Il progetto Pelagos Plastic Free per difendere le acque dell’area protetta più grande del Mediterraneo. Sono state prese in considerazione 60 stazioni di campionamento in mare, dove sono stati trovati oltre 114.000 rifiuti plastici per chilometro quadrato, sospesi in acqua come plancton
«Atmosfera», «biosfera», «stratosfera» sono solo alcune delle parole che descrivono la varietà del nostro Pianeta. Oggi, a questo elenco dobbiamo purtroppo aggiungere un nuovo termine che racconta di una realtà sempre più pericolosa: la «plastisfera». Come suggerisce il nome stesso, la plastisfera rappresenta un ecosistema che si sviluppa sul materiale plastico presente nel mare ed ospita microrganismi potenzialmente dannosi, quali batteri, alghe e virus.
Grazie al progetto Pelagos Plastic Free, finanziato dal Segretariato Pelagos e da Unicoop Firenze, Novamont, Mareblu, Parco dell’Arcipelago Toscano e Parco delle Cinque Terre, ora sappiamo di più riguardo a questo nuovo ecosistema di plastica e ai suoi possibili effetti negativi sulla fauna marina.
La ricerca è stata condotta da Expèdition Med in collaborazione con Legambiente e si è concentrata sull’area protetta Pelagos, il Santuario per i mammiferi marini, istituita nel 1991 e compresa tra Toscana, Corsica e Francia; purtroppo questa è anche una delle zone con la più alta concentrazione di plastica al mondo.
Durante il progetto, che si è svolto tra luglio e agosto del 2018 e ha previsto anche attività di citizen science, sono state prese in considerazione 60 stazioni di campionamento in mare, dove sono stati trovati oltre 114.000 rifiuti plastici per chilometro quadrato, sospesi in acqua come plancton. Una zuppa di plastica composta da frammenti di varie dimensioni, trasportata dalla corrente e concentrata soprattutto nel canale di Corsica, lungo la Costa Azzurra e a nord dell’Isola di Capraia, siti in cui transitano, per alimentarsi, cetacei come le balenottere comuni.
I polimeri che compongono il materiale plastico disperso in mare sono soprattutto polietilene, polipropilene, polistirene e polistirene espanso. Su questi substrati, ulteriori analisi hanno evidenziato la presenza di vari tipi di microrganismi, sui quali sono stati fatti screening di Dna. Sono stati trovati batteri dei generi Vibrio e Escherichia, ma anche alghe unicellulari dei generi Gonyaulax, Karenia e Pseudo-nitzschia.
Queste comunità microbiche variano nella loro composizione a seconda della zona di campionamento e sono differenti da quelle che si sviluppano normalmente nelle acque non contaminate da plastica. Dal momento che la plastica ha dei tempi di persistenza in mare molto lunghi, i microrganismi che vivono a contatto con essa possono essere trasportati dalle correnti a grandi distanze, il che li rende potenziali specie invasive di altri ecosistemi. Inoltre, è probabile che alcune di queste specie microbiche riescano a biodegradare il materiale plastico, immettendo nell’acqua, e dunque nella catena alimentare marina, sostanze chimiche potenzialmente dannose.
Parallelamente alle attività di ricerca, sono state compiute attività di sensibilizzazione nei confronti delle amministrazioni, dei giovani e degli operatori del mare, per diffondere pratiche virtuose di gestione dei rifiuti e stimolare l’impegno in attività concrete. Una di queste, per esempio, è l’iniziativa «La mia barca è Plastic Free», in collaborazione con Ucina Confindustria Nautica e la rivista mensile Nautica: sarà un «marchio» che dichiarerà la lotta all’inquinamento del mare attraverso la riduzione dell’utilizzo di plastica usa e getta a bordo della propria imbarcazione. Un piccolo gesto con un grande significato, nella speranza che l’area marina protetta più vasta del Mediterraneo torni ad essere un luogo dove la biodiversità possa proliferare libera dalla plastica.
(Fonte Arpat, Testo di Elena Fumagalli)