Nel 1990 il loro numero era di 25 milioni ed entro il 2050 potrebbe superare i 200 milioni. Inoltre, attualmente ci sono almeno altri 192 milioni di persone che non vivono nella loro terra di nascita
Una nuova figura di esuli si è affacciata prepotentemente alla storia: i profughi del clima. Secondo le stime per il 2010 sono 50 milioni le persone che, nel mondo, abbandonano le proprie terre, non più in grado di garantire la sopravvivenza. Nel 1990 il loro numero era di 25 milioni ed entro il 2050 potrebbe superare i 200 milioni. Inoltre, attualmente ci sono almeno altri 192 milioni di persone che non vivono nella loro terra di nascita. Sono questi i dati sconcertanti del nuovo rapporto «Ecoprofughi» di Legambiente, presentato oggi nell’ambito di «Terra Futura», mostra-convegno internazionale di buone pratiche di vita, di governo e d’impresa, in corso alla Fortezza da Basso, Firenze, fino a domenica 30 maggio.
Nel 2008 a fronte dei 4,6 i milioni di profughi in fuga da guerre e violenze, sono state 20 milioni le persone costrette a spostarsi temporaneamente o definitivamente in seguito a eventi meteorologici estremi. E il fenomeno che già nel 1990 riguardava 25 milioni di persone sembra destinato ancora ad aumentare. Solo tra il 2005 e il 2007 l’agenzia dell’Onu ha risposto a una media annua di 276 emergenze in 92 Paesi, oltre la metà delle quali causate da calamità, il 30% da conflitti e il 19% da emergenze sanitarie. E secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) e l’International Organization for Migration (Iom) entro il 2050 si raggiungeranno, i 200/250 milioni di persone coinvolte (una ogni 45 nel mondo), con una media di 6 milioni di uomini e donne costretti ogni anno a lasciare i propri territori.
«La situazione è drammatica – dice Maurizio Gubbiotti, coordinatore della segreteria nazionale di Legambiente – ma il fatto che il numero degli ecoprofughi sia in crescita deve essere un segnale d’allarme fortissimo. Infatti, dimostra che siamo troppo vicini al punto di rottura: le persone non potranno mai più tornare a vivere nei territori che sono state costrette ad abbandonare». A fronte di un’emergenza planetaria, come è possibile intervenire? «Da una parte bisogna arrivare al definitivo riconoscimento dello status giuridico di rifugiato ambientale. Ma ancora più importante è l’avvio di una politica di cooperazione internazionale molto più attenta a questi aspetti: non ci potrà essere un nuovo “Protocollo di Kyoto” dedicato all’abbattimento della CO2 senza che al suo interno sia previsto un capitolo dedicato alle azioni e alle risorse per mitigare le conseguenze dei mutamenti climatici».
In fuga non da guerre né dalla fame, queste persone scappano dai cambiamenti climatici che rendono le loro terre aride impedendone la coltivazione e che si manifestano con eventi meteorologici estremi, come alluvioni e uragani. Tra i paesi più esposti c’è il Bangladesh, nella cui capitale a fronte di 12 milioni di abitanti sono circa 400.000 le persone colpite da disastri meteorologici che vi si riversano ogni anno. Dal fenomeno non è esente il continente americano: la migrazione di un milione di persone all’anno dal Messico agli Stati Uniti secondo gli esperti è in parte causata dal declino ecologico di un paese che per il 60% versa in condizioni di degrado ambientale.
Oggi anche l’Italia inizia a vedere i primi effetti del clima, spiega ancora Gubbiotti: «Il nostro paese è interessato in modo sempre più importante da fenomeni quali la desertificazione e la salinizzazione delle acque dolci, dirette conseguenze di cambiamenti climatici. Questi problemi, quindi, non sono più tanto lontani, poiché interessano il nostro meridione, le nostre isole e quindi il paese intero». La nostra penisola ha già iniziato a scontare gli effetti del riscaldamento globale per desertificazione e innalzamento dei mari. Negli ultimi 20 anni, infatti, in Italia si è triplicato l’inaridimento del suolo e si stima che il 27% del territorio nazionale rischia di trasformarsi in deserto. Sono interessate soprattutto le regioni meridionali, dove l’avanzata del fenomeno rappresenta già da un decennio una vera e propria emergenza ambientale. La Puglia è la regione più esposta con il 60% della sua superficie, seguita da Basilicata (54%), Sicilia (47%) e Sardegna (31%). Ma sono a rischio anche le piccole isole.
(Fonte Ikon Studio)