Epidemia o carestia?
Il racconto di ciò che sta avvenendo a cominciare dalla Lombardia. Come reagiscono e si comportano gli italiani. Una curiosa storia dalla Livorno del 1835 e la reazione del grande Pellegrino Artusi
Sono milanese, ma vivo a metà in casetta di campagna a Vho di Tortona in Piemonte.
Per un incidente da circa un anno sono in sedia a rotelle e la spesa spesso la fa mio marito, io preparo la lista e lui va e compra, porta a casa e io cucino, cosa a cui non ho rinunciato.
Giorni fa, prima che scoppiasse l’epidemia di Coronavirus, stavo un po’ meglio e sono uscita anch’io, accompagnata in sedia a rotelle per salutare chi mi conosce e prendere un po’ d’aria.
Ho fatto la spesa e mi sono goduta una mattinata diversa dalle altre.
Non sapevo fosse l’ultima volta per un po’.
Dal 21 febbraio in Lombardia tutto è cambiato, quando è stato rilevato il primo caso di Coronavirus e creata la prima zona rossa a Codogno.
Assieme al virus e più prepotente, è dilagata la paura di restare senza qualcosa e ha varcato i confini amministrativi della zona rossa, che mai come questa volta si sono dimostrati astratte costruzioni che poco reggono al diffondersi dei virus, della paure e delle informazioni.
Dalla prima notizia di un malato italiano, mai stato in Cina, alla creazione della zona rossa in una decina di piccoli comuni nel lodigiano, sono passate poche ore, ma subito la reazione un po’ in tutta la Lombardia è stata il buttarsi nei supermercati a comprare merci di ogni tipo, senza badare alle semplici regole per evitare il contagio nei luoghi pubblici.
Passano i giorni e il virus continua a fare il suo mestiere e contagia sempre di più, le autorità intervengono in modo pasticciato, fino ad arrivare al decreto che dal 12 marzo mette l’Italia tutta in isolamento.
Una crepa nella corazza smagliante di Milano
A Milano i primi a chiudere sono stati gli esercizi cinesi, ristoranti, manicure, parrucchieri, abbigliamento, sartorie e assistenza elettronica. Comprensibile dato che qualcuno li ha anche minacciati di dargli fuoco, ma in un giorno si scopre quanti siano i locali cinesi.
Subito dopo arriva l’ordinanza che impone la chiusura di bar e poi ristoranti alle 6 di sera.
Nello sconcerto generale a Milano si scopre che i ristoranti, i bar, i parrucchieri, le vie dello shopping non sono servizi essenziali quindi devono stare chiusi e tutti noi dobbiamo stare a casa, stando ben attenti a come ci comportiamo.
Assieme al virus adesso si teme il crollo emotivo.
In una città come Milano, che ha fatto dell’aperitivo un rito collettivo, che si è riempita di ristoranti dove rifugiarsi dopo il lavoro, il cui sindaco la prima cosa che ha fatto è stato un filmato con la Galleria di sfondo e lo slogan Milano non si ferma, quello che da ieri si vede per le strade è lo sconcerto.
Già pareva tanto la chiusura dei locali alle 6 di pomeriggio, proprio l’orario di quando inizia la vita vera, o i cinema con i posti distanziati e i teatri chiusi. Adesso si deve anche stare a casa.
Eppure si sapeva che non solo c’era il rischio, ma la forte possibilità che andasse a finire così, bastava ascoltare i medici, anche solo quello di base e dargli retta, ma è andata diversamente e serpeggia stupore, sconcerto, incredulità.
Una cosa invisibile ha aperto una crepa nella corazza smagliante di Milano.
Si lavora da casa e si esce solo per fare la spesa, c’è silenzio, si sentono le campane, i cani che abbaiano e gli uccelli cinguettare, l’aria ha un odore migliore.
Ma dove sono finite le scorte fatte nei giorni scorsi, quando a ogni conferenza stampa, seguivano code alle casse dei supermercati e le app per gli acquisti on line si saturavano in un attimo?
Non sono stati registrati assalti ai forni, ma ai banchi dei surgelati e degli inscatolati, le insalate in busta sono sparite, come i disinfettanti di ogni sorta e genere.
Ieri ho controllato la dispensa e il frigorifero, ho scritto la lista della spesa e l’ho data a mio marito.
Mancavano il riso, la farina, le cipolle, le patate e le uova e il latte, per il resto le scorte erano a posto. Dato che è un po’ di giorni che mi chiedono di fare le crespelle e siamo in 4 a tavola, sulla lista scrivo 24 uova bio.
Mio marito va, fa la spesa e torna a casa con tutto ciò che era segnato in lista a cui ha aggiunto del lievito di birra secco e della semola rimacinata.
«Così, se vuoi puoi fare il pane o la pasta».
Resto stupita e gli chiedo come fossero gli scaffali, quanta gente ci fosse, se gli ingressi erano contingentati.
«Ingressi contingentati, alle casse la fila distanziata, abbastanza gente, scaffali di quello che prendiamo noi ben assortiti, gli altri vuoti».
Ai tempi del Coronavirus la scorta per casa è fatta di gnocchi industriali, piatti precotti, dolci e pane incellofanati, non di patate, farina o uova per farli.
Questa non è paura della fame, non c’è penuria di cibo, non c’è rischio di speculazioni sui prezzi, almeno non più del solito.
Questi carrelli della spesa raccontano una paure diversa, quella di cambiare lo status delle proprie abitudini, prima di tutto quelle alimentari.
È dagli anni 50 del secolo scorso che viviamo nell’abbondanza alimentare, basta guardare i consumi di prodotti indicatori di ricchezza come la carne o il numero di ristoranti aperti a Milano o i dati sulla raccolta differenziata, dove plastica, vetro, carta e metalli, insomma le confezioni, la fanno da padroni rispetto all’umido da avviare al compostaggio.
Milano, le città lombarde, ma anche piemontesi, venete ed emilianoromagnole, sono zone ricche, di soldi come di risorse.
Allora perché correre al super per fare la spesa e comprare il sugo alla carbonara in barattolo?
Questa pandemia da Covid-19, come dall’11 marzo l’ha definita l’Oms, è un’esperienza del tutto nuova per noi, o meglio per il mondo in cui fino a poco fa credevamo potesse essere così forte da esserne immune.
Ci cambierà, tanto, ci saranno rivolgimenti e rivoluzioni finanziarie ed economiche, ci sarà recessione e poi dell’altro, ma come accadrà e cosa colpirà non è dato sapere.
Una cosa è certa, non ci porterà alla fame da penuria di cibo.
Alla fame ci porterà la stupidità di non sapere più cucinare il cibo che ci sfama.
La peste del 1835
Pellegrino Artusi nel 1835 era a Livorno quando scoppiò l’epidemia di colera che decimò la città.
L’esperienza lo spaventò e segnò molto, perché era stato male mangiando un minestrone e gli aveva dato la colpa. Solo anni dopo capì che era il colera e non il minestrone il colpevole. Così gli dedicò una ricetta fin dalla prima edizione del suo «La scienza in cucina e L’arte di mangiare bene».
Ricetta 47 dall’ultima edizione edita da Giunti Marzocco nel 1911 a Firenze.
Nella prima edizione, edita in Firenze a spese dell’autore nel 1891, era la ricetta 33.
Il Minestrone
Il minestrone mi richiama alla memoria un anno di pubbliche angoscie e un caso mio singolare.
Mi trovavo a Livorno al tempo delle bagnature l’anno di grazia 1855, e il colera che serpeggiava qua e là in qualche provincia d’Italia, teneva ognuno in timore di un’invasione generale che poi non si fece aspettare a lungo. Un sabato sera entro in una trattoria e dimando: – Che c’è di minestra? – Il minestrone, – mi fu risposto. – Ben venga il minestrone, – diss’io. Pranzai e, fatta una passeggiata, me ne andai a dormire. Avevo preso alloggio in Piazza del Voltone in una palazzina tutta bianca e nuovissima tenuta da un certo Domenici; ma la notte cominciai a sentirmi una rivoluzione in corpo da fare spavento; laonde passeggiate continue a quel gabinetto che più propriamente in Italia si dovrebbe chiamar luogo scomodo e non luogo comodo. – Maledetto minestrone, non mi buscheri più! – andavo spesso esclamando pieno di mal animo contro di lui che era forse del tutto innocente e senza colpa veruna.
Fatto giorno e sentendomi estenuato, presi la corsa del primo treno e scappai a Firenze ove mi sentii subito riavere. Il lunedì giunge la triste notizia che il colera è scoppiato a Livorno e per primo n’è stato colpito a morte il Domenici. – Altro che minestrone! – Dopo tre prove, perfezionandolo sempre, ecco come lo avrei composto a gusto mio: padronissimi di modificarlo a modo vostro a seconda del gusto d’ogni paese e degli ortaggi che vi si trovano.
Mettete il solito lesso e per primo cuocete a parte nel brodo un pugnello di fagiuoli sgranati ossia freschi: se sono secchi date loro mezza cottura nell’acqua. Trinciate a striscie sottili cavolo verzotto, spinaci e poca bietola, teneteli in molle nell’acqua fresca, poi metteteli in una cazzaruola all’asciutto e fatta che abbiano l’acqua sul fuoco, scolateli bene strizzandoli col mestolo. Se trattasi di una minestra per quattro o cinque persone, preparate un battuto con grammi 40 di prosciutto grasso, uno spicchio d’aglio, un pizzico di prezzemolo, fatelo soffriggere, poi versatelo nella detta cazzaruola insieme con sedano, carota, una patata, uno zucchino e pochissima cipolla, il tutto tagliato a sottili e corti filetti. Aggiungete i fagiuoli, e, se credete, qualche cotenna di maiale come alcuni usano, un poco di sugo di pomodoro, o conserva, condite con pepe e sale e fate cuocere il tutto con brodo. Per ultimo versate riso in quantità sufficiente onde il minestrone riesca quasi asciutto e prima di levarlo gettate nel medesimo un buon pizzico di parmigiano.
Vi avverto però che questa non è minestra per gli stomachi deboli.
Iaia Deambrogi