Perché i terremoti nell’Appennino Centrale

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Studiato il meccanismo di sollevamento di una zona dell’Appennino Centrale compresa tra la Toscana, l’Umbria, le Marche e il Lazio

Il meccanismo di sollevamento di una zona dell’Appennino Centrale compresa tra la Toscana, l’Umbria, le Marche e il Lazio, e la conseguente liberazione dell’energia sismica che accompagna il processo, è stato al centro di uno studio effettuato da un gruppo di ricercatori dell’Ingv, gruppo costituito da Claudio Chiarabba, Pasquale De Gori e Fabio Speranza. Lo studio condotto e le relative conclusioni, sono state evidenziate all’interno di un articolo pubblicato su «Lithosphere», nota rivista della Geological Society of America.
È stato possibile studiare il fenomeno grazie all’analisi attenta dei terremoti che si sono verificati negli ultimi anni in queste zone facenti parte dell’Appennino Centrale; ricordiamo, solo come esempio, il terremoto nella città di Norcia (1979), di Colfiorito (1999) e il più recente evento verificatosi all’Aquila (2009). Tutti questi episodi evidenziano lo sprofondamento di una parte della crosta e del sottostante mantello facenti parte della «micro placca Adriatica».
Dallo studio della distribuzione degli ipocentri dei terremoti lungo un piano inclinato verso Ovest, dalle proprietà della crosta individuate dalla tomografia sismica, e dall’esame dei meccanismi focali, si è partiti per ricostruire, fino a una profondità di circa 60 km, il cosiddetto «piano di Benioff», ossia la zona di sprofondamento della litosfera nel mantello (zona di subduzione). Strettamente connesso a tale fenomeno c’è anche il rilascio di anidride carbonica, che risalendo attraverso le fratture della crosta, sembra costituire uno dei meccanismi di innesco dei terremoti appenninici.

Nel dettaglio, spiega Chiarabba, portavoce del gruppo, in una nota, «rispetto agli studi precedenti, si è definito meglio quanta parte di crosta rimane a formare il wedge appenninico e quanta “subduce” in maniera solidale al mantello. Si è di fronte ad un processo il cui motore non è necessariamente da ricercarsi nello scontro attivo tra le due placche, ma in processi legati a cosa succede alla fine di una collisione». Inoltre continua Chiarabba, «abbiamo visto che vi sono eventi compressivi che avvengono in profondità sotto la catena nella zona marchigiana, bilanciati da terremoti distensivi che avvengono nella crosta superiore (tipo Colfiorito). Questo tipo di processo è comunque tipico dell’Appennino Centrale e significativamente diverso da quello che produce i forti terremoti in altre porzioni di Appennino».

Per il prof. Enzo Boschi, presidente dell’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia, questo risultato è sostanziale per comprendere la geodinamica mediterranea, una delle zone più complesse del nostro Pianeta; inoltre «è un lavoro che sottolinea l’importanza del contributo dell’anidride carbonica (CO2) proveniente dall’interno della Terra».