Se il mito del progresso incontra il virus

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Oggi siamo alla terza o quarta generazione che cresce ad un ritmo che la storia non ha mai conosciuto. La categoria della crescita è diventata uno stato d’animo, un rimedio all’angoscia, una garanzia per sé e per i propri figli per cui se questa speranza nella crescita si affievolisce accade una paralisi del pensiero, un’ansia per il futuro

La crisi sanitaria provocata dalla pandemia del Coronavirus, ha radicalmente cambiato il nostro modo di vivere e di pensare. In una parola, questa emergenza sanitaria segna una cesura netta con il passato; nulla sarà più come prima. È finita un’epoca, quella della globalizzazione che per trent’anni ha caratterizzato le nostre vite. Ci troviamo davanti ad uno snodo cruciale della storia e forse non è azzardato il paragone proposto da Giulio Tremonti. Afferma il professore che, come l’attentato di Sarajevo del giugno diede inizio alla Prima Guerra Mondiale ponendo fine alla Belle Époque, così la pandemia da Coronavirus pone fine al glorioso trentennio della globalizzazione.

Sotto questo aspetto l’attuale pandemia può essere considerata il classico «incidente della storia», cioè uno di quegli avvenimenti epocali dopo i quali nulla sarà più come prima.

Anche noi siamo convinti che ci troviamo di fronte ad un vero e proprio evento epocale, la cui portata e i cui effetti determineranno una «rivoluzione copernicana». Ma a finire sul banco degli imputati sono altri due concetti, di cui ultimamente forse si è abusato un po’ troppo: modernità e progresso. Premettiamo che non siamo né contro la modernità e né contro il progresso; ma contro l’uso e l’abuso che si è fatto di questi due concetti. Ora l’attuale crisi è l’occasione giusta per rimettere le cose al loro posto.

Karl Kraus nel 1909 pubblicò un articolo intitolato «Il Progresso», dove descriveva il progresso come il prototipo di un processo meccanico o quasi meccanico, autoalimentato e automantenuto, capace di creare ogni volta le condizioni della propria perpetuazione, in particolare producendo inconvenienti, fastidi e danni che solo un nuovo progresso può consentire di superare. Come nota il filosofo finlandese Georg Henrik von Wright in «Il mito del progresso», «la condizione per la risoluzione dei problemi creati dalla stessa produzione industriale intensificata e razionalizzata è una crescita economica continua».

A quanto pare, occorre una sempre maggiore crescita per risolvere i problemi posti dalla crescita stessa. Una mente scettica potrebbe concludere che lo scopo del progresso, se uno ve n’è, è finalmente diventato chiaro: tutto fa credere che esso, in realtà, sia solo ed esclusivamente la perpetuazione di se stesso. Questo è quanto ci dice anche Kraus. In genere, parlando di progresso siamo portati a pensare alla velocità e all’accelerazione necessarie a perseguire uno scopo. In realtà, in tutto ciò che cammina, o meglio che corre, il progresso è proprio l’unico del quale non si può dire che cammini. «Era come se la fretta — afferma Kraus — fosse diventata l’obiettivo primo del mondo invece che di offrire al mondo nuovi obiettivi». Il mezzo, per Kraus, sembra aver preso definitivamente il sopravvento sul fine.

Nella sua opera «Il mito del progresso», von Wright rimette in discussione alcune fedi contemporanee fondamentali, a cominciare, come abbiamo visto, dalla fede nel progresso. Il filosofo ci ricorda da un lato che la specie umana deve sottostare alla stessa legge di precarietà e caducità di altre specie (e che non è detto che non scompaia nel prossimo futuro a causa di guerre nucleari o batteriologiche) e, dall’altro, che niente garantisce che la forma industriale di produzione sia biologicamente adatta all’essere umano né, in modo più generale, che quest’ultimo sia ancora capace di adattarsi ad un ambiente che lui stesso ha contribuito a trasformare in modo tanto eclatante e rapido.

Queste idee non hanno suscitato reazioni negative sorprendenti da parte di scienziati, economisti, politici, intellettuali accomunati da una comune convinzione che possiamo chiamare «fede nella crescita economica illimitata». Il che conferma l’idea di Kraus secondo il quale tutti, anche se non sanno cosa sia il progresso, si sentono più che mai in dovere di credere che una cosa è almeno sicura: il fatto che progrediamo, che possiamo farlo in modo illimitato e che l’obbligo di continuare a farlo è una specie di imperativo categorico per le società contemporanee.

Sulla stessa lunghezza d’onda si pone anche Umberto Galimberti il quale, parlando del mito della crescita, pone provocatoriamente una domanda: che cosa prova la gente a diventare collettivamente più povera? Il filosofo risponde che un po’ di povertà non fa mai male, contiene i costumi che abbiamo spinto all’eccesso, rende le città più vivibili e non più in preda del traffico e salva qualche vita il sabato sera. Ma questi e tanti altri vantaggi non riusciranno a scalfire il senso di inquietudine che pervade sia i singoli individui e sia le imprese che si sentono impotenti a modificare l’andamento dell’economia la quale, per effetto della globalizzazione e della supremazia dell’aspetto finanziario (e virtuale) su quello produttivo (e reale), sembra sia divenuta qualcosa di trascendente, qualcosa di governato da un dio ignoto i cui disegni nessuno davvero conosce. Dietro a tutto ciò c’è una parola che Galimberti non esita a definire «subdola»: questa parola è «crescita». Un concetto che è diventato una forma mentis, un modus vivendi: le nazioni, gli Stati «devono crescere», ma a spese di chi e a quali costi ambientali? Qui l’economia tace e insieme all’economia tacciono anche le voci degli uomini che alle leggi dell’economia si devono piegare.

Oggi siamo alla terza o quarta generazione che cresce ad un ritmo che la storia non ha mai conosciuto. La categoria della crescita è diventata uno stato d’animo, un rimedio all’angoscia, una garanzia per sé e per i propri figli per cui se questa speranza nella crescita si affievolisce accade una paralisi del pensiero, un’ansia per il futuro. A tal proposito Galimberti si augura che «se la crescita zero ci desse l’opportunità concreta di cominciare a riflettere sull’assurdo ritmo che ha assunto la nostra esistenza […] allora può essere accettata come una buona occasione per raddrizzare non solo il nostro costume, ma anche la qualità del nostro sguardo sulla vita e sul mondo». Tale riflessione oggi è valida più che mai.

Ma, come abbiamo detto, a finire sul banco degli imputati è anche il concetto di modernità. E qui le cose si complicano. Tale idea indicava il periodo solitamente designato dal pensiero sociologico come l’affermarsi della razionalità in molti ambiti di vita sociale (basti pensare alla burocrazia di Max Weber). Dall’affermarsi prepotente della razionalità consegue un importante incremento dell’innovazione tecnologica che invade ogni ambito della vita. Si può far risalire la nascita della modernità con la seconda rivoluzione industriale e la nascita del positivismo, propugnatore dei suoi valori materialisti e prettamente scientifici. Da questo momento in poi è iniziato un lento ma inesorabile declino per l’uomo, per la sua libera attività creatrice. Ciò che conta è il progresso scientifico, l’avvenire dell’umanità. Ma la tecnica, più che di progresso per l’umanità, che pure c’è stato (basti pensare alla diffusione della sanità, alle norme igieniche, all’istruzione per tutti, ecc.), ha pensato di costruire un’umanità a sua immagine, diventando il braccio armato del nuovo dominus, la burocrazia. Possiamo notare che progresso e modernità sono due concetti che se travisati (come purtroppo è accaduto) sono capaci di portare l’umanità alla sua rovina.

E ritorniamo ai giorni nostri e alla nostra battaglia contro il Coronavirus. Non è che questo terribile virus sia, in realtà, figlio spurio di una falsa idea di progresso e modernità? Quel che è certo è che questa pandemia ci ha risvegliati dal pericolo maggiore che hanno sempre corso gli individui e l’umanità, quello dell’illusione di onnipotenza. Un concetto questo magistralmente spiegato da padre Raniero Cantalamessa durante l’omelia tenuta in Vaticano nel corso della celebrazione dei riti del Venerdì Santo.

Ha scritto un noto rabbino ebreo, Yaakov Yitzhak Birderman, che quest’anno abbiamo l’occasione di celebrare uno speciale esodo pasquale, quello «dall’esilio della coscienza». È bastato il più piccolo e apparentemente insignificante elemento della natura, un virus, ha ricordarci che siamo mortali, che tutta la super potenza tecnologica non basta a salvarci. Un salmo della Bibbia afferma «l’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono». Parole su cui dovremmo meditare e riflettere.

Il pittore James Thornhill mentre affrescava la cattedrale di San Paolo a Londra, fu preso da tanto entusiasmo per un suo affresco che, retrocedendo per vederlo meglio, non si accorgeva che stava precipitando nel vuoto dell’impalcatura. Un assistente, resosi conto, capì che un grido di richiamo avrebbe solo accelerato il disastro. Non ci pensò due volte: prese un pennello, lo intinse nel colore e lo scaraventò in mezzo all’affresco. Il maestro, esterrefatto, fece un balzo in vanti. La sua opera era compromessa, ma lui era salvo.

Così a volte succede a noi: qualcuno sconvolge i nostri piani per salvarci dal baratro in cui stiamo precipitando! Ma fatto importante, è capire non chi ha scaraventato il pennello (che alla fine ci ha salvato), ma il percorso che stavamo compiendo finendo nel baratro! È la nostra libertà malata di egocentrismo e onnipotenza che ci spinge verso il baratro senza farcene accorgere.

Allora tutta questa sofferenza, tutta questa solitudine e inquietudine può avere un senso, se noi decidiamo di dargli un senso; questa situazione, che mai avremmo pensato di vivere, può farci rientrare in noi stessi e riconsiderare meglio il nostro essere nel mondo. Capiremmo allora che questo Coronavirus è il classico «incidente della storia» che cambierà il destino e il corso dell’umanità. Sta a noi decidere ora che direzione far prendere a questo cambiamento.

 

Nicola Alfano