Una pesca millenaria, inventata probabilmente dai Fenici e perfezionata dagli arabi. Oggi praticata dalle navi-fattoria giapponesi altamente impattante
«Tonnare di ritorno. Santa Panagia e le altre» è il lavoro di Fabio Morreale, un libro ricco di foto e di riferimenti storici. In un momento in cui la pesca è sotto stretta osservazione, un ricordo a quello che era non può che far bene per tentare di ripristinare un’etica, anche in questo campo.
Nella Sicilia orientale le calde acque siracusane attiravano sottocosta numerosi branchi di tonni. La loro pesca ha costituito per secoli una delle principali fonti di sostentamento dei siracusani, l’industria primaria della provincia prima che arrivasse il petrolchimico.
Nell’Ottocento una cinquantina di tonnare erano ubicate in molte coste della Sicilia, con una maggiore concentrazione lungo quelle trapanesi, palermitane, messinesi e siracusane. Non si faceva niente per attirare i tonni, semplicemente si aspettava il loro passaggio per intrappolarli nelle tonnare fisse, cioè nel sistema di reti calato appositamente in mare, a un miglio di distanza dalla costa.
Una pesca millenaria, inventata probabilmente dai Fenici ma magistralmente perfezionata dagli arabi e tramandata fino ai giorni nostri senza troppe varianti. Arabe, infatti, sono alcune parole che riguardano le tonnare come sciere, muciara, ciurma, rais, ecc. Per comprendere meglio quanto sia antica la pesca del tonno basti pensare ai graffiti della grotta del Genovese di Levanzo (TP), raffiguranti l’aggraziata silhouette nera di un tonno di 5000 anni fa, e alle vasche per la lavorazione del pesce di età ellenistica (IV sec. a.C.) di Vendicari e Portopalo, dove gli avannotti di pesce azzurro e le interiora di tonno servivano alla preparazione del garum.
Nell’accezione comune la parola tonnara lascia pensare alle strutture terrestri (loggia, camparia, alloggi, magazzini, ecc.) che davano supporto logistico alla pesca del tonno. In verità per tonnara si intende più semplicemente un sistema di reti calato annualmente in mare, nel periodo tardo primaverile, a un miglio dalla costa, per catturare i tonni durante il loro passaggio. Pertanto possiamo affermare che i tonnaroti siracusani aspettavano l’arrivo di questi grossi pesci azzurri non solo dalle tonnare di Santa Panagia, Terrauzza, Avola, Vendicari, Marzamemi e Portopalo, ma anche da altre di cui non c’è più traccia delle costruzioni a terra come Brucoli, San Calogero, Magnisi, Ognina, Fontane Bianche, Stampace.
Il mondo delle tonnare e dei tonnaroti siciliani fu descritto con dovizia di particolari dall’antropologo Giuseppe Pitrè. La pesca del tonno in Sicilia durava tre mesi circa, ma se la stagione risultava redditizia la pesca si protraeva oltre il previsto. Nelle tonnare di andata (dette anche «di corsa»), quelle del versante occidentale che catturavano i tonni nel periodo genetico, orientativamente si pescava da maggio a luglio. Un mese dopo i tonni del trapanese e del palermitano si dirigevano verso la Sicilia orientale per poi tornare nei mari profondi. Nelle coste sud orientali li aspettavano le tonnare di ritorno per catturarli dopo la fregola, durante il viaggio di ritorno verso l’Atlantico.
Naturalmente, nelle coste siciliane occidentali i tonni arrivavano grassi e con le gonadi strapiene; quelli che sfuggivano alle reti cominciavano il viaggio di ritorno facendo il periplo dell’isola. Dopo un mese, stanchi, dimagriti e con i genitali vuoti, si avvicinavano alle coste siracusane e lì venivano pescati e venduti per le ottime carni magre.
Dal 1943, a causa della drastica riduzione del numero di tonni pescati annualmente, le tonnare fisse, una dopo l’altra, cominciarono a chiudere. Le motivazioni furono molteplici. Il colpo di grazia fu inferto innanzitutto dalla nascita del polo industriale nel triangolo Augusta/Melilli/Priolo, il più vasto d’Europa. A Santa Panagia, dove un tempo si calavano le reti, oggi si estende un lungo pontile attorno al quale si muovono centinaia di petroliere e oltre 20 milioni di tonnellate di idrocarburi l’anno. Altrettanto determinante fu la comparsa delle tonnare «volanti» dei giapponesi.
Per nove secoli i pescatori avevano aspettato i branchi di tonno vicino la costa, nei punti strategici, lungo le direttrici di marcia. Dal 1970 in poi nelle acque internazionali del Mediterraneo giunsero i giapponesi con enormi imbarcazioni chiamate «tonnare volanti» dotate di eliporto, in grado di circuire e catturare i tonni in mare aperto, mentre si spostavano, prima che raggiungessero le acque costiere. Quando le marinerie siciliane adottarono una nuova tecnica di pesca del tonno e del pesce spada, il palamito, comparvero altri nemici: le navi-fattoria giapponesi e coreane. Erano gli inizi degli anni 90. Veloci ed enormi, ancora oggi queste navi-fattoria pescano nelle acque internazionali del Mediterraneo con il palamito, lo stesso sistema di pesca dei siciliani amplificato, perfezionato ma altamente impattante sugli ecosistemi marini.