Gli esseri viventi possono esprimere le proprie qualità vitali solo in un contesto che accoglie e dà sostegno alla complessità, dei loro processi biologici e mentali, e che offre condizioni fertili per la loro partecipazione agli equilibri naturali e sociali. L’uomo se è interessato, anche solo egoisticamente, alla propria sopravvivenza (e ancor più se intende esprimere le proprie qualità creative e trovare un senso per entrare in sintonia con il mondo naturale e dei propri simili) non può ignorare la complessità dei fenomeni biologici e sociali e deve, quindi, attrezzarsi per interpretarli e coordinarsi con essi.
Oggi, con le equivoche o devianti approssimazioni, di una visione riduzionista della realtà, modifichiamo la struttura dell’ambiente per adattarlo, unicamente con tecniche ingegneristiche, a convenienze economico-finanziarie, a volte anche solo estemporanee. Procuriamo, così, problemi, anche estremi, agli equilibri naturali e sociali, e pretendiamo, poi, addirittura di risolverli con gli stessi strumenti che ne sono stati l’origine. Gli approcci riduzionisti, nel migliore dei casi, potranno produrre solo effetti temporanei sulla tenuta degli equilibri, e saranno comunque insufficienti anche solo per affrontare i loro problemi complessi e ancor più quelli che sfuggono alla nostra percezione. Una visione riduzionista non ci permette né di entrare in sintonia con le dinamiche degli equilibri ambientali, né di interpretare gli aspetti rilevanti delle finalità umane da perseguire, né di realizzare una diffusa condivisione degli obiettivi, tutti momenti, questi, essenziali per dare senso alla nostra partecipazione ai fenomeni vitali. Si ha, così, che con le grandi quantità di energie e risorse (spese per modificare il nostro ambiente di vita o per rimuovere i danni in esso prodotti) si può correre il rischio di rimanere paralizzati in uno stato continuo di piccole e grandi emergenze fino a rendere irreversibili non solo i fenomeni del degrado iniziale, ma anche l’accumulo di quelli successivi generati, proprio dalle modifiche con le quali si intendevano, invece, ripristinare gli equilibri naturali.
Questa deriva, fra le nostre buone intenzioni e i risultati degli interventi tecnologici finalizzati a modificare il Territorio o a porre rimedio a danni ad esso procurati, ora sta accelerando sia perché avanzano le semplificazioni (imposte dall’economia del libero mercato, ideologicamente diretta solo a produrre e vendere ogni cosa in ogni luogo senza complicazioni), sia perché crescono, in modo esponenziale, anche le necessità di porre rimedi non dispendiosi alle interminabile catene di conseguenze subdolamente sottovalutate e trasformate in malefici, anche per le future generazioni.
È, dunque, evidente quanto la tecnologia sia non solo incapace di risolvere i danni fisici, da lei procurati, ma sia ancor più incapace di affrontare la dimensione esistenziale (dinamica, autonoma e creativa) dell’uomo, delle sue comunità e dei suoi Territori di vita, in nome dei quali, sfrontatamente, si vanta di operare. Alla tecnologia non possono essere affidati compiti complessi da sviluppare, in tempo reale e nella originalità delle situazioni, con approcci sistemici, soluzioni sinergiche e verifiche funzionali. Anche se le opere, così come previsto dal determinismo dei protocolli tecnici, saranno formalmente complete, nessuna formalità potrà rispondere alle complesse attese economiche, sociali, culturali che danno senso al vivere degli uomini e che spetta solo a loro gestire. Una gestione che è normale se non è ostacolata da informazioni deviate o negate, da inesistenti priorità e urgenze e da scelte preordinate da interessi che sembrano solo favorire speculazioni. Si promettono presunte benefiche innovazioni e ingannevoli successi economici (a danno dei Territori, anche sul breve tempo), mentre di sicuro c’è solo un iniquo profitto.
A tal proposito sarebbe interessante chiederci quanti prodotti tecnologici deludono le nostre attese o rimangono inutilizzati nelle nostre case? Quanti prodotti tecnologici, pur funzionanti, si sono rivelati più complicati da gestire dei problemi che avrebbero dovuto risolvere? Quanti sono andati in rapida obsolescenza o sono diventati inservibili prima ancora che fossero adeguatamente usati? Vi sono problemi generati dalla applicazione delle tecnologie che sono ingestibili già nel presente dei nostri giorni, prima ancora che nel futuro di chi riceverà, in triste eredità, un mondo povero di risorse e ricco di rifiuti di ogni genere.
La visione semplificata della realtà, di fatto, ha già ridotto in molti Territori la complessità dei fenomeni naturali, a un insieme di stadi di un processo deterministico (fatto immaginare come compiutamente controllabile, per legittimare lo sviluppo e l’applicazione di specifiche tecnologie di intervento). Un processo che si faceva intendere come capace di garantire risultati di una miglior gestione delle risorse naturali (un processo che si è dimostrato, spesso, non solo inefficace, ma proprio finalizzato ad altro). La valutazione degli impatti (che dovrebbe aiutare a definire i migliori progetti di modifica di un Territorio e le condizioni per una loro eventuale fattibilità), se proprio non viene a mancare, oggi è ridotta solo a una pratica amministrativa formale, con inconsistenti strumenti di controllo, con valutazioni meccaniche, degli effetti delle modifiche sui Territori e delle opere realizzate: tutte procedure con indicatori e misure inadeguate per gestire, da sole, l’irriducibile complessità dei fenomeni naturali.
A molti, purtroppo, non è chiaro che la «conoscenza», di un sistema complesso, «non si possiede», ma che in un «sistema complesso» si possono solo riconoscere e perseguire alcune «sintonie», da interpretare e aggiornare continuamente per indagare e dare un senso alle nostre scelte. Solo così, possiamo esercitarci a formulare ipotesi di intervento da mettere alla prova, per trovare riscontri, efficaci e verificabili, di fattibilità, sostenibilità e coordinamento sinergico fra gli equilibri di un sistema complesso e le nostre intenzioni di operare modifiche al suo interno. In questa più ampia visione della realtà, non sono, dunque, legittimi i mistificanti pretesti formali che vorrebbero attestare la bontà di interventi autoreferenti, comunque decisi altrove, e non in sintonia verificabile con le dinamiche dei processi vitali.
Esiste un limite fisico in tutte le cose, ma sembra che di ciò, chi ha il potere di decidere, non ne abbia consapevolezza e ritenga, invece, di poter operare, in questo caso sui Territori, come se questi fossero materiali plastici, da adattare alle forme semplificate con le quali si vorrebbe ricostruire un modello di realtà pronto a essere sottomesso alle ragioni del mercato. Il voler «fare le cose» dell’uomo diventa, in questa prospettiva, non una collaborazione fertile con i processi vitali, ma una lotta contro di essi. L’uomo sembra, troppo spesso, impegnato, in una continua e solitaria lotta, per l’affermazione dell’assoluto di una propria idea di mondo da sottomettere alla propria volontà e da adattare a qualsiasi deformazione che dovesse decidere di imporre per una personale convenienza. Una lotta contro una realtà complessa, ridotta nelle confinate forme di limitati modelli fisico-matematici (fatti di algoritmi e di misure solo fisicamente percepite), priva di quell’essenza immateriale, specifica dell’identità umana, concettualmente innegabile e fondamentale per dare senso alle cose. Una realtà che sfuggendo, per la sua complessità e natura, alle rilevazioni dei cinque sensi dell’uomo, viene trascurata, non solo nella formulazione di specifiche valutazioni, ma anche nei momenti cruciali, per il destino dell’uomo, di assunzione di irrevocabili responsabilità e di definizione di non sottovalutabili precauzioni.
In assenza di una visione sistemica, che permetta di considerare una realtà capace di andare oltre i confini della sola materialità percepita nei contesti vitali, l’uomo è indotto a considerare «vero» solo ciò che appare «semplice». Su tutto il resto, rimanendo il dubbio (che però è cosa diversa dalla negazione della fondatezza dell’argomento di quel dubbio), ne decide un’incauta e totale inesistenza. Viene così a mancare l’impegno, con altri e adeguati mezzi, a interrogarsi sulla consistenza della realtà che si intende modificare e, comunque, a tener conto, almeno per un’onestà di pensiero, della compromettente semplificazione operata su di essa.