Un nuovo studio dimostra che anche le piantagioni certificate Rspo e Poig derivano dalla recente deforestazione delle foreste del Sud-est asiatico. «L’eliminazione di vaste aree di foresta in Indonesia, Malesia e Papua Nuova Guinea per la monocoltura delle palme da olio – ha dichiarato il dott. Cazzolla Gatti – sta mettendo in serio pericolo anche le ultime specie di orangutan sopravvissute sul nostro pianeta»
La globalizzazione dell’olio di palma rappresenta una seria minaccia per la diversità biologica del Sud-est asiatico, anche quando la produzione viene certificata come sostenibile. Per la prima volta, infatti, uno nuovo studio pubblicato sulla rivista «Science of the Total Environment» condotto da un team di ricercatori americani, russi e cinesi e coordinato dal biologo italiano dott. Roberto Cazzolla Gatti, dimostra che l’olio di palma certificato come «sostenibile» proviene comunque dal recente degrado dell’habitat forestale tropicale.
«In questa ricerca – ha dichiarato il dott. Cazzolla Gatti, professore associato presso la Facoltà di Biologia della Tomsk State University (Tsu) in Russia e Ricercatore associato del Forest Advanced Computing & Artificial Intelligence (Facai) Lab del Dipartimento di Scienze Naturali e Forestali della Purdue University negli Usa – abbiamo mostrato il perché le certificazioni Rspo (Roundtable on Sustainable Palm Oil) e l’iniziativa Poig (Palm Oil Innovation Group) siano inefficienti come mezzi concreti per arrestare il degrado delle foreste e la perdita di biodiversità. In altre parole, per proteggere davvero l’ambiente, l’olio di palma certificato non dovrebbe essere considerato sostenibile».
Mediante i più aggiornati dataset disponibili alla scienza, tra cui quelli del Global Forest Watch, di Greenpeace, del ministero delle Foreste indonesiano, dell’Rspo e dell’Aidenvironment gli autori dello studio hanno analizzato 15 anni di variazione della copertura forestale in Indonesia, Malesia e Papua Nuova Guinea per comprendere se l’idea che l’olio di palma possa essere sostenibile sia finzione o realtà. «Abbiamo scoperto – si legge nello studio del dott. Cazzolla Gatti e colleghi – che dal 2001 al 2016 circa il 40% dell’area presente nelle attuali concessioni Rspo ha subito un significativo degrado dell’habitat (causato da deforestazione, incendi o altri danni agli alberi) prima di essere convertita in piantagioni di olio di palma e che tale perdita di copertura arborea si è verificata sia prima sia dopo l’inizio degli accordi Rspo (2004) e dell’iniziativa Poig (2013). Il risultato è che le concessioni certificate non differiscono molto da quelle non certificate. Questo ci dà ragione di considerare qualsiasi produzione certificata di olio di palma come non completamente esente da deforestazione».
La produzione industriale di olio di palma inizia, di solito, con il taglio e l’incendio delle foreste tropicali primarie per piantare palme da olio (della specie Elaeis guineensis) e ricavare un grasso raffinato utilizzato principalmente dalle industrie alimentari e cosmetiche. Le conseguenze per la salute umana dell’assunzione giornaliera di olio di palma sono ancora oggetto di discussione, ma la significativa perdita di foreste e il degrado degli ecosistemi causati dalla coltivazione di quest’olio suscitano ancor più preoccupazione.
«L’eliminazione di vaste aree di foresta in Indonesia, Malesia e Papua Nuova Guinea per la monocoltura delle palme da olio – ha dichiarato il dott. Cazzolla Gatti – sta mettendo in serio pericolo anche le ultime specie di orangutan sopravvissute sul nostro pianeta».
Nel 2004 è stata lanciata la tavola rotonda sull’olio di palma sostenibile (Rspo), un gruppo composto da aziende, banche, investitori e organizzazioni ambientaliste non governative (Ong), per creare un mercato per l’olio di palma sostenibile. L’obiettivo dell’Rspo (che ora vanta oltre 3.000 membri) è quello di sviluppare una serie di criteri ambientali e sociali che le aziende devono rispettare per produrre olio di palma sostenibile certificato (Cspo). Secondo l’Rspo, quando questi criteri vengono applicati correttamente, l’impatto negativo della coltivazione dell’olio di palma sull’ambiente e sulle comunità nelle regioni produttrici può essere ridotto al minimo.
Tuttavia, sin dal suo avvio, la certificazione Rspo è stata messa in discussione come mezzo concreto per arrestare il degrado delle foreste e la perdita di biodiversità. Infatti, le aziende certificate Rspo dovrebbero garantire che le foreste siano valutate per i loro alti valori di conservazione (Hcv) prima di nuovi impianti e, dopo il recente rafforzamento mediante il Palm Oil Innovation Group (Poig), che le piantagioni non danneggino le aree a elevato stock di carbonio (Hcs).
Sebbene la maggior parte delle preoccupazioni delle Ong ambientaliste sia dovuta al fatto che le certificazioni Rspo-Poig consentono la rimozione degli alberi e l’insediamento delle piantagioni di palma da olio in qualsiasi foresta non identificata come Hcv o Hcs, lo studio condotto dal dott. Cazzolla Gatti e colleghi suggerisce che un aspetto spesso nascosto e ancor più preoccupante riguardante l’olio di palma «sostenibile» è che questo proviene comunque dal recente degrado delle foreste tropicali.
«Poiché il mercato mondiale dell’olio di palma continua ad espandersi grazie alla crescente domanda dell’industria alimentare e cosmetica – ha concluso il biologo italiano che lavora presso prestigiose accademie russe e statunitensi insieme ai co-autori dello studio, i dott. Liang, Velichevskaya e Zhou – è fondamentale quantificare accuratamente i costi e i benefici economici e ambientali dell’attuale produzione «sostenibile» dell’olio di palma, basandosi sui dati più recenti disponibili come fatto nella nostra analisi, per valutare politiche e strumenti alternativi che ne migliorino l’efficacia. I sostituti dell’olio di palma che hanno meno impatti ambientali dovrebbero essere una priorità della ricerca, ma fino a quando i costi ambientali della produzione non saranno internalizzati nel suo prezzo, quest’olio continuerà a dominare il mercato e a causare danni catastrofici sulle foreste tropicali. Suggeriamo incentivi economici a livello nazionale per ridurre il consumo di alimenti grassi e insalubri e per promuovere l’uso di oli non tropicali di origine nazionale (ad esempio quelli di colza, oliva, girasole, lino, etc.) nei prodotti alimentari e cosmetici (qualcosa che molti marchi europei hanno già iniziato autonomamente a fare per ridurre le crescenti preoccupazioni dei consumatori). Queste misure scoraggerebbero l’uso totalmente insostenibile dell’olio di palma sul mercato globale e sarebbero molto più efficaci di qualsiasi schema di certificazione per la sostenibilità ambientale.
Insomma, ora abbiamo anche le basi scientifiche per affermare che «l’olio di palma sostenibile non esiste!» e che, purtroppo, marchi e certificazioni non sono efficaci nell’arrestare la distruzione delle meravigliose foreste tropicali.
R. V. G.