Un docente dell’Università di Pisa nel team internazionale che ha scoperto l’Homo naledi. È l’antropologo Damiano Marchi che ha studiato le caratteristiche locomotorie del nuovo ominine ritrovato in Sudafrica. «Naledi» nella lingua locale del Sudafrica significa «stella», con riferimento al sistema di caverne (Rising Star) dove l’ominine è stato rinvenuto (in italiano «stella che sorge»)
C’è anche un contributo pisano e italiano nel team internazionale, composto da più di cinquanta ricercatori, che ha lavorato sull’Homo naledi, il nuovo ominine i cui resti sono stati ritrovati in Sudafrica e la cui scoperta è stata annunciata in giornata dall’Università del Witwatersrand, dalla National Geographic Society e dalla National Research Foundation del Sudafrica.
Il dottor Damiano Marchi, antropologo del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, è stato infatti chiamato a collaborare con l’équipe guidata dal professor Lee Berger e si è occupato in particolare dell’arto inferiore dell’ominine, con l’obiettivo di determinare le sue peculiarità locomotorie. Dagli studi effettuati è risultato che l’Homo naledi possedeva elementi anatomici unici, differenti sia dagli altri ominini fossili rinvenuti finora, sia dall’uomo moderno, pur dimostrando caratteristiche scheletriche che potrebbero indicare un adattamento locomotorio terricolo simile all’uomo moderno e forse anche un adattamento alla corsa. Grazie a questo contributo, il dottor Marchi è tra i coautori del lavoro di descrizione della nuova specie, pubblicato sulla rivista «eLife», e sarà primo autore del lavoro relativo allo studio dell’arto inferiore, che uscirà in un numero speciale del «Journal of Human Evolution», una delle riviste leader per gli studi paleoantropologici.
«Vista l’enorme quantità di materiale scheletrico a disposizione e la necessità di organizzare uno studio accurato e tempestivo – sintetizza il dottor Marchi – il professor Berger ha indetto un concorso internazionale per selezionare i massimi esperti nei vari campi della paleoantropologia. Alla fine sono stati individuati vari ricercatori di tutto il mondo, tra i quali sono stato scelto, come unico rappresentante italiano, per i miei studi sulla biomeccanica dello scheletro postcraniale dei primati umani e non umani; che ho utilizzato per creare modelli interpretativi relativi alla locomozione dei primi ominini».
I resti del nuovo ominine sono stati portati alla luce in due spedizioni scientifiche effettuate tra novembre 2013 e marzo 2014, con il finanziamento dell’Università del Witwatersrand e della National Geographic Society. Il materiale è stato rinvenuto nella Dinaledi Chamber, localizzata circa 30 metri in profondità all’interno del sistema di caverne denominato Rising Star, nella provincia di Gauteng in Sudafrica.
Il ritrovamento di oltre 1.550 reperti fossili attribuibili ad almeno 15 diversi individui e la presenza di quasi tutte le parti dello scheletro, ha permesso di descrivere la nuova specie in maniera molto accurata. L’Homo naledi [chiamato così perché «naledi» nella lingua locale del Sudafrica significa «stella», con riferimento al sistema di caverne (Rising Star) dove l’ominine è stato rinvenuto (in italiano «stella che sorge»)] appare come uno dei nostri antenati più antichi, alto un metro e mezzo, pesante circa 45 chilogrammi e dotato di un cervello piccolo della dimensione di un’arancia.
L’ominine è dotato di dita estremamente curve, più di qualunque altra specie simile, a testimonianza di una particolare abilità nell’arrampicarsi. I piedi, insieme alle lunghe gambe, suggeriscono inoltre che era predisposto per lunghi spostamenti. «La combinazione delle caratteristiche anatomiche – ha concluso il professor Berger, coordinatore del team che si è occupato della scoperta – distingue l’Homo naledi da ogni altra specie di ominine finora conosciuta».