֎«Il canto selvatico» è il libro più celebre di Sigurd F. Olson, uno dei principali scrittori naturalisti del Ventesimo secolo ed erede ideale di H. D. Thoreau e John Muir, che si è battuto per tutta la vita per la protezione della natura selvaggia ed è stato insignito della John Burroughs Medal, la più alta onorificenza nel campo della letteratura naturalistica e ambientale֎
L’ho udito nella bruma serale della stagione delle migrazioni, quando il buio si popolava degli alti richiami degli uccelli, e nelle rapide, quando l’aria traboccava del loro precipitoso fragore. L’ho colto all’alba quando la nebbia lasciava le baie, e nelle fredde notti d’inverno, con le stelle così vicine che sembrava di poterle toccare.
«Il canto selvatico» è il libro più celebre di Sigurd F. Olson, uno dei principali scrittori naturalisti del Ventesimo secolo ed erede ideale di H. D. Thoreau e John Muir, che si è battuto per tutta la vita per la protezione della natura selvaggia ed è stato insignito della John Burroughs Medal, la più alta onorificenza nel campo della letteratura naturalistica e ambientale.
Il libro è stato pubblicato negli Stati Uniti nel 1956 ed è, in prima edizione novembre 2023, edito da Piano B edizioni con traduzioni di Sara Reggiani. Organizzato seguendo lo scorrere delle stagioni, dalla primavera all’estate, dall’autunno all’inverno, «Il canto selvatico» passa in rassegna i grandi e piccoli eventi che scandiscono il passare del tempo in uno degli ultimi luoghi incontaminati del nostro pianeta, la regione del Quetico-Superior, tra Stati Uniti e Canada, un territorio di confine in gran parte selvaggio e quasi del tutto disabitato che Olson ebbe modo di esplorare a piedi, con le ciaspole, sugli sci o a bordo di una canoa.
Una prosa ispirata, quasi poetica, con cui Olson riesce a raggiungere il lettore scrivendo di cose tanto semplici quanto magnifiche: i boschi e i laghi gelati, il disgelo e il rifiorire della vita, le lunghe camminate, gli estatici viaggi in canoa, i fuochi degli accampamenti e ancora le trote e i falchi, le oche e i lupi, le tempeste di neve e le aurore boreali.
Il canto selvatico appartiene al richiamo della strolaga, all’aurora boreale e ai grandi silenzi dei un territorio che si estende a nordovest del lago Superiore. Riguarda le piccole gioie, l’immutabilità e un senso della prospettiva rintracciabili in un stile di vita legato al passato. Una musica che si può udire anche nel tremolio di un falò o nel picchiettio della pioggia sulla tenda, e talvolta quando, come un’eco del passato, riaffiora in un luogo silenzioso o mentre si è impegnati in un’attività all’aperto.
Un canto che sembra avere a che fare con la fame che tutti abbiamo di un tempo in cui eravamo più vicini ai laghi e ai fiumi, alle montagne, ai prati e alle foreste. Un canto che, lasciato nel nostro passato, ci fa muovere un’inquietudine, un’insofferenza che la vita moderna, con tutte le sue comodità, non riesce a placare. E allora riempiamo notti e giorni di attività così che di tempo di pensare ne resta poco. Ma poi quando la corsa cessa resta un vuoto da colmare. E la ricerca stessa del canto è una ricompensa perché questo ci fa sentire appartenere a un’esistenza in cui la vita era semplice e le soddisfazioni reali. Questa è la ragione della fame, dell’ascolto e della ricerca costante.
E questa ricerca della natura selvaggia porta gli uomini a passare da prosaici conformisti, individui che si vestivano, pensavano e agivano come tutti gli altri ad avventurieri togliendo gli abiti della civiltà e sentendosi a casa nelle terre selvagge, necessità di ripetere un progetto di esistenza che per secoli è stata pratica comune. Gli uomini riscoprendo le terre selvagge capiscono che le troppe comodità della vita civilizzata hanno un prezzo, costano apatia e inerzia e la frustrazione che si accompagna alla mancanza di concretezza.
E Olson dà un suggerimento a medio termine, la durata della nostra vita…
Il trascorrere un breve periodo ogni anno in una parte selvaggia del paese che non è stata ancora del tutto coinvolta in qualche schema di sfruttamento o sviluppo e questo per tornare alle proprie realtà rafforzati e rinvigoriti dalla luce dei falò, dai colori delle albe e dei tramonti, dal luccichio delle notti trascorse sotto le stelle lontani dalle strade e dall’acciaio a vivere lunghe giornate senza nient’altro ad ingombrare la mente se non semplici problemi della vita all’aria aperta.
Era il momento prima dell’alba, la quiete che precede il canto degli uccelli. Il lago respirava dolcemente come addormentato; nel suo alzarsi e abbassarsi vedevo una grande spugna che assorbiva tutti i suoni della terra. Regnava la pace: non si udiva vento frusciare le foglie, né sciabordio d’acqua, nessun richiamo di animali e uccelli. Prestavo comunque ascolto, teso con tutte le mie facoltà verso qualcosa, che cosa non sapevo, pronto a cogliere i significati sul punto di emergere al levarsi del velo dell’oscurità. Lì da solo mi sentivo vivo, più consapevole e ricettivo che mai. Un grido o un movimento avrebbero spezzato l’incantesimo. Era l’ora del silenzio, l’ora di accordarsi ai ritmi antichi e senza tempo, al respiro del lago, alla lenta crescita degli esseri viventi. Qui si poteva percepire il cosmo e comprendere il vero significato della parola armonia.
Elsa Sciancalepore