Ecco gli scarichi più inquinanti

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Solo ora appare il mare che vogliamo

I limiti della qualità di scarichi autorizzati, e le modalità di immissione nei corsi d’acqua, sono tali da non causare, anche tutti insieme, i livelli di inquinamento che si registravano. Quanto meno per ciò che si rileva anche a vista, prima ancora di misure e controlli analitici: la torbidità. Questo è un fatto incontestabile. Le acque sono più limpide perché manca l’industria

«Questo è il mare che voglio» è un’iniziativa di una famosa radio nazionale, appoggiata dal ministro Costa, per raccogliere immagini e video di spiagge e tratti di mare italiani che oggi si presentano straordinariamente puliti, limpidi e dai colori meravigliosi, popolati da pesci, cetacei e altri animali che mai avevamo visto affacciarsi così sotto costa.

Tantissime sono anche le testimonianze, le immagini e i filmati di fiumi, torrenti e laghi, diventati in un niente da orride cloache e pozze chimiche a limpidissimi corsi d’acqua e stagni pieni di vita.

Chi non vorrebbe sempre un mare e dei fiumi così? Ma sarà possibile?

Prima di tutto cerchiamo di capire che cosa sta accadendo e come è possibile che questa rigenerazione naturale sia avvenuta in così poco tempo.

Banalmente si direbbe che, stando fermi, non inquiniamo più e la natura si riprende i suoi spazi e la sua qualità.

Questa generica considerazione, che appare come una ovvietà, apre invece a diverse altre considerazioni e deduzioni, per nulla banali, invece.

La misura della qualità ambientale

La prima riguarda l’occasione, unica, insperata e impensabile solo fino a poche settimane fa, di rilevare una montagna di dati sulle acque, l’aria e in generale sugli ecosistemi nella loro condizione «indisturbata» o poco disturbata, che tecnicamente si può definire di «bianco» o di «fondo naturale».

Si tratta, cioè, della possibilità di definire un quadro di riferimento di base su cui parametrare la qualità di ambiente, ecosistemi e singole matrici ambientali, che ci consente di poter misurare successivamente, in maniera molto più precisa di prima il «peso», l’effetto delle attività antropiche, man mano che si riattivano.

Spieghiamo meglio.

Quando i sistemi di monitoraggio ambientale sono stati sviluppati in forma più completa e continua (ad esempio grazie alla direttiva europea sulle acque del 2000) si partiva da condizioni di disturbo già elevate. Non potendo fermare tutto, per rilevare un tempo e una condizione «zero» di riferimento, si sono definiti parametri di qualità in parte sulla base di elaborazioni scientifiche e in parte sulle conoscenze di ambienti particolari che anche allora si potevano considerare indisturbati. Con il limite di una generalizzazione che non poteva tenere conto della particolarità e unicità di ogni ecosistema. E in ogni caso, anche gli ambienti più apparentemente indisturbati, certamente non potevano non risentire di pressioni esercitate anche a grande distanza: in natura tutto è collegato, nel tempo e nello spazio.

Ora invece possiamo, perché mai al mondo, dall’inizio dell’era industriale e nemmeno nelle crisi più profonde, c’è stato uno stop alle attività umane così diffuso su tante attività e in tante parti del mondo.

Questo ha una conseguenza molto importante per definire, una volta per tutte, quelli che si chiamano «obbiettivi di qualità», ovvero a quale livello di qualità ambientale devono tendere le strategie di tutela e risanamento ambientale, le prime quando si stima l’impatto prevedibile di nuovi piani, programmi e progetti antropici, il secondo come target di bonifica di siti contaminati.

Ora potremmo disporre di una oggettiva scala di valore a cui riferirsi.

Ma perché la cosa vale solo per queste due matrici, e molto meno per il suolo o gli stessi sedimenti degli ambienti acquatici? Dipende dalla famosa «memoria storica» delle matrici ambientali: quelle che scorrono o si spostano velocemente risultano inquinate solo in presenza di un inquinamento continuo; se questo si ferma, le masse nuove che scorrono disperdono l’inquinamento, e se non ce n’è di nuovamente immesso, si ripuliscono velocemente, ma trasferendo in parte il carico inquinante proprio al suolo e ai sedimenti. Il suolo, e i sedimenti al di sotto delle acque, conservano molto più a lungo gli inquinanti accumulati e si rigenerano grazie a processi bio-geo-chimici che richiedono tempo dall’interruzione dell’immissione di inquinanti.

Chi e quanto inquina?

Tale acquisizione determina anche un importante effetto giuridico.

La norma, soprattutto europea e italiana, laddove applicata alla valutazione di una compromissione o di un vero danno ambientale, richiede sempre che ciò sia effettivo e oggettivamente determinabile («è  danno ambientale, qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale»).

Fino a ieri non si contavano i contenziosi basati proprio su questa definizione giuridica, in base alla quale risultava opinabilissimo sia definire l’esistenza di un danno significativo e misurabile, ma soprattutto di chi e che cosa ne fosse indiscutibilmente la causa, ovvero se non vi fosse già una condizione pregressa di origine «naturale» che esentasse da responsabilità causali aggiuntive i soggetti di volta in volta accusati di aver causato il danno, ove non colti in flagranza di reato.

Quindi, la definizione delle condizioni di non disturbo oggi possibile, consentirebbe di rendere finalmente efficaci molti strumenti normativi, almeno per quanto riguarda la matrice ambientale acqua e aria.

E non è tutto.

Per esempio, possiamo già dire molto sull’inquinamento che c’era fino a ieri, chi lo generava e come.

Per i tratti di costa qualcuno potrebbe maliziosamente asserire che gli impatti venuti meno siano ascrivibili prevalentemente al disturbo da navigazione e pesca intensiva.

E ci potrebbe stare: entrambe le attività provocano risospensione di sedimenti (per la pesca, soprattutto quella a strascico), quindi mancando quella, il mare diventa più limpido, e gli animali, non disturbati, si avvicinano.

Ma possiamo eliminare l’effetto degli scarichi? Forse per quelli di natura domestica sì, visto che la gente è più meno sempre quella, indipendentemente da dove si trovi, e i servizi di depurazione, anche.

Ma manca, invece, la componente industriale, sia come scarico diretto che attraverso la rete urbana, che attraverso l’illecito smaltimento con autobotti. E questo ha certamente un impatto diretto sul mare; come anche uno, forse ancora più importante, sul buon funzionamento dei depuratori, con la conseguente miglioria lungo la costa.

Quindi la componente industriale conta, come vedremo.

Se poi parliamo di torrenti e fiumi non navigabili, la cosa diventa chiarissima: l’unica cosa che è cambiata sono gli scarichi industriali. La navigazione non c’entra, perché inesistente anche prima, e nemmeno gli scarichi civili, che c’erano anche prima e continuano a esserci.

L’esempio di uno dei fiumi più inquinati d’Italia, il Sarno, diventato di colpo cristallino, la dice lunga.

Ma qui sorgono due domande, apparentemente banali: gli scarichi che fino a ieri rendevano questi corsi d’acqua così sporchi, torbidi e puzzolenti, erano tutti sempre a norma, cioè rispettavano i limiti di qualità per cui erano stati autorizzati? E poi, erano tutti autorizzati?

La risposta è purtroppo certa: no! Certamente non tutti gli scarichi erano sempre a norma, che fossero autorizzati o abusivi.

E questa non è un’ipotesi malevola, ma un dato scientificamente dimostrabile: i limiti della qualità di scarichi autorizzati, e le modalità di immissione nei corsi d’acqua, sono tali da non causare, anche tutti insieme, i livelli di inquinamento che si registravano. Quanto meno per ciò che si rileva anche a vista, prima ancora di misure e controlli analitici: la torbidità. Questo è un fatto incontestabile. Le acque sono più limpide perché manca l’industria.

Se poi pensiamo che quei corsi d’acqua sfociano prima o poi a mare o in un bacino, ecco confermato anche quanto dicevamo prima sulla qualità del mare e dei laghi. Il contributo industriale è determinante, e non è tutta colpa della navigazione e della pesca.

Ora, tornando alla domanda iniziale, se la meraviglia ambientale di queste settimane potrà rimanere tale anche con l’avvio delle fasi 2, 3, 4 e avanti non può esserci che una ed una sola risposta: se accettiamo lo spirito espresso anche da Confindustria, che la ripresa non sarebbe possibile senza un allentamento dei vincoli, non solo ci dobbiamo aspettare di tornare in pochissimo tempo alla condizione di prima del confinamento, ma è praticamente certo che sarà ancora molto peggio. E stavolta non ne saremo già assuefatti.

Il pugno nell’occhio, nel naso, nei polmoni, e nello stomaco, sarà terribile.

Viceversa ci potrebbe essere una levata di spirito collettivo, di cui i decisori dovrebbero forzatamente tener conto, per porre una severissima condizionalità ambientale sia ai permessi di riprendere la produzione industriale sia alla concessione degli invocati aiuti economici per la ripresa.

E il modo ci sarebbe, e fa anche Pil, di cui avremmo tanto bisogno, dicono.

Invece di destinare tanti giovani, per lavoro o volontari, a controllare se al mare stiamo a 2, 3 o chissà quanti metri di distanza l’uno dall’altro (come qualcuno già propone), potenziamo il sistema dei controlli a tutto spiano; al primo sgarro, applichiamo la legge che già c’è, e che oggi, se vogliamo, possiamo finalmente efficacemente utilizzare, grazie al «gold standard» che la natura ci ha fornito non appena glielo abbiamo permesso.

Ma già sento risuonare il commento: «questo è un approccio da carabiniere!», non da percorso di consapevolezza e condivisione, che invece cambia veramente le cose alla radice e le mantiene stabili nel tempo. Vero, se ci fosse solo quello, senza una strategia governativa di indirizzo, di incentivi e disincentivi, per cambiare radicalmente il modello di sviluppo, verso produzioni industriali realmente sostenibili e più utili. L’occasione della ripresa, come diciamo sempre, è preziosa anche per questo: cambiare.

Abbiamo capacità scientifiche e tecnologiche che ci consentirebbero certamente di produrre secondo una logica completamente diversa, usando sostituti di composti di sintesi pericolosi con materie naturali, recuperando e riciclando, evitando così di scaricare reflui inquinanti, ad esempio, semplicemente perché non si producono nei processi. Anche scegliendo con attenzione che cosa produrre e a che cosa serve veramente; il meccanismo della produzione, massiccia e concentrata, di oggetti di cui poi si determina la necessità fittizia, non è più accettabile.

Ma se questo non dovesse accadere, proprio sotto le pressioni lobbistiche degli inquinatori seriali, non abbiamo altro strumento se non il controllo e la repressione, per continuare ad avere il mare pulito.

 

Massimo Blonda, Biologo ricercatore Cnr