No a cave in aree protette

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Gran Sasso Annunziata
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Monito del Tar Abruzzo. La vicenda riguarda una cava attiva per molti decenni a partire dagli anni 30 del secolo scorso nel Comune di Montereale (L’Aquila), in parte nel parco nazionale del gran Sasso e Monti della Laga

Niente giochetti con le cave, soprattutto se in aree protette. È questo il monito del Tar Abruzzo, 1ª sezione, in una sentenza di alcuni giorni fa. La vicenda riguarda una cava attiva per molti decenni a partire dagli anni 30 del secolo scorso nel Comune di Montereale (L’Aquila), in parte nel parco nazionale del gran Sasso e Monti della Laga e nell’omonima Zona di protezione speciale tutelata dalle norme UE per la conservazione di habitat naturali ed uccelli selvatici (Natura 2000).

La concessione per la coltivazione della cava è stata prorogata nel 2002 per una variante in corso d’opera che prevedeva anche la relativa sistemazione e ripristino ambientale. Ma nel 2007 la Regione Abruzzo ne ha inibito la coltivazione della cava per irregolarità. L’amministrazione comunale ha intimato il rilascio dei suoli ed ha annullato in autotutela una Dia per opere edili da realizzare nella cava. A luglio 2015 è scaduta la concessione. Ma a febbraio 2016 la società precedentemente concessionaria ha inoltrato istanza per la riapertura e l’ampliamento della cava interessando anche terreni vincolati all’uso civico.

In pochi anni la Regione Abruzzo ha dato il via libera ed è stato stipulato il contratto di concessione. L’associazione Forum Ambientalista, però, ha ravvisato non poche illegittimità negli atti e li ha impugnati dinanzi al Tar evidenziando la violazione della legge quadro sulle aree protette, delle norme nazionali e regionali sulla tutela dei Siti Natura 2000, del Codice dei beni culturali, delle norme regionali in materia di usi civici e del Prg del Comune di Montereale.

La Regione Abruzzo, il Comune interessato e la società proponente sostenevano che l’istanza di riapertura non era per la coltivazione della cava ma per un intervento di risanamento ambientale «che richiede necessariamente un ampliamento del sito di estrazione e la dislocazione di un tracciato viario».

Il Tar smonta questa pretesa perché «da nessuno degli atti del procedimento culminato con l’autorizzazione impugnata emergono argomenti certi che inducano a qualificare il progetto approvato come avente ad oggetto il risanamento del sito di estrazione con esplicita e univoca dimostrazione che l’ulteriore attività di escavazione è l’unica tecnica possibile per pervenire a tale risultato».

Anzi, emerge il contrario per cui il provvedimento impugnato ha autorizzato «l’esercizio di nuova attività estrattiva, in parte su un sito dismesso, quasi interamente compreso nel perimetro del parco nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga e, in ampliamento, su altre aree, parimenti comprese nel parco, e che il progetto di risanamento ad essa allegato non descriva altro che l’attività accessoria, successiva all’estrazione, di rinaturalizzazione del sito imposta dalla legge regionale n. 54/1983 nei procedimenti ordinari di autorizzazione e eventuale concessione di suolo pubblico per l’esercizio di attività estrattiva».

Insomma, con la scusa di rimodellare la cava per il suo recupero paesaggistico e naturalistico in realtà si è autorizzata l’escavazione della quantità di materiale che la concessionaria non aveva fatto in tempo a ricavare per l’intervenuta scadenza della concessione. Un trucchetto che deve far aprire gli occhi agli enti gestori di aree protette che pure hanno attività di cavazione storicamente presenti nei territori e che consentono il solo recupero ambientale delle cave. Un recupero che sarebbe dovuto procedere di pari passo alla coltivazione delle cave ma che in realtà, così come ha evidenziato anche il Tar Abruzzo, non è stato effettuato.

A questo si aggiunga che le fidejussioni depositate dalle aziende concessionarie di cave sono talmente basse da non consentire alcun intervento di ripristino in danno, men che meno da parte degli enti parco che, peraltro, non sono destinatari delle fidejussioni versate, invece, nelle casse regionali. Il tar Abruzzo ha quindi accolto il ricorso di Forum Ambientalista ed ha annullato tutti gli atti di Comune e Regione ed ha anche stabilito che la valutazione di incidenza da parte delle amministrazioni delegate (in questo caso il Comune di Montereale) «deve essere espressa da un ufficio che disponga di competenze analoghe a quelle del Ccr-Via [comitato regionale per la valutazione di impatto ambientale, N.d.R.], altrimenti viene a mancare la garanzia di adeguata ponderazione dello studio di incidenza se ne fosse demandato l’esame a soggetti che non sono in grado di valutarlo».

 

Fabio Modesti