Emigrazione e nuove motivazioni

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La flessibilità, imposta recentemente dalla competizione nell’ambito dei processi produttivi, ha favorito, già a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, una mobilità della forza lavoro che, pur se per impieghi e con meccanismi profondamente diversi, richiama la mobilità dei braccianti dei secoli passati. Con altre e più qualificate competenze, quote sempre più significative di addetti al lavoro intellettuale si spostano nel mondo per vendere le proprie abilità nel campo della ricerca, della tecnologia, della finanza. Il meccanismo non è più quello del lavoro stagionale, ma quello delle convenienze che creano e distruggono lavoro inseguendo, con un cammino senza ritorno nei luoghi della propria origine, migliori opportunità di profitto che possono essere offerte, nei diversi territori, dalla disponibilità di risorse, dal basso costo del lavoro umano, da agevolazioni fiscali.

Oggi anche le migrazioni, dai paesi economicamente più sottosviluppati (rifugiati politici compresi), sono spinte dal desiderio di realizzarsi economicamente e da una ricerca di benessere e sicurezza sociale, più che da attese di risposte umanitarie a bisogni essenziali. I migranti, che arrivano nei paesi ad economia più avanzata, sono tenuti, infatti, in attenta considerazione dagli interessati a favorire la loro integrazione come masse di nuovi consumatori. Nelle economie che aderiscono al libero mercato dei consumi, accogliere nuovi cittadini da inserire nella catena produzione-consumo, è un sicuro vantaggio per l’ampliamento dei mercati e per i maggiori profitti che ne possono derivare, non certo però per una buona gestione delle risorse naturali.
Il bracciante delle passate epoche, non mirava ad un progresso umano, ma cercava solo il pane da mangiare. Oggi, invece, il lavoratore, che usa la propria intelligenza per procurarsi quello stesso pane, riceve anche il conforto della «libertà» di accesso a consumi senza limiti ed è, così, molto probabile che finisca nei meccanismi compulsivi del voler possedere ogni cosa (prima ancora o addirittura senza sentirne un bisogno). In questo scenario anche lui, alla fine, non sarà interessato a ricercare un progresso umano.
È dunque probabile che l’uomo si troverà, almeno nel prossimo immediato futuro, a dover fare sempre più cammino, ma per finalità e obiettivi diversi da quelli che possono offrire risposte in accordo con le sue aspirazioni più profonde.
Oggi, però, tutti siamo sicuramente nella condizione di poterci affrancare da comportamenti, solo istintivi, di adeguamento ai gratificanti ma distruttivi meccanismi di un consumo fine a se stesso. Diversamente dagli uomini del passato, possiamo, infatti, mettere a frutto le nostre conoscenze e capacità relazionali, per trasformare in progresso umano uno sviluppo economico che è, ancora, senz’anima se non è proprio anche usato per una nostra ingiustificabile condanna.
Nei processi naturali si manifestano sinergie vitali, essenziali per mettere in equilibrio la disponibilità di risorse ambientali, individuali e collettive, per ogni specie vivente. Anche l’uomo può manifestare queste qualità e sintonie vitali già presenti negli altri processi naturali. Dunque, una riflessione e una maggiore attenzione, a valutare il senso della nostra missione sulla Terra, e una cura, delle relazioni umane, finalizzata alla costruzione di sinergie, potrebbero essere elementi essenziali di progresso della qualità del nostro esistere.

 

Giovanna Da Molin, Professore Ordinario di Demografia Storica e Sociale, Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia, Comunicazione; Università degli Studi di Bari «Aldo Moro»