Siccità, la valle del Po attende soluzioni dal 2003

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Intervista a Giacomo Parrinello, storico del Po

Il docente cita l’esempio del Sahel in cui tradizionalmente le popolazioni locali hanno sviluppato forme di policoltura e cioè coltivazione di tipi diversi di prodotto nella stessa parcella, capaci di adattarsi a condizioni climatiche diverse

«Quello che stiamo vivendo nella valle del Po non è un episodio isolato, è parte di una tendenza irreversibile alla modificazione dei sistemi idrici, legata al cambiamento climatico, rispetto alla quale dobbiamo urgentemente adattarci in una maniera stutturale e questo non può che passare da un ripensamento degli usi delle acque». Il monito porta la firma di Giacomo Parrinello, storico dell’ambiente e assistant professor al Centro di storia di Sciences Po, l’istituto di studi politici di Parigi.
Questo ripensamento «implica un confronto sui modelli economici ma anche su chi e come prenderà le decisioni per la riorganizzazione degli usi delle acqua, necessaria per via della crescente scarsità, così da assicurarsi che sia una riorganizzazione giusta e non ingiusta. Che tenga cioè conto nella maniera migliore possibile degli interessi dei più e non dei pochi», sottolinea il docente, intervistato dalla «Dire».

Ma intanto che effetto fa, per uno storico, vedere le immagini del Po talmente a secco da far affiorare i mezzi militari della seconda Guerra mondiale o un ponte medievale?

Questa siccità non potrebbe arrivare per me in un momento migliore, o peggiore risponde il docente perché sto scrivendo, ormai da molti anni, una storia del bacino del Po nella quale mi interesso al modo in cui lo sviluppo economico nella regione padana, che come sappiamo è quella più ricca d’Italia, è dipeso storicamente dall’abbondanza di acqua e il punto di arrivo della mia storia, che abbraccia circa due secoli, è per l’appunto una siccità e cioè quella del 2003: fu un evento di portata epocale perché rappresenta la prima delle grandi siccità contemporanee.

La prima, cioè, delle siccità «che hanno messo e stanno mettendo a durissima prova il settore agricolo, la fornitura di acqua potabile e la produzione energetica. Proprio in queste settimane — racconta il docente — sto scrivendo la conclusione del volume e fa molto strano scrivere del 2003 e contemporaneamente leggere degli eventi del 2022, perché la dinamica è molto, molto simile».
Infatti «siamo di fronte — spiega Parrinello — ad un accumulo di fattori legati al cambiamento climatico, come nel 2003: riduzione della precipitazione di neve nell’inverno, assenza di precipitazioni di pioggia in primavera e ancora di più in estate, temperature altissime che quindi aumentano i bisogni irrigui dell’agricoltura, l’evaporazione dell’acqua e il bisogno di energia».

Eppure, dal 2003 al 2022 va rilevata «una quasi completa assenza di interventi strutturali e per me è davvero vertiginoso — afferma Parrinello — pensare a questi 20 anni passati senza che si sia mosso nulla, pur sapendo che andiamo incontro ad un futuro in cui questi eventi non faranno che ripetersi e in forme sempre più gravi».

Si parla dell’Emilia-Romagna come Food valley, Motor valley e Data valley, però forse non si è parlato abbastanza di Water valley, allora: c’è stata sottovalutazione?

È stata sottovalutata l’idea che esistono dei limiti. Leggendo, come mi è capitato di fare per il mio lavoro, documenti programmatici, rapporti ministeriali e studi economici negli ultimi due secoli l’idea del bisogno di acqua è sempre stata presente: un esempio è la centralità dell’irrigazione nell’agricoltura regionale e il ruolo giocato in questo dall’acqua del Po tramite il grande Canale emiliano-romagnolo.

Il Canale, infatti, «fu costruito a partire dagli anni ’50 ma in realtà — spiega il docente —  fu progettato già nell’800 e poi è rimasto al centro del dibattito anche negli agli anni ’70 e ’80, in cui si parlava del Mercato comune europeo e del ruolo che l’acqua del Po, attraverso il Canale, avrebbe avuto per favorire la specializzazione ortofrutticola nel comparto emiliano».

Quello che però «è sempre mancato e che in parte manca ancora adesso — sottolinea Parrinello — è l’idea che nella valle padana si possa far fronte in maniera strutturale alla penuria d’acqua. Si è sempre operato con l’idea di una risorsa abbondante, si trattava semplicemente di trovare le forme e i modi per poterla distribuire, ma pensando che fosse disponibile ed abbondante. In parte questa non è un’idea falsa, perché nel clima dell’Olocene, cioè degli ultimi 6.000-10.000 anni, nella valle del Po l’acqua è stata effettivamente abbondante. Il problema è che adesso una delle conseguenze maggiori del cambiamento climatico è che la quantità di acqua disponibile nel bacino del Po non è più la stessa di un secolo fa e questo è il vero impensato. È l’elemento su cui ancora non ci si confronta in maniera adeguata», perché significherebbe «ripensare completamente il modello economico e non mi sembra di vedere ancora segnali che vadano in questa direzione». Parlare di emergenza, quindi, non è il modo migliore per affrontare la questione? «Non se per emergenza si considera un episodio singolo e concluso. Se questa è l’idea di emergenza, si sbaglia. Il problema è strutturale — ribadisce lo storico —: Pensare di poter continuare con gli usi delle acque che esistono oggi è impossibile, si va dritti contro un muro».

Ma ci sono altre parti del mondo dalle quali si possono mutuare buone pratiche?

C’è molto da imparare dai Paesi che fanno i conti con la scarsità d’acqua da prima di noi. Penso all’Africa del nord, all’India, ai cosiddetti Paesi del sud del mondo che abbiamo sempre guardato con una certa supponenza e senso di superiorità — sottolinea Parrinello — ma che, invece, hanno sviluppato tecniche, tecnologie, sistemi e colture pensate proprio per fare i conti con la scarsità e tirare fuori il massimo profitto possibile da condizioni ambientali molto dure».

Il docente cita ad esempio il Sahel, «una landa semidesertica a sud del Sahara, in cui tradizionalmente le popolazioni locali hanno sviluppato forme di policoltura e cioè coltivazione di tipi diversi di prodotto nella stessa parcella, capaci di adattarsi a condizioni climatiche diverse. È una forma di assicurazione: nel caso in cui un tipo di pianta dovesse fallire a causa di condizioni avverse, ce n’è sempre un’altra che invece prospera in quelle condizioni assicurando il raccolto. Queste forme di policoltura sono state praticate anche in California dalle popolazioni degli indigeni americani che, prima dell’arrivo dell’agricoltura capitalista, avevano sviluppato forme di policoltura adatte per l’appunto alla siccità — conclude Parrinello —. Non mi permetto di dire che questa è la soluzione per l’agricoltura industriale e l’economia della valle padana, ma se vogliamo cercare delle idee e soluzioni è in quella direzione lì che bisogna cercarle. La mia impressione è che europei ed americani, complessivamente, non siano meglio preparati di noi a far fronte al tempo presente».

 

(Fonte Agenzia Dire)