Parchi, più odio che amore

989
Tempo di lettura: 9 minuti

Dall’entusiasmo iniziale da qualche tempo ha cominciato a diffondersi il disamore, il disinteresse, il fastidio sino ad arrivare all’odio ma è un problema tutto italiano perché secondo l’Iucn sono in aumento le aree protette su tutta la Terra. Negli ultimi 10 anni sono aumentate del 58% e per estensione del 48%. Perché siamo arrivati a questo punto

> Perché la nostra inchiesta sui Parchi 
> Denuncia. Così li stanno distruggendo 
> La revisione della legge fa mobilitare le Associazioni 

Continuano ad arrivare interventi per partecipare a questa nostra inchiesta on line sulle Aree protette. Pubblichiamo un approfondito intervento del prof. Ugo Leone, saggista, già ordinario di Politica dell’ambiente all’Università di Napoli Federico II, è stato presidente del Parco nazionale del Vesuvio dal 2008 al 2014 e Commissario fino ai primi mesi del 2016

Amore e odio per le aree protette in Italia. Esiste ancora un problema ambiente?
Perché amore e odio?
La risposta ha radici lontane e profonde per quanto riguarda l’amore; più vicine e superficiali con riguardo a quello che con una parola grossa chiamo odio, ma che potrei indicare come disamore, disinteresse, fastidio.
Per quanto riguarda l’amore, dicevo, possiamo partire da lontano perché una politica attiva di recupero e conservazione della natura ha oltre cento anni di vita essendo nata nel 1872 quando gli Stati Uniti istituirono il primo parco nazionale, quello di Yellowstone. E lo fecero proprio mentre le azioni di sterminio dei pellerossa raggiungevano il massimo livello. Tanto che sembra difficile non considerare quella istituzione come il rovescio della stessa medaglia: «La creazione di aree protette o di “riserve” in cui isolare la natura (o gli uomini) non alterava, anzi valorizzava le stesse logiche espansionistiche della libera impresa» [1].

Questa logica, di fatto, perdurò sino al secondo dopoguerra. E quelle caratteristiche di individuazione delle aree da proteggere furono recepite anche in Italia. Qui fu Vittorio Emanuele III che nel 1919 donò i 2.100 ettari della riserva reale del Gran Paradiso per l’istituzione del primo parco nazionale italiano (1922) e fu durante il fascismo che vennero emanati i regi decreti che istituivano gli unici grandi parchi nazionali: Abruzzo nel 1923, Stelvio nel 1935, Circeo nel 1936.
Tuttavia, «estranei all’economia e alla società, gestiti in forma repressiva, senza che ciò riuscisse ad impedire il bracconaggio e le manomissioni», i parchi nazionali non si possono a pieno titolo considerare elementi caratterizzanti una vera e propria politica dell’ambiente.
Insomma, come nel resto degli altri Paesi che hanno adottato politiche di tutela dell’ambiente, anche in Italia la primitiva attenzione per l’ambiente e per i prodotti della «cultura materiale» sono nati innanzitutto con tendenze «conservatrici» o «conservazioniste» [2]. Le politiche dei «parchi nazionali», vanno viste certamente in questo senso: in Italia come negli altri paesi nei quali sono state realizzate.

Nascita della cultura ambientale in Italia

Da allora i tempi sono profondamente cambiati. Anche nel modo di intendere il rapporto uomo/natura. L’ambientalismo, l’ecologismo, il movimento verde come variamente si vuole definire la posizione di crescente attenzione nei confronti della natura, ha centrato molti importanti obiettivi.

Dopo il periodo bellico e in piena opera di ricostruzione, nacque «Italia Nostra», associazione nazionale per la tutela del patrimonio storico, artistico e naturale della nazione su iniziativa di un gruppo di uomini di cultura che già nel 1951 si erano opposti con successo allo sventramento del centro barocco di Roma. Nel 1966, quando ormai cominciava ad emergere una nuova coscienza naturalistica, fu costituita la sezione italiana del World Wildlife Found (Wwf). Nel 1980 nacque la «Lega per l’ambiente» per iniziativa dell’Arci (Associazione ricreativa culturale italiana).

Queste sono in sostanza, le associazioni storiche; quelle che costituiscono le isole maggiori dell’arcipelago verde. Ed è, in buona sostanza, sulla base della filosofia e delle iniziative di queste associazioni che ha cominciato a montare l’onda verde in Italia.
Insomma è a queste associazioni, cui tante altre se ne sono affiancate, che va riconosciuto il merito di avere diffuso in milioni di italiani il virus di una coscienza «verde». Se non in comportamenti coerenti, per lo meno nel senso di una maggiore sensibilizzazione verso la necessità di rispettare e salvaguardare un patrimonio di tutti.

Da questo punto di vista, però, quel virus (almeno sino alla nascita di Legambiente) ha diffuso soprattutto la malattia della conservazione fine a se stessa e, con essa, ha diffuso il concetto dell’ambiente come entità da contemplare piuttosto che da vivere, anche attivamente.
Con la nascita di Legambiente, c’è stata una sorta di vaccinazione che ha portato ad una sempre più spinta socializzazione del concetto di ambiente; visto come un’entità da tutelare e ripristinare nelle caratteristiche snaturate delle sue componenti, ma col fine di una fruizione sociale di quel bene. Che è un modo economicamente e socialmente produttivo di viverlo oltre che di contemplarlo.
Questo mi sembra l’approccio più corretto, realistico e moderno ai gravi problemi dell’ambiente e questo sembra il contesto nel quale correttamente vada inserito il discorso sulle aree protette.

La svolta e la caduta

In Italia una importante svolta si è avuta con la approvazione nel dicembre del 1991 della legge n.394, «Legge quadro sulle aree protette», che «detta principi fondamentali per l’istituzione e la gestione delle aree naturali protette…».
Con questa legge prima sulla carta, poi via via sempre più in concreto, la superficie di territorio protetto ha toccato e superato la considerevole percentuale del 10%. E con questa legge si rafforzò il sentimento di attenzione, sensibilità e amore che aveva contraddistinto quantità crescenti di popolazione dal 1968.

Quel sentimento, però, negli ultimi anni e da qualche tempo è andato perdendo le originarie caratteristiche e ha cominciato a diffondersi il disamore, il disinteresse, il fastidio sino ad arrivare all’odio. Questi sentimenti sono più italiani e, per certi aspetti sono il frutto anche di interpretazioni mie soggettive di riflessioni su casi personali.
Per cui da tempo mi chiedo anche: «ma esiste un problema ambiente?».
Mi pongo questo quesito riferendomi, evidentemente, non ai problemi della qualità ambientale, ma essenzialmente alla consapevolezza del problema e alla percezione dello stesso. E non solo da parte della popolazione, ma dei partiti politici, di governo e non. Me lo chiedo e lo chiedo perché l’impressione è che rispetto agli anni in cui la sensibilità ambientale nasceva e cresceva, l’interesse sia andato progressivamente scemando. Ed è grave che sia così.

Anche quest’anno, qualche mese fa, il cinque giugno, si è celebrata l’annuale giornata mondiale dell’ambiente. Un altro anno è passato e sono 44 dal 1972, quando appunto dal 5 al 16 giugno si tenne a Stoccolma la prima conferenza delle Nazioni Unite su «L’Ambiente Umano» che si proponeva di considerare il bisogno di prospettive e principi comuni al fine di ispirare e guidare i popoli del mondo verso la conservazione e il miglioramento dell’ambiente umano. E di farlo ritenendo «la protezione ed il miglioramento dell’ambiente una questione di capitale importanza», ma anche avendo come «obiettivo imperativo» dell’umanità quello di «difendere e migliorare l’ambiente per le generazioni presenti e future».

Oltre 40 anni sono trascorsi con pochissimi risultati concreti, ma ricchi di altre celebrazioni, conferenze delle Nazioni Unite, protocolli vari. Eventi e circostanze ai quali e alle quali l’Italia non ha mai mancato di partecipare. Ma, potrei dire, vi ha partecipato soprattutto perché come diceva De Coubertin per le Olimpiadi, l’importante è partecipare. Né solo l’Italia, d’altra parte.
C’è, dunque, una crescente indifferenza per il problema manifestata anche nelle campagne elettorali per le elezioni politiche nelle quali ambiente e territorio sono stati, come abbastanza di consueto, il convitato di pietra. Ma il problema c’è e incombe come una spada di Damocle sulla vivibilità quotidiana e sulla sua deprimente qualità. La natura, la sua biodiversità, l’inquinamento soprattutto atmosferico; la forte esposizione ai rischi naturali, la vulnerabilità del nostro fragile territorio; lo sperpero di terre agricole; la manomissione del paesaggio, sono i temi di cui si fa portavoce solo qualche sparuta voce predicante nel deserto.
E sono temi trascurati dai più i quali ritengono che l’attenzione ai problemi dell’ambiente e alla protezione della natura e delle sue biodiversità (che è un compito specifico assegnato alle aree naturali protette con l’istituzione dei parchi nazionali e regionali) venga in un secondo momento. Dopo, cioè, la risoluzione dei problemi del quotidiano che affliggono il nostro Paese e non solo.

L’ambiente è sempre cenerentola

Ignorando, o trascurandone l’importanza, che proprio interventi di risanamento e protezione ambientale e di messa in sicurezza del territorio, possono significativamente contribuire alla soluzione di quei problemi: in termini non solo di crescita del Pil, ma anche di promozione sociale e miglioramento della qualità della vita e, quindi, di incremento delle occasioni di lavoro.
Perché ciò si possa realizzare in concreto occorre una visione diversa e più realistica della società in cui viviamo e, soprattutto, delle sue trasformazioni. Quindi occorre una proposta nuova.
Nuova nel senso anche di saper cogliere le esigenze e le occasioni di una società in rapido mutamento: la società immateriale, la società che invecchia e nella quale la domanda di merci si riduce e aumenta quella di servizi i quali, a loro volta, si diversificano in varie componenti. E sono, tra l’altro, sempre più domande di ambiente vivibile e territorio sicuro.

Interventi e investimenti in questo settore che non siano, come sono sempre stati, interventi di rattoppo, ma capaci di rimuovere le cause del malessere ambientale e della insicurezza del territorio hanno importanti ricadute sull’occupazione e sulla qualità della vita in un paese che, tanto per ricordarne solo un aspetto, dopo Firenze e Venezia del 1966 ha fatto registrare le drammatiche alluvioni in Piemonte 1994 e a Sarno 1998 e quelle che ormai ogni anno sconvolgono quasi tutte le regioni, prima fra tutte la Liguria. E nel quale, in cinquant’anni il costo dei disastri in lire 1990 è stato di 142.103 miliardi e 200 milioni: 273 miliardi al mese, 9 al giorno e di 7.6898 morti: 15 al mese.

Il falso nodo dei vincoli

Se così stanno le cose figuriamoci quanto interesse si può riscontare verso le aree protette. E perché molti, soprattutto amministratori locali guardano con fastidio se non con odio la presenza di parchi che ne limitano le libertà. Libertà? Certo nel malinteso senso della libertà come sinonimo di fare il proprio comodo indipendentemente dalle leggi che lo impediscono e da chi ne può subire le conseguenze: abusivismo edilizio, interramento di rifiuti anche tossici e nocivi e via elencando.
Quindi possiamo dire che dal 1991 l’amore che aveva accompagnato la nascita di una nuova politica di protezione della natura tramite l’istituzione di nuove aree protette da Parchi e da altre forme terrestri e marine, quell’amore è andato progressivamente scadendo e trasformandosi, come dicevo, in disamore, disinteresse, fastidio.
Non dovunque, però, perché secondo l’Iucn (International Union for Conservation of Nature) sono in aumento le aree protette su tutta la Terra. Negli ultimi 10 anni sono aumentate del 58% e per estensione del 48%. I dati sono stati presentati al World Park Congress dell’Iucn che si è svolto a Sidney dal 19 novembre 2014 con l’obiettivo di trovare una soluzione per la conservazione ottimale delle oltre 200mila aree protette del pianeta. Circa 6.000 delegati di oltre 170 paesi, fra cui 30 ministri dell’ambiente, i vertici delle grandi organizzazioni ambientaliste e i maggiori scienziati del settore si sono qui ritrovati e hanno firmato un documento dal titolo significativo: «La promessa di Sydney». Che significa l’impegno a è «invigorire» (gli sforzi di conservazione), «ispirare» (le popolazioni ad amare la natura attraverso le aree protette) e «investire» (in soluzioni pro-natura e pro-biodiversità).

Questo l’impegno assunto a Sidney, ma in Italia?
In Italia, come dicevo, è cresciuta la distanza tra impegni verbali e realizzazioni di fatto. E continuerà ad essere così sino a quando non si recupererà il perduto o indebolito amore per questi problemi. Sino a quando, cioè, non ci si renderà conto che vivere in un Parco è un privilegio che sarebbe bene e utile estendere a più parti del Paese e a più persone. Privilegio che non va inteso, però, come situazione di vantaggio rispetto a chi vive al di fuori delle aree protette. Per esempio non può essere inteso come vantaggio nello smaltimento di rifiuti ritenendo che quelli prodotti in queste aree debbano essere smaltiti nel «giardino» di altri. Al contrario anche nelle aree protette dove risiedono cittadini il comportamento di questi ultimi deve essere di esempio anche in un compito così delicato e discusso come lo smaltimento dei rifiuti che deve avvenire nel pieno rispetto della natura e dell’ambiente in genere che quelle aree sono chiamate a proteggere.

Naturalmente quando dico quanto ho detto sino ad ora non dimentico di parlare non solo nella veste di ex professore di Politica dell’ambiente dell’Università di Napoli Federico II, ma soprattutto in quella di presidente del Parco nazionale del Vesuvio. Parco nel quale il rapporto amore/odio è tuttora ampio e diffuso.
In realtà la storia dei Parchi nazionali in Italia è sempre stata caratterizzata da un rapporto di preoccupazione per la loro istituzione da parte di cittadini e operatori commerciali preoccupati dai vincoli «alla libertà» che la legge impone in queste aree. Ma quale libertà? Se per libertà si intende il desiderio di fare il proprio comodo per il proprio vantaggio ignorando le esigenze del prossimo, evidentemente questo è un malinteso senso della libertà. E così interpretata la libertà e così indotta ad essere interpretata magari da amministratori che per proprio vantaggio elettorale hanno indotto i propri amministrati a ritenere il Parco (un Parco quale che sia) un ostacolo, si capisce perché fastidio e odio siano oggi una ricorrente caratteristica del rapporto popolazione/Parco.

Il Parco Nazionale d’Abruzzo è il primo che ha vissuto queste difficoltà, ma oggi è quello nel quale i Comuni chiedono di entravi a farne parte piuttosto che di uscirne. Ciò perché la popolazione ha compreso e apprezzato il privilegio, anche di natura economica, di farne parte. Oggi quel Parco ha 90 anni e ne ha impiegato una settantina perché la sua popolazione acquisisse questa consapevolezza.
Il resto degli altri Parchi è ancora giovane. Crescerà?
Potrà accadere solo con l’aiuto degli amministratori, delle scuole, delle associazioni nel veicolare un messaggio diverso da quello generalmente diffuso. Un messaggio non dissimile a quanto profeticamente scriveva nel 1920 Benedetto Croce il quale, in qualità di ministro per la Pubblica Istruzione, osservava che «se la civiltà moderna ha sentito il bisogno di difendere per il bene di tutti il quadro, la musica, il libro, non si capisce perché si sia tardato tanto a impedire che siano distrutte le bellezze della natura». E, in più, auspicava che i parchi diventassero fonte di «probabili, per non dire certi, guadagni da parte dello Statoi».

[1] G. Schultze, Dalla logica del «cow boy» al «tempo biologico», in «Se scienza esperienza», n.24, maggio 1985.
[2] U. Leone, La politica dell’ambiente in Italia, in AA.VV., Guida d’Italia. Natura, ambiente, paesaggio, Milano, TCI 1991.