzione europea3, non far aumentare quel tipo di sensibilità circa la capacità di fare scelte «indigene» nelle sorgenti energetiche, contrapposte alle scelte di altri Stati membri. Questi atteggiamenti sociali soggettivi, neppure dopo che siano stati ratificati da democratici referendum, non dovrebbero essere lasciati inclusi sotto il significato di obiettive «risorse energetiche». Le opinioni in favore del nucleare, favorite dai progetti finanziati dall’Euratom solo in certi Paesi e non in altri, non sono equiparabili a dei giacimenti petroliferi nel primo dei due gruppi, che è giusto non siano rivendicabili dal secondo gruppo.
Però non è solo ingiusto, è pure provocatorio che questo ultimo accordo del 23-24 ottobre 2014 vanti tante volte questo differenziale ormai prettamente ideologico fra il primo gruppo ed il secondo, e ne suggelli le conseguenze economiche. Citiamo ancora una delle tante ripetizioni: «Gli obiettivi (per le sole rinnovabili, non per le emissioni, N.d.A.) non saranno tradotti in obiettivi vincolanti a livello nazionale».
A chiedere tante ripetizioni della nostra fregatura sulle rinnovabili forse saranno stati, increduli di tanta pacchia, i francesi, dato che aumenterà l’emorragia di delocalizzazioni delle nostre imprese verso la Francia, che è già da tempo il massimo nostro espropriatore al mondo, diversamente da come credono tutti gli italiani, e sono ormai molte dozzine, cui ho chiesto di indicare tali principali beneficiari della nostra emorragia di lavoro.
Un’ampia ricerca che i professori Catellani e Bertolotti presenteranno al prossimo Congresso europeo di Psicologia dimostra che l’interesse degli italiani è orientato sulla crescita più ancora che sulla sicurezza, e però accoppiano la fiducia nell’Europa con la fiducia nella sua politica energetica: se ce lo chiede l’Europa, pensa la maggioranza degli italiani, allora è il caso di fidarsi ed accettare anche sacrifici contro la crescita.
1 Un ingresso eccezionale in questo club dei privilegiati è appannaggio dell’Austria, che per i suoi otto milioni di abitanti ha tanto idroelettrico quanto l’Italia, che ne avrebbe pure molto, se non fossimo quasi sessanta milioni e non avessimo la seconda manifattura europea, molto energivora. Per l’Austria la scelta antinucleare non lascia scoperto il problema delle emissioni, quindi non è tanto anti-economica quanto la nostra.
2 Quindi per le nostre imprese un costo più che quadruplo dell’altra energia italiana; la quale a sua volta costa quasi il quintuplo che alle imprese francesi, come vedremo più avanti. Quindi l’energia da rinnovabili costa al nostro sistema industriale (in parte direttamente in bolletta, in parte indirettamente via fisco) una ventina di volte quel che costa l’energia al sistema francese. Più avanti i dettagli.
3 Anche se viene affermato, all’inizio della stessa pagina 27, che «non esiste attualmente nessun specifico articolo sull’energia nei Trattati Ue attualmente ratificati». Il Trattato Euratom è invece vigente, e vincolante per ogni stato membro. Per questo motivo i referendum italiani (impediti dall’art. 75 della Costituzione nazionale dal rigettare i Trattati internazionali) sebbene siano ritenuti rigettare il nucleare, non contengono, e neppure menzionano, tale rigetto.