La fusione fredda

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Con il termine di Trasmutazione Lenr si definiscono infatti le trasmutazioni di alcune specie atomiche in altre quale risultato di reazioni nucleari a bassa energia (Low Energy Nuclear Reactions, Lenr).

La più nota delle Lenr è la cosiddetta «Fusione Nucleare Fredda».
Il termine «fusione fredda» divenne infatti molto popolare proprio nel 1989 grazie agli annunci fatti alla stampa ed all’opinione pubblica mondiale da Martin Fleischmann e Stanley Pons dell’Università di Salt Lake City nello Utah. I loro esperimenti parvero dimostrare come l’atomo offrisse anche dinamiche energetiche a «bassa intensità» in grado di continuare a minor rischio e minor costo la via nucleare alla produzione di energia a basso costo.
La «Fusione Fredda», che nel 1989 pareva una soluzione di imminente praticabilità entrò invece in una fase contraddittoria: diversi laboratori ripeterono gli stessi esperimenti svolti dall’università dello Utah, ma senza ottenere conferme univoche del fenomeno.
La Fusione Fredda venne sperimentalmente realizzata in una cella la cui configurazione iniziale studiata da Fleischmann e Pons utilizzava un vaso di Dewar1 riempito di acqua pesante per svolgere l’elettrolisi, in modo che fosse minima la dispersione termica2. La cella era poi immersa in un bagno termostatato a temperatura costante in modo da eliminare gli effetti di sorgenti di calore esterne. Venne scelta una cella aperta, in modo da eliminare la possibilità di formazione di sacche di deuterio e ossigeno risultanti dalle reazioni di elettrolisi riducendo la pericolosità potenzialmente esplosiva del processo. Questa configurazione, a causa dell’evaporazione del liquido, rese necessario il rabbocco con nuova acqua pesante dando quindi atto ad una pratica invasiva e di fatto modificativa del processo nel suo corso. Infatti, Fleishmann e Pons optarono per una cella di forma allungata e ristretta al fine di favorire la miscela delle bolle di gas prodotte dalla elettrolisi con l’acqua pesante, portando i componenti fluidi ad una temperatura uniforme.
Fu applicata alla cella una corrente elettrica costante per un periodo di diverse settimane e per la maggior parte del tempo la potenza elettrica immessa nella cella rimase praticamente uguale a quella dispersa dalla cella stessa, evidenziando un funzionamento della cella secondo le consuete leggi dell’elettrochimica. In queste condizioni la temperatura della cella era di circa 30 °C. In certi momenti, però, e solo per alcuni esperimenti, la temperatura aumentava improvvisamente, sino a circa 50 °C, senza che fosse variata la potenza elettrica in ingresso; questo fenomeno poteva durare due o più giorni.
In questi particolari momenti la potenza generata poteva essere superiore a 20 volte la potenza elettrica applicata in ingresso alla cella. In altri casi questi repentini innalzamenti di temperatura non venivano riscontrati per molto tempo e quindi la cella veniva spenta. La temperatura della cella era misurata con un termistore, mentre un altro termistore era posto direttamente sul catodo, in modo da poterne misurare la temperatura durante gli eventi di surriscaldamento.
L’efficacia di quel metodo di rilevamento è stata spesso elemento di contestazione. L’esperimento, nel suo insieme, è stato oggetto di molti rilievi critici mossi in particolare da Wilson, e posto in apparente crisi da Shkedi, Jones ed altri sulla base di esperimenti condotti sempre con celle di tipo aperto.

 

1 Un vaso di vetro a doppia parete al cui interno era stato fatto il vuoto
2 < 5% durante la durata di un tipico esperimento

La svolta giapponese

Gli incidenti

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6-Bordino-incidenti1

 

L’incidente di Three Miles Island fu il caso premonitore ed in qualche modo anticipatore di una serie di episodi che pongono una serissima ipoteca sulla possibile proliferazione all’interno di uno standard internazionale condiviso.
Sono le 4 di mattina del 28 marzo 1979 a Three Miles Island (Pennsylvania). E qualcosa nel reattore dell’unità 2 della centrale nucleare non funziona. Quel qualcosa darà inizio all’incidente nucleare più grande nella storia degli Stati Uniti, tristemente ricordato insieme a quello di Chernobyl, e in tempi più recenti a quello di Fukushima. A causarlo fu un malfunzionamento dell’impianto, insieme all’errore umano degli operatori impegnati alla centrale. Gli eventi che scatenarono il disastro, in breve, furono questi: una valvola che avrebbe dovuto chiudersi restò invece aperta; il circuito refrigerante controllato dalla stessa valvola cominciò a svuotarsi, e il core del reattore a surriscaldarsi. Gli operatori, ignari del malfunzionamento della valvola, che il sistema segnalava come chiusa, peggiorarono la situazione riducendo il flusso di refrigerante dei sistemi di emergenza. La conseguenza fu un ulteriore surriscaldamento e la parziale fusione del nucleo. Fortunatamente gran parte dei danni furono confinati, i sistemi protettivi del reattore 2 rimasero intatti, riuscendo a contenere buona parte del materiale radioattivo.
Quell’episodio scatenò la «sindrome cinese»: gli Usa per oltre trent’anni non avrebbero approvato la realizzazione di nuove centrali nucleari.
In particolare, immediatamente dopo l’incidente tragico di Chernobyl, il più grave incidente della storia verificatosi in una centrale nucleare, venne annunciata la possibilità di una nuova via di sfruttamento dell’energia atomica ovvero attraverso reazioni a basso impatto energetico.

 

La fusione fredda

La geopolitica atomica

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La geopolitica atomica si è, negli anni successivi il 1945, sovrapposta a quella disegnata dall’ubicazione e sfruttamento dei combustibili fossili come il petrolio. Accanto al controllo cruciale dei giacimenti di petrolio e di gas si è aggiunta l’esigenza strategica del controllo sulla disponibilità naturale di uranio.

L’uranio si trova in natura come miscela di due isotopi: 238U e 235U in rapporto di 150 a 1, dunque l’uranio-235 è solo lo 0,7% del totale dell’uranio ed è il solo ad essere fissile.
Il processo di arricchimento consiste nell’aumentare la percentuale in massa di uranio 235U a scapito del 238U in modo da riuscire ad avere un numero di nuclei fissili sufficiente per far funzionare il reattore, in tal caso l’arricchimento varia dal 3% al 5%, o per costruire una bomba atomica, in tal caso l’arricchimento arriva fino al 90%. In una reazione, la presenza di impurità e di atomi di 238U e, nei reattori, di apposite barre di controllo che hanno lo scopo di controllare la reazione a catena, fanno sì che solo parte dei neutroni emessi venga assorbita dai nuclei di materiale fissile.

La dinamica storica intervenuta dopo il 18 agosto 1991, ovvero la tentata deposizione armata di Gorbaciov ha modificato il ruolo strategico del deterrente atomico portando l’armamento atomico ad essere, per certi versi, un fattore di rischio in uno scacchiere non più bipolare ma frammentato ed inadeguato a gestire armi definitive.
La grande quantità di energia liberata, la difficoltà di controllo della reazione ed il rischio di una «contaminazione finale» in caso di incidente o sabotaggio portano alla ridefinizione della sua sfruttabilità in ambito civile e la sua gestibilità in seno a strutture private.

Gli incidenti

Il prezzo della pace

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Il prezzo della pace è stato altissimo e la contrapposizione strategica su base nucleare ha letteralmente «deformato le coscienze» di intere generazioni, plasmatesi nello scontro della deterrenza e quindi nella paura di un imminente olocausto nucleare.

La nascita della fisica dell’atomo fu dall’inizio caratterizzata dalla logica di una progressiva militarizzazione e sottrazione al patrimonio scientifico condiviso.
La prima fissione nucleare artificiale (cioè provocata dall’uomo) avvenne nel 1932 ad opera Ernest Walton e John Cockcroft, che accelerando protoni contro un atomo di litio-7 riuscirono a dividere il suo nucleo in due particelle alfa ovvero il nucleo di litio -7 venne diviso in due nuclei di elio).
Questa dinamica venne definita «splitting the atom» e condusse la ricerca alla prima fissione nucleare artificiale di un atomo di Uranio Il 22 ottobre 1934.
La prima fissione di un atomo di Uranio fu realizzata da un gruppo di fisici italiani guidati da Enrico Fermi mentre bombardavano dell’uranio con neutroni.
Il gruppo di fisici italiani, diventati poi noti come i «ragazzi di via Panisperna» non si accorse però di ciò che era avvenuto ma ritenne invece di aver prodotto dei nuovi elementi transuranici: fu invece Ida Noddack ad ipotizzare per prima la fissione nel 1934 a partire da presupposti teorici chimici, mentre i fondamenti fisico-teorici si devono a Otto Frisch e a sua zia Lise Meitner.
Alla fine del dicembre 1938, esattamente nella notte tra il 17 e il 18, due chimici nucleari tedeschi, Otto Hahn e il suo giovane assistente Fritz Strassmann, furono i primi a dimostrare sperimentalmente che un nucleo di uranio-235, qualora assorba un neutrone, può dividersi in due o più frammenti dando luogo così alla fissione del nucleo. A questo punto per i chimici e fisici iniziò a prendere forma l’idea che si potesse utilizzare questo processo, costruendo dei reattori che contenessero la reazione, per produrre energia.
Da questa presa di coscienza della potenzialità energetica del processo di fissione, la possibilità di produrre energia elettrica venne posta in subordine alla finalità bellica ovvero alla possibilità di scatenare un’esplosione devastante con ordigni nucleari: la prima bomba atomica esplose il 16 luglio 1945 nel poligono di Alamogordo nel Nuovo Messico.

 

2-Bordino-MajoranaUn caso emblematico di questo vero e proprio «sequestro» operato dalla Ragion di Stato è rappresentato dal «caso Majorana» 1.

L’energia nucleare da fissione rappresenta ancora oggi un motivo di conflitto per la salvezza ed il presidio delle posizioni di vantaggio geopolitico: il rovesciamento di Saddam Houssein in Irak, lo scontro tra gli interessi occidentali in Iran e le sanzioni contro la minaccia di proliferazione nucleare in medio oriente, il blocco di ogni sviluppo industriale finalizzato alla produzione di energia da scissione è motivato soprattutto dall’inaccettabile prospettiva di una nuova politica energetica che si genererebbe con la realizzazione della bomba atomica araba.
In fisica nucleare la fissione nucleare si può definire come una reazione nucleare in cui il nucleo di un elemento chimico pesante (ad esempio uranio-235 o plutonio-239) decade in frammenti di minori dimensioni, cioè in nuclei di elementi a numero atomico inferiore, con emissione di una grande quantità di energia e radioattività.

 

3-Bordino-fissioneLa fissione è un fenomeno che può avvenire spontaneamente in natura dando luogo ad una fissione spontanea oppure può essere indotta artificialmente innescata da un bombardamento di neutroni sul nucleo di un elemento «pesante» come Uranio.
L’energia complessivamente liberata dalla fissione di 1 nucleo di 235U è di 211 MeV, una quantità elevatissima data dalla formula descritta dalla formula di relazione:

E=MU235+nc2 – MP c2

Il fenomeno parte della massa/energia a riposo del sistema iniziale che si trasforma per effetto della conservazione della massa/energia convertita in energia di altro tipo: la maggior parte di questa energia (circa 167 MeV) si trasforma in energia cinetica impressa ai frammenti pesanti prodotti della reazione (nuclei e neutroni).
Circa 11 MeV sono trasformati invece in energia cinetica dei neutrini emessi al momento della fissione, il resto dell’energia prodotta si libera in forma elettromagnetica ovvero di raggi gamma. L’energia effettivamente sfruttabile come energia termica è di circa 200 MeV per ogni fissione.
La potenza energetica della fissione è enorme, milioni di volte maggiore di quella ottenuta dalle reazioni generate dalla combustione. Confrontata con un tradizionale processo di combustione la soverchiante proporzione a favore della fissione nucleare risulta evidente: l’ossidazione di un atomo di carbonio fornisce un’energia di circa 4 eV, un’energia che è meno di cinquanta milionesimi di quella prodotta nella reazione nucleare di fissione.

I nuovi neutroni prodotti possono venire assorbiti dai nuclei degli atomi di uranio-235 vicini: se ciò avviene possono produrre una nuova fissione del nucleo. Se il numero di neutroni che danno luogo a nuove fissioni è maggiore di 1 si ha una reazione a catena in cui il numero di fissioni aumenta esponenzialmente; se tale numero è uguale a 1 si ha una reazione stabile ed in tal caso si parla di massa critica.
La massa critica è dunque quella concentrazione e disposizione di atomi con nuclei fissili per cui la reazione a catena si autoalimenta in maniera stabile ed il numero complessivo di neutroni presente nel sistema non varia. Se si varia tale disposizione allora il numero di neutroni assorbiti può scendere, ed in tal caso la reazione si spegne, oppure aumentare, e si ha che la reazione cresce esponenzialmente ovvero non è più controllata.
Per cui scrivendo:

      neutroni presenti in una generazione
K = ________________________________
      neutroni della generazione precedente

se la disposizione è tale che si abbia K > 1 allora il numero di neutroni aumenta, se K < 1 diminuisce, mentre se K = 1 il numero di neutroni resta stabile e si parla di massa critica.
La quantità K viene definita in fisica del reattore come il fattore di moltiplicazione efficace ed è fondamentale nel controllo del reattore stesso. Se per i reattori nucleari il valore di K non deve superare mai il valore di 1 se non di una quantità bassissima (come quando si aumenta la potenza del reattore e allora si può arrivare a K = 1,005) per le armi nucleari il valore di K deve essere il più alto possibile e in tal caso si può arrivare a K=1,2.

 

1 Ettore Majorana (Catania, 5 agosto 1906 – Italia, 27 marzo 1938 (morte presunta) o in località ignota dopo il 1959[1]) è stato un fisico italiano. Operò principalmente come teorico della fisica, le sue opere più importanti hanno riguardato la fisica nucleare e la meccanica quantistica relativistica, con particolari applicazioni nella teoria dei neutrini. La sua improvvisa e misteriosa scomparsa suscita, dalla primavera del 1938, continue speculazioni riguardo al possibile suicidio o allontanamento volontario, e le sue reali motivazioni, a causa anche della sua personalità e fama di geniale fisico teorico.

La geopolitica atomica

Le tecniche, le tecnologie e le riflessioni che non possono mancare

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Il nucleare, fin dagli anni 50 del secolo scorso, come applicazione pacifica nel campo delle attività economiche, era considerato un risultato positivo che la scienza offriva ai bisogni dell’uomo e, solo come tale, è stato propagandato. Molti dei sostenitori, man mano che, nel tempo, andavano emergendo valutazioni critiche (che intaccavano le loro certezze sulla sicurezza degli impianti) invece di verificare la correttezza delle valutazioni diverse dalle proprie, reagivano come se fossero stati offesi nel profondo del proprio essere o come se fosse in atto un attacco alla scienza da parte di un popolo barbaro e ignorante. Il nucleare aveva dato loro prestigio e, in quei momenti, alcuni di loro lo fecero valere come potere, alleandosi (quasi dando spazio ad una specie di risentimento scientista) con chi aveva interessi convergenti (con la loro missione di dare un futuro alle tecnologie del nucleare) in ambito partitico ed economico.

In questo gioco c’erano grandi opere per grandi imprese, che nel nucleare vedevano una buona occasione per fare grandi affari, ma c’era, soprattutto, un particolare interesse, da parte dei paesi con armamenti nucleari, a sviluppare il cosiddetto nucleare civile per mettere a profitto le filiere e chiudere il ciclo del nucleare militare. Giornali, televisione, manifestazioni per l’energia del domani, programmi partitici di sviluppo dei consumi, tutti tuonavano sull’energia da trovare e su quella del nucleare che era stata già trovata. Non mancarono le minacciose previsioni di un futuro a lume di candela e di un crollo dell’economia se fosse venuto a mancare un futuro fatto di energia nucleare.

[vedi anche: Energia, ma è vera crisi?  Qualità della vita, non solo energia elettrica, in L’Energia che verrà, «Villaggio Globale» anno XI, n. 43, settembre 2008].

In realtà, a guardar bene, sembra essere avvenuto, poi, proprio il contrario con la produzione di un surplus di energia in corrispondenza del quale sembra quasi sia stato attuato un programma di sprechi: dalla diffusione facilitata del condizionamento degli ambienti pubblici e privati, dalla diffusione della catena del freddo (che favoriva anche nuovi consumi) fino all’amplificazione dell’illuminazione pubblica notturna estesa anche a una rilevante quantità di strade extraurbane di tutto il nostro paese.
È vero, poi, che c’è stato anche il crollo dell’economia, ma non certo per effetto del mancato sviluppo della produzione di energia e tantomeno di quella da fonte nucleare. Le crisi sono state invece procurate da quella finanza predatoria che avrebbe potuto fare ancora di peggio se avesse avuto modo di dare sostegno (come ancora oggi immagina di poter dare) al nucleare creando situazioni per un’ulteriore esposizione finanziaria del nostro paese già abbondantemente disastrato da una politica economica impostata sui consumi.
Se riflettiamo questa impostazione non solo ha prodotto danni economici e sottomissioni al potere globale della finanza ma, essendo del tutto lontana dalla nostra cultura, ha costretto ad un vero tradimento della nostra identità. Seguendo il senso comune condiviso, dai nostri governi, è stato attuato (ed è ancora oggi perseguito ciecamente) uno sviluppo dell’economia del mercato dei consumi, compresi quelli finanziari, attraverso trattati segreti fra stati e centri privati di potere mondiale che hanno «semplificato» le relazioni commerciali globali a danno dei consumatori e, ancor più, di chi non si identifica con essi.
Anche gli impatti di queste crisi sul sistema paese, con la chiusura di molte industrie con la conseguente disoccupazione, con i relativi disastri ambientali lasciati in eredità ai territori dall’economia del «fare e disfare le cose», con i costosi risanamenti (a volte anche opere esemplari, ma in sostanza del tutto insignificanti segni di speranza, rispetto al complesso dei problemi che doveva essere, invece, affrontato), non sono stati certo effetto della mancanza di energia elettrica e tanto meno di quella di origine nucleare.
Non è difficile immaginare a quale debito pubblico saremmo arrivati se, già con le vecchie centrali nucleari da smantellare ci fossimo trovati a sostenere anche i costi di quelle nuove, della loro gestione e del loro pesante e ancora non risolto problema delle successive dismissioni.
In altri paesi europei lo sviluppo del nucleare c’è stato (in realtà favorito da territori con minore densità di popolazione e dall’alibi di una struttura geofisica, dei territori nuclearizzati, che offriva minori occasioni di pericolo rispetto ad altri luoghi e in particolare rispetto a quelli disponibili in Italia). Ma i problemi, pure quelli messi sotto silenzio, sono poi emersi anche a livello europeo. La Germania ha, così, deciso la sua uscita dal nucleare. In Francia (sebbene siano stati dismessi 12 reattori) i problemi sembrano, invece, rimanere sospesi perché non è cosa semplice, per lei, uscire dal nucleare.
I dati relativi al 2013 fanno riferimento a 19 impianti nucleari funzionanti in Francia (con un totale di 58 reattori attivi), con una produzione di energia elettrica fortemente dipendente da essi e con interessi economici internazionali spinti dal nucleare (la Francia è fra i pochi paesi detentori delle filiere per l’arricchimento dell’Uranio, dei brevetti per il nucleare e delle disponibilità del minerale (presente nelle sue ex colonie) dal quale estrarre l’Uranio: una nazione, quindi, fortemente interessata a mantenere attivo questo business). La Francia ha, tuttora un’elevata produzione di energia elettrica da impianti nucleari (circa 75%) e per l’impossibilità negli impianti del nucleare, di modulare, la produzione del vapore, si è trovata spesso a dover svendere l’energia elettrica che non aveva modo di consumare (in questi casi dagli errori di valutazione, commessi in Francia, l’Italia ne ha tratto grandi vantaggi, con l’acquisto di energia a basso prezzo. Paradossalmente possiamo dire che il nucleare, in questo caso, ha fatto bene a chi, come noi, non lo aveva e non aveva neanche i suoi non sempre ben identificati problemi).

[vedi anche: Linguaggi nucleari,  L’informazione tecnica e non solo, in Parole nuove per l’ambiente, «Villaggio Globale» anno XIV, n. 54, giugno 2011].

Nonostante un forte impegno a promuovere consumi di energia elettrica per usi non obbligati, potremmo dire che (lasciando da parte la retorica costruita sulla pur necessaria diversificazione delle fonti di energia), il nucleare possibile in Italia avrebbe offerto un modesto contributo alle necessità energetiche del paese. La gran parte dell’energia è richiesta, infatti, per alimentare motori termici o per produzione di calore (circa 70%). Solo il rimanente (circa 30%) sono consumi elettrici. Spesso questi stessi consumi non sono obbligati perché ritrasformano l’energia elettrica in calore, con grandi perdite di energia termica disponibile nella materia prima usata. Infatti la produzione di energia elettrica comporta un rendimento massimo che, nel migliore dei casi, arriva al 40%: detto in altre parole, quando trasformiamo l’energia elettrica in energia termica abbiamo già buttato via il 60% dell’energia termica, disponibile nella risorsa iniziale (petrolio, gas, materiale fissile) per produrre energia elettrica.
A chiarire che la questione del nucleare non è un punto nodale della questione energetica italiana e che è, invece, solo un’opportunità di grande business nazionale e di articolati (spesso non noti) accordi economico-politici internazionali, è sufficiente prendere atto che la sua vantata convenienza economica non solo non esiste [vedi anche: Linguaggi nucleari, Il costo dell’energia e il costo dei rischi, in Parole nuove per l’ambiente, «Villaggio Globale» anno XIV, n. 54, giugno 2011], ma è fortemente dipendente da altre variabili: sia per finanziamento delle opere e per l’acquisto del know-how; sia di mercato (ricatti con blocco o dirottamento altrove, di scambi commerciali dal paese acquirente, se non dovesse andare in porto la fornitura degli impianti); sia quelli connessi alle convenienze politiche internazionale (per esempio, se la scelta degli impianti debba favorire la Francia o gli Usa); sia di sostegno finanziario a fondo perduto da parte della finanza pubblica italiana per forniture strategiche (Uranio arricchito) e per i costosi servizi efficienti di sicurezza; sia dai paesi amici e amici degli amici (ma fino a quando e con quali contropartite?) che dovrebbero fornire l’Uranio e arricchirlo di Uranio235 per renderlo pronto a far funzionare gli impianti nucleari; sia per la scelta delle imprese accreditate per la costruzione delle strutture e per il montaggio delle macchine e dei sistemi di controllo (un business che non ha capitolati di appalto da rispettare e con costi che fanno lievitare fino a 15 volte il costo normale delle stesse opere se non fossero destinate ad un impianto nucleare); sia per la necessaria militarizzazione dei siti; sia per l’articolato e continuo controllo delle immissioni, obbligate ed eventuali, di materiale radioattivo nell’ambiente; sia per i complicati e costosissimi, troppo spesso anche irrisolvibili, piani di evacuazione e di nuovo insediamento (di tutte le comunità coinvolte) in caso di incidenti; sia per i lunghi tempi dei costosissimi recuperi ambientali e sociali dei territori devastati da un incidente nucleare o «solo» continuamente inquinato da insidiosi e occultati rilasci di materiali radioattivi; sia per il problema delle scorie che in modo assoluto è irrisolvibile (coperto solo da chiacchiere su costose tecniche che lasciano le scorie così come sono) perché l’unico intervento possibile è solo quello del confinamento (una soluzione che mette a disposizione di terroristi attrezzati, della criminalità e di paesi non amici, un potenziale distruttivo immenso per operare a danno della popolazione civile del paese nemico, cioè, proprio contro di noi cittadini vittime e non destinatari di un presunto bene tecnologico che arma, però, il male ideologico); sia per non ben definiti costi della fase di decommissioning degli impianti.
Se ancora vi fossero dubbi, converrebbe riflettere sull’indisponibilità da parte delle assicurazioni di attivare contratti in questo settore e, ancora, che nessun privato è disponibile ad assumere «in toto» la responsabilità civile e economica di questo tipo di attività. È sintomatico rilevare, a questo proposito, che a fronte di una disponibilità degli operatori del settore alla realizzazione delle opere di un impianto nucleare (un ottimo business) e a valutare come adeguati, alle condizioni di sicurezza, i risultati delle relative analisi sulla fattibilità e sugli impatti ambientali e sociali, non vi sia poi una pari disponibilità ad assumere, magari loro stessi, una diretta responsabilità nella gestione in solido degli impianti (forse sanno, ma tacciono, che senza gli elevatissimi aiuti di stato, quelli pagati dai contribuenti, anche la sola gestione commerciale di un impianto nucleare non è remunerativa e anzi è solo un inaccettabile rischio).

[vedi anche: Energia, ma è vera crisi?  Le ragioni del «no» a questo nucleare, La convenienza del nucleare, in L’Energia che verrà, «Villaggio Globale» anno XI, n. 43, settembre 2008].

Siamo cioè in presenza di una minacciosa prospettiva sia di rischio estremo, sia di un’attività di produzione di energia elettrica che nessuna impresa privata è disponibile a svolgere in proprio, ma eventualmente solo ad amministrare, se pagata con finanziamenti pubblici assicurati, a prescindere dai buon esiti produttivi e di sicurezza degli impianti nucleari.
La «riservatezza» che caratterizza l’informazione su molte tecnologie (in questo caso quelle del nucleare) dovrebbe ancor più allarmarci perché, al di là di ogni eventuale danno materiale e sociale, vi è un’inaccettabile sottrazione di responsabilità. È un pericolo inquietante per le democrazie che sono, così, private di informazioni e di conoscenze che possono, invece, essere addirittura arruolate contro di loro e, a loro insaputa, arrivare anche a sovvertire le Istituzioni e a preordinare l’evolversi delle condizioni di libertà e del senso che queste hanno per ciascun essere umano.
Cambiare i significati e le conseguenze di un’organizzazione sociale ed economica, che sa rispondere dinamicamente ai bisogni umani, per riordinarla, poi, in funzione dell’esercizio di un potere assoluto, non è l’obiettivo delle sole attività terroristiche armate, ma anche di attività di dominio di popoli che vengono sottomessi con sofisticati strumenti di coinvolgimento e disorientamento che agiscono sui punti deboli del carattere e della personalità umana (per esempio, forme legalizzate di corruzione, privilegi e conforto derivante dal consumo compulsivo). Una situazione che viene alla fine accettata come un dato di fatto immodificabile (pur se percepito come un alterato e alienato stato della realtà), ma anche una prospettiva che purtroppo fa presa su quegli sprovveduti entusiasmi che trovano, per esempio, il significato del vivere umano nel mantenersi in linea con sviluppo dei consumi tecnologici.
In mancanza di consapevolezze, il poter diventare portatori di un «nuovo», fatto coincidere fatalmente con il meglio del bene che si presume possa essere offerto all’uomo da uno sviluppo delle conoscenze, ci rende disponibili ad accettare acriticamente tutto ciò che la tecnologia usa, invece, per indurci ad una pacifica ma devitalizzante sottomissione.
Non è difficile riconoscere la carica ideologica di una conoscenza asservita al «fare le cose e al come farle» che finisce addirittura con l’essere rivendicata come attività scientifica. Ma la ricerca scientifica non punta ad un prodotto finito (come avviene nello sviluppo di una tecnologia), ma alla qualità delle conoscenze che trovano un loro inserimento nelle consapevolezze sul senso del divenire vitale degli equilibri naturali.
Volendo essere ancora più puntuali e non solo nell’ambito del nucleare per la produzione di energia elettrica, non si dovrebbe parlare di conoscenze (se non come presupposti alla base della pratica tecnologica applicata alla produzione di beni e servizi). Si dovrebbe, invece, dichiarare di operare sulla base di esperienze finalizzate ad applicazioni tecnologiche. In questa prospettiva le cose potrebbero apparire anche un po’ più chiare di come vengono presentate. L’esperienza dà un peso alle cose che avvengono e su di esse orienta le possibili interpretazioni, scelte e obiettivi, formulando previsioni sui fenomeni e sulle loro applicazioni. Ma la sola esperienza personale può facilmente portare a costruire proprie e incrollabili convinzioni anche concettuali (una specie di deriva, dagli scenari complessi della realtà, generata da posizioni riduzioniste di tipo scientiste).
Un’esperienza personale che è troppo limitata, per affrontare la complessità del divenire del mondo, se non dialoga con esperienze in altri campi (anche quelli con i quali è evidente una formale e completa diversità di contenuti e di metodi) e se non entra nel merito delle analogie e delle diversità che caratterizzano la dinamica, le finalità e il senso che alimentano i fenomeni naturali. Quando si fa acriticamente riferimento a esperienze sviluppate in ambito scientifico, c’è sempre il rischio di costruire convinzioni perché, ricercando condizioni certe di ripetibilità dei fenomeni, il loro contesto risulta ridotto rispetto alla loro complessità e non è raro che questa ricostruzione semplificata della realtà, con i riscontri affidabili che propone, affascini tanto da far superare ogni nostro dubbio e proporsi, così, non solo come corretta verità scientifica, ma addirittura come regola assoluta legittimata da applicazioni pratiche, pur se confinata a fare cose le cose banali di una visione riduzionista della complessità dei fenomeni naturali.
In ambito scientifico, anche se la comprensione di un fenomeno può apparire immediata (perché siamo capaci di intuire alcuni fattori fondamentali che possono averlo generato), in realtà si presentano problemi sempre complessi da affrontare. Sono, questi, i problemi che riguardano, per esempio, il senso vitale delle cose che può suggerire un nostro modo di riflettere e di operare in sintonia con esso, di fare scelte autonome e di non essere condotti, invece, sulle strade preimpostate da un senso comune strumentale.
È vero che molti fenomeni possono fare poi riferimento ad un proprio percorso deterministico (e quindi a conseguenti, accertate e controllabili misure di sicurezza) ma questo sarà legittimo per proprie particolari condizioni (per esempio quelle nelle quali sono costanti alcuni fattori, come avviene nelle sperimentazioni controllate di laboratorio, ma che poi possono non essere ripetibili nelle condizioni complesse della realtà).
Il determinismo, che è riconoscibile in alcuni processi naturali, vale solo se teorie, modelli e leggi che li accompagnano, superano (e solo fin quando continueranno a superare) ogni possibile confutazione teorica e sperimentale: nel caso del nucleare, però, manca proprio l’oggetto della confutazione, non è possibile accertare l’esistenza di una teoria e di una verifica sperimentale perché non sono noti i meccanismi, da sottoporre a confutazione, dei fenomeni in atto nella dinamica interna delle trasmutazioni atomiche.

I dati di realtà, i confronti e le riflessioni che non possono mancare

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Dal potere iniziale di piccoli e grandi gruppi con forti interessi, oggi siamo passati agli interessi globali di un mondo economico-finanziario unificato, assoluto e sempre più incapace di creare relazioni, con le comunità umane, che vadano oltre le analisi di mercato. Una realtà invasiva che ha indotto una mutazione culturale e che ha deformato il concetto di bisogno. Oggi i bisogni sono inventati e imposti da vetrine, pubblicità, o sono l’effetto di un plagio da parte di personaggi, testimoni o simboli di qualche moda, o sono l’effetto di un adeguamento passivo a comportamenti e modi di pensare suggeriti dagli opinion maker. Tutta una realtà che ha costruito sottomissioni, tiranniche e senza alternative, ai consumi.

Quasi senza accorgercene e senza valutare l’impatto delle trasformazioni, ancora in atto, siamo ormai tutti passati, nel giro di mezzo secolo, da un impegno a risparmiare e non sprecare beni e servizi (per garantire condizioni di sopravvivenza anche per il futuro), a un comportamento da consumatore incontenibile e insieme incolpevole. Sono stati imposti riferimenti che fanno leva sulla nostra debolezza (qui interpretata come ostacolo da superare per procurarsi il massimo successo individuale) per adattarci alle offerte di consumo e per inibire quella qualità umana che portano a riflettere prima di decidere.
Oggi siamo tutti consegnati ad un potere che da esigere risorse e tributi per sostenere il suo dominio, nel tempo è passato a imporre anche totali dipendenze culturali, politiche, sociali, tanto che non c’è più nulla, ormai, che si muova in modo autonomo. Il nostro contesto umano dispone, ormai, solo di «non spazi», luoghi di emarginazione del pensare, di scomparsa finale della consapevolezza dell’esistere, del nulla che ci siamo abituati a proporre criticamente alla nostra attenzione fisica e mentale. Un nulla che non ha un senso delle cose da proporre al nostro vissuto e ai nostri bisogni reali e che induce, invece, ad adeguarsi agli effetti di quelle luci selettive e di quelle mode che mettono in mostra i mondi parziali del virtuale (che impongono spersonalizzanti meccanismi di coinvolgimento, per godere di una gratificante permanenza in un mondo di effetti speciali e di magiche simulazioni di una non realtà).
In questa prospettiva il nucleare viene proposto come icona di un modello di civiltà nella quale la vita non è un sistema di equilibri vitali, di creazione di sinergie, di rigenerazione e gestione razionale di risorse rinnovabili, ma è espressione di presunte virtuose capacità dell’uomo di piegare, alla propria volontà, tutte le risorse, quasi a dimostrazione di una sua potenza, senza confini di tempo e di luoghi. Ma la nostra Terra è ben confinata e autonoma e, dunque, non potrà collaborare (tantomeno essere sottomessa) ai folli progetti di consumo terminale di ogni cosa, compresi noi stessi e non solo le future generazioni.
Sono moltissimi quelli che hanno letto e ascoltato tutto ciò che era possibile sul nucleare, alcuni lo hanno provato anche sulla propria pelle. Abbiamo messo a confronto tutto l’immaginabile e disponiamo, anche, nei limiti dei dati accessibili, di significativi segni di contraddizione sui costi e benefici della trasformazione dell’Uranio (da minerale naturale a fonte di calore finale) per la produzione di vapore a pressione utilizzato per la produzione di elettricità. Non sembra però che questa massa di informazioni e di valutazioni, pur se ben comprensibile e non strettamente tecnica, abbia prodotto, nella società, diffuse consapevolezze operative e proposte alternative.

[vedi anche: Energia, ma è vera crisi? Informazione e disinformazione, in L’energia che verrà, «Villaggio Globale» anno XI, n. 43, settembre 2008].

Non si può non prendere atto, allora, che le nostre attese più diffuse sono subdolamente condizionate da un contesto sociale e politico-culturale sottomesso a una acritica visione della realtà e orientato da forti riferimenti a un’etica individuale che porta a puntare l’attenzione solo sui problemi dei propri immediati interessi e intorni di vita. Le attese personali o di gruppi con interessi comuni, si sostanzierebbero, così, in un diffuso impegno a badare alle proprie cose e lasciare che gli altri facciano altrettanto evitando così interferenze e conflitti.
Un’impostazione del vivere funzionale e incentivata dall’interesse di pochi e del potere da loro esercitato, a far girare l’attuale economia dei consumi e a realizzare, con il maggior profitto, tutto ciò che trova mercato e che attraverso esso trova legittimità addirittura come espressione di un bene assoluto (come vorrebbe far intendere quella mistificante vulgata secondo la quale la «ricchezza di pochi» offrirebbe addirittura «benessere» per tutti).
È proprio su questo aspetto, allora, che conviene soffermarci per analizzare e riflettere sul perché dopo tanta informazione convincente, non ci sia una diffusa consapevolezza che possa portare a fare scelte responsabili. Sarebbe necessario, cioè, riflettere sul perché si preferisca vivere quasi aspettando fatalisticamente che le cose seguano un loro corso, orientate dagli interessi di uno o di un altro potere dell’uomo sull’uomo. Sarebbe necessario riflettere su come possiamo arrivare ad accettare tutti quei dati di fatto, che vengono imposti senza partecipazione personale, solo perché ci lasciamo convincere che un’eventuale contrapposizione finirebbe in una nostra causa persa e che, anzi, conviene non muoversi in nessuna direzione per poter approfittare delle opportunità, anche dell’ultimo momento, di salire sul glorioso carro del potere del vincitore. Una posizione conveniente che permette vantaggi senza dover assumere responsabilità e il peso di una sconfitta.
È, questo, un meccanismo conveniente anche per il potere perché permette di operare su presunzioni di consenso e di superare il momento delle scelte democratiche fingendo di averle rispettate.
Il problema delle scelte energetiche, in queste condizioni, non gode di momenti di riflessione, di scelte confrontate e poi condivise su quale modello di sviluppo, su quale, su quanta e su come produrre energia, ma risponde al solo proposito, di alcuni, di cavalcare il senso comune espresso dalla convinzione che quella scelta decisa unilateralmente è nelle condizioni (in un modo o in un altro e senza troppi scrupoli) di trasformarsi in un successo. Queste, sono condizioni che, per esempio, al di là di ogni riflessione ricevono sostegno assoluto da quel senso comune che prende acriticamente atto che senza energia non si va da nessuna parte (ma è anche vero che mettere la scelta su come produrre energia in prima posizione, denuncia un modo di operare che si muove solo in termini di infrastrutture per l’energia e senza commisurarla alle richieste di utilizzatori che diano garanzie, sul luogo di consumo, sulla quantità e sull’uso che se ne farà: in buona sostanza, in queste condizioni, è come mettere il carro davanti ai buoi).
Sono condizioni che possono anche portare a minimizzare l’essenzialità primaria della valutazione delle alternative che potremmo desiderare scegliere in piena libertà (condizioni che permettono all’uomo di esprimersi in modo anche culturalmente vitale, sulla base delle proprie esperienze e riflessioni, e non di subire, invece, minacce e danni che possono minare riflessioni libere, confronti e scelte democratiche, se non anche la propria sopravvivenza fisica). In alcune nazioni (e questo dovrebbe far scuola soprattutto in un paese, come il nostro, che sembra vivere alla giornata), prima di costruire qualsiasi infrastruttura, sono invitati i possibili utilizzatori a dare la loro adesione, con un contratto registrato, anche in termini quantitativi per dimensionare l’infrastruttura. Un modo ragionato ed esemplare per non sprecare risorse e non distruggere l’ambiente con cattedrali nel deserto.
In questa prospettiva, allora, i riferimenti più puntuali sul nucleare (riportati in articoli dei precedenti numeri di questa rivista e qui già più volte richiamati) non sono solo un’informazione tecnica specifica sulla sicurezza e sugli impatti degli impianti nucleare (pur incompleta per i pochi dati significativi disponibili), ma sono anche una denuncia di quanto sia economicamente dubbia e rischiosa la scelta nucleare e di quanto sia necessario trasformare la politica delle comunicazioni e delle occultazioni ufficiali, in una partecipazione informata e critica che punti ad atti deliberativi democratici: non possiamo rischiare di rimanere ingabbiati nel centralismo assoluto di un sistema economico finanziario e anche sottomessi da un’ideologia liberista che pretende un proprio inesistente primato medievale sul mondo.
Di centralismi, anche democratici, ne abbiamo visti molti nel secolo passato e, alla luce della violenza della quale sono stati protagonisti, il vederli risorgere e sottomettere oggi l’autonomia e le responsabilità individuali e di intere comunità umane propone uno scenario di vita minaccioso e inaccettabile.
Una situazione, questa che non può non richiedere un nostro impegno in una riflessione libera e diffusa, sullo stato delle cose dei nostri giorni, per immaginare alternative per un pacifico progresso umano fatto di fertili relazioni fra le diversità del nostro mondo e non di infantili competizioni liberiste sulla capacità, senza senso e irresponsabile, di distruzione delle risorse naturali.
Le valutazioni sulle nostre prospettive di vita non possono essere solo quelle tecniche e tecnologiche, dei loro impatti sui contesti vitali del nostro mondo e dei loro protocolli empirici di sicurezza (spesso addomesticati dalla sola improbabilità degli eventi e non dal peso delle loro conseguenze).
Siamo di fronte a valutazioni assolute imposte dalla tecno-economia, mentre vengono del tutto rimosse, nella loro sostanza, le valutazioni che riguardano il vissuto umano, che sono considerate, oggi, nei centri decisionali addirittura come valutazioni eterodosse. C’è chi arriva, infatti, perfino a scandalizzarsi quando tali valutazioni, ritenute eretiche, provengono da esperti che operano nel campo delle scienze e della tecnologia. Non sono pochi, infatti, quelli per i quali non è comprensibile una «interferenza» che metta in discussione le proprie competenze professionali con richiami a valutazioni sociali e politiche (sulle libertà di scelta, sulle risorse da destinare ai bisogni), alle relazioni umane, alle sinergie con gli equilibri naturali.
Non è raro che nelle manifestazioni pubbliche a sostegno diretto o indiretto del nucleare molti interventi vengano addirittura interrotti con perentori inviti a rendersi conto che sulle problematiche energetiche possono essere invocate solo argomentazioni «scientifiche» e che «l’uomo non c’entra» (come, in modo analogo, ebbe modo di dire, esplicitamente in una conferenza pubblica, anche un noto economista a proposito delle poco chiare attività speculative del mondo finanziario: «sono questioni che riguardano i soldi e non gli uomini!»).
Se, poi, queste questioni di fatto finiscono con il danneggiare l’uomo, il suo lavoro, la qualità della sua vita, questo viene considerato come se fosse un altro tipo di problema. Forse anche nel piccolo delle nostre esperienze, molti potrebbero ricordare episodi nei quali esperti di materie scientifiche possono aver tentato di far valere, impropriamente, il determinismo nel merito di questioni che non hanno nessuna caratteristica in comune con i fenomeni deterministici. Sono invocate, così, verità scientifiche per porre fine a valutazioni che sono invece di pertinenza delle nostre complesse esperienze di vita. In realtà anche le verità scientifiche non abbattono gli ostacoli alle loro verifiche con la forza indiscutibile di potenti mezzi tecnologici, ma si interrogano sul valore della diversità che sa trovare risorse adeguate per affrontare quegli equilibri vitali che usano l’energia per creativi atti virtuosi, per respiri vitali e non per incendi distruttivi. Energia non per reggere immagini di verità immobili, ma per costruire buone relazioni fra persone e creare sinergie, per dare senso alle cose con i fertili valori aggiunti del nostro divenire consapevole e responsabile.

[vedi anche: L’energia vitale che costruisce, in L’Energia perduta, «Villaggio Globale» anno VIII – N. 31 settembre 2005].

Le tecniche, le tecnologie e le riflessioni che non possono mancare

Le convinzioni sull’assoluto e le mancate riflessioni sulla condizione umana

Tempo di lettura: 3 minuti

Si richiede, spesso, ai responsabili dei vari settori (che provvedono alla gestione dei servizi di una città o di un intero paese), di operare nel campo delle cose concrete, di operare per un interesse generale (che si immagina condiviso o che si vorrebbe imporre come tale); si richiede anche di recuperare energie necessarie per dare forza a decisioni operative, per valorizzare la nostra determinazione a fare le cose, per non perdere tempo e risorse necessarie, per trasformare la volontà umana in opportunità operative. Si dimenticano, invece, o si affidano ad un insulso senso comune, le energie e le potenzialità del pensiero umano interpretate come origine delle debolezze del pensiero umano, contrapposto alla potenza dei principi assoluti. In realtà la «debolezza» del saper pensare umano, contrapposto ai convincimenti assoluti, è il punto di forza della nostra capacità di interrogarci sul senso delle cose, sulla dimensione delle scelte e delle sue conseguenze. È una debolezza che ci interroga anche di fronte ad un’inconfutabile evidenza sperimentale e che rende la ricerca scientifica in ogni campo, un’attività di scoperta continua perché le cose del mondo che percepiamo non sono sempre come ci appaiono, non sono sempre le stesse.

La dinamica del divenire della realtà, dovrebbe indurci verso la ricerca di una verità che è nel nostro vivere nella storia e che, dunque, è sempre da ridefinire e da arricchire con le riflessioni sulle esperienze personali e condivise con i propri simili. La debolezza è, quindi, una qualità umana, pur se contiene (per la libertà della quale gode l’uomo nel decidere le cose) anche il rischio che sia vissuta o culturalmente imposta come sintomo di incapacità e che possa innescare immotivate, incontrollabili e distruttive sofferenze.
In realtà se non disponessimo o se rimuovessimo le «debolezze» del nostro saper pensare, i nostri comportamenti sarebbero solo quelli istintivi e assoluti dell’autodifesa, quelli dell’attaccare per primi per evitare eventuali attacchi di altri, quelli della presunzione del possesso della verità, della lotta per la sopravvivenza, del successo del più forte o del più furbo, dell’esercizio di un potere. Detto in altre parole, c’è il pericolo, per gli esseri umani, di trovarsi impegnati, almeno con i propri comportamenti, a negare la propria condizione umana in nome di un’interpretazione granitica e suggestiva delle proprie convinzioni, ma riduttiva rispetto alle dimensioni del senso della propria vita. È così che diventa un ideale, il mito dell’uomo forte e vincente. Un mito che resiste anche quando dovesse diventare impossibile negarne le contraddizioni e si dovesse scoprirne l’inaffidabilità, nei fatti della nostra realtà.
Uomini forti e vincenti che vorrebbero predominare su tutte le altre specie animali e sui propri simili e che si impegnano come predatori nei meccanismi preda-predatore che, già nei nomi degli attori di questa realtà, presentano lo scenario del loro diverso destino. Il meccanismo preda-predatore, è qui richiamato come condizione specifica ed essenziale, per definire ruoli e funzioni umane, in un contesto di rapporti di forza ispirato dall’ideologia liberista: di fatto una visione della vita che finisce col richiamare comportamenti e mentalità istintive di lotta, ma che arriva anche a giustificare persecuzioni improprie e strumentali ad altri fini, presentate però come analoghe alla competizione naturale preda-predatore.
Senza la debolezza del nostro pensare, potremmo essere indotti a immaginare di essere o di poter diventare creatori e regolatori dei processi vitali. In realtà noi possiamo, invece, solo utilizzare ciò che, da questi processi ne deriva (proprio per la debolezza dei nostri pensieri e per i conseguenti dubbi) e che ci stimola a ricercare e interpretare i fenomeni. Solo così possiamo collaborare con la Natura con la sua missione di dare sempre maggiore diversità e qualità alle sue espressioni vitali naturali (quelle dell’uomo comprese). La debolezza dei nostri pensieri è un elemento di base, della nostra condizione umana. Senza di essa diventa impossibile ogni rapporto con il mondo che non sia quello meccanico dell’occupazione, del possesso, dell’arbitraria e totale disponibilità personale delle risorse sottratte a tutti gli altri, alle future generazioni in particolare.
Una collaborazione virtuosa che ci permette di andare anche oltre la ricerca giornaliera del cibo e di un luogo di ricovero per la notte (anche se poi le tecnologie, permettono di andare oltre le necessità e di costruire invadenti strumenti per poter fare tutto ciò che arbitrariamente decidiamo di imporre ad un territorio e ai suoi abitanti, ad una organizzazione sociale, ad una gestione economica delle risorse e della nostra capacità di gestirle in modo razionale e con tecnologie in sintonia con i processi naturali.

[vedi anche: Cambiamento fra risorse naturali e senso umano delle cose,  in Il controllo dell’energia, «Villaggio Globale» anno XVIII, n. 69, marzo 2015].

I dati di realtà, i confronti e le riflessioni che non possono mancare

Le convinzioni sull’assoluto e le mancate riflessioni sulla condizione umana

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Si richiede, spesso, ai responsabili dei vari settori (che provvedono alla gestione dei servizi di una città o di un intero paese), di operare nel campo delle cose concrete, di operare per un interesse generale (che si immagina condiviso o che si vorrebbe imporre come tale); si richiede anche di recuperare energie necessarie per dare forza a decisioni operative, per valorizzare la nostra determinazione a fare le cose, per non perdere tempo e risorse necessarie, per trasformare la volontà umana in opportunità operative. Si dimenticano, invece, o si affidano ad un insulso senso comune, le energie e le potenzialità del pensiero umano interpretate come origine delle debolezze del pensiero umano, contrapposto alla potenza dei principi assoluti. In realtà la «debolezza» del saper pensare umano, contrapposto ai convincimenti assoluti, è il punto di forza della nostra capacità di interrogarci sul senso delle cose, sulla dimensione delle scelte e delle sue conseguenze. È una debolezza che ci interroga anche di fronte ad un’inconfutabile evidenza sperimentale e che rende la ricerca scientifica in ogni campo, un’attività di scoperta continua perché le cose del mondo che percepiamo non sono sempre come ci appaiono, non sono sempre le stesse.

La dinamica del divenire della realtà, dovrebbe indurci verso la ricerca di una verità che è nel nostro vivere nella storia e che, dunque, è sempre da ridefinire e da arricchire con le riflessioni sulle esperienze personali e condivise con i propri simili. La debolezza è, quindi, una qualità umana, pur se contiene (per la libertà della quale gode l’uomo nel decidere le cose) anche il rischio che sia vissuta o culturalmente imposta come sintomo di incapacità e che possa innescare immotivate, incontrollabili e distruttive sofferenze.
In realtà se non disponessimo o se rimuovessimo le «debolezze» del nostro saper pensare, i nostri comportamenti sarebbero solo quelli istintivi e assoluti dell’autodifesa, quelli dell’attaccare per primi per evitare eventuali attacchi di altri, quelli della presunzione del possesso della verità, della lotta per la sopravvivenza, del successo del più forte o del più furbo, dell’esercizio di un potere. Detto in altre parole, c’è il pericolo, per gli esseri umani, di trovarsi impegnati, almeno con i propri comportamenti, a negare la propria condizione umana in nome di un’interpretazione granitica e suggestiva delle proprie convinzioni, ma riduttiva rispetto alle dimensioni del senso della propria vita. È così che diventa un ideale, il mito dell’uomo forte e vincente. Un mito che resiste anche quando dovesse diventare impossibile negarne le contraddizioni e si dovesse scoprirne l’inaffidabilità, nei fatti della nostra realtà.
Uomini forti e vincenti che vorrebbero predominare su tutte le altre specie animali e sui propri simili e che si impegnano come predatori nei meccanismi preda-predatore che, già nei nomi degli attori di questa realtà, presentano lo scenario del loro diverso destino. Il meccanismo preda-predatore, è qui richiamato come condizione specifica ed essenziale, per definire ruoli e funzioni umane, in un contesto di rapporti di forza ispirato dall’ideologia liberista: di fatto una visione della vita che finisce col richiamare comportamenti e mentalità istintive di lotta, ma che arriva anche a giustificare persecuzioni improprie e strumentali ad altri fini, presentate però come analoghe alla competizione naturale preda-predatore.
Senza la debolezza del nostro pensare, potremmo essere indotti a immaginare di essere o di poter diventare creatori e regolatori dei processi vitali. In realtà noi possiamo, invece, solo utilizzare ciò che, da questi processi ne deriva (proprio per la debolezza dei nostri pensieri e per i conseguenti dubbi) e che ci stimola a ricercare e interpretare i fenomeni. Solo così possiamo collaborare con la Natura con la sua missione di dare sempre maggiore diversità e qualità alle sue espressioni vitali naturali (quelle dell’uomo comprese). La debolezza dei nostri pensieri è un elemento di base, della nostra condizione umana. Senza di essa diventa impossibile ogni rapporto con il mondo che non sia quello meccanico dell’occupazione, del possesso, dell’arbitraria e totale disponibilità personale delle risorse sottratte a tutti gli altri, alle future generazioni in particolare.
Una collaborazione virtuosa che ci permette di andare anche oltre la ricerca giornaliera del cibo e di un luogo di ricovero per la notte (anche se poi le tecnologie, permettono di andare oltre le necessità e di costruire invadenti strumenti per poter fare tutto ciò che arbitrariamente decidiamo di imporre ad un territorio e ai suoi abitanti, ad una organizzazione sociale, ad una gestione economica delle risorse e della nostra capacità di gestirle in modo razionale e con tecnologie in sintonia con i processi naturali.

[vedi anche: Cambiamento fra risorse naturali e senso umano delle cose,  in Il controllo dell’energia, «Villaggio Globale» anno XVIII, n. 69, marzo 2015].

Dubbi nucleari e legittimi sospetti

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Il nucleare è stato, per tanto tempo, lasciato in pasto (con curata e sapiente disinformazione, per attuare strategie di distrazione di massa) alle devastazioni degli scontri ideologici, alle distruttive convenienze partitiche (a volte solo per presunti vantaggi o per interessate partecipazioni a lauti profitti e riconoscimenti) che hanno trovato un deviato conforto nel rassicurante ma mistificante, senso comune delle cose: un sistema acritico di costruzione di convincimenti che spesso non sono neanche vane speranze, ma solo folli ed egoistiche alienazioni dalla realtà. Un sistema che, accettando il mondo così come è, induce a non preoccuparsi delle conseguenze o, quantomeno, a trascurarne gli impatti, perché «le cose, nel mondo, sono sempre andate avanti in questo modo» (come viene raccontato da un inetto perbenismo che amplifica, come successo, la misera opulenza del poter sempre consumare, come proprie e senza limiti, anche le risorse e gli equilibri vitali del pianeta che sono, però, essenziali per le future generazioni).

[vedi anche: Energia, ma è vera crisi? il «senso delle cose» e il «senso comune, in L’Energia che verrà, «Villaggio Globale» anno XI, n. 43, settembre 2008].

Sono, così, moltissimi quelli che alla fine potrebbero trovarsi a dare un consenso non deciso e non intenzionale: al millantato minor costo dell’energia elettrica prodotta dal vapore generato da un impianto nucleare, al conseguente possesso di un’immaginaria tecnologia avanzata, all’infondata necessità di una scelta competitiva insidiosamente considerata un bene, ad un minaccioso futuro di consumi e affari preordinato per un’avida e insostenibile rendita che potrà contare, poi, anche sulle redditizie gestioni dei disastri e delle complicazioni del post-nucleare (perché proprio le emergenze sono ottime occasioni per grandi affari, come anche recenti fatti della nostra storia hanno dimostrato).
Il nucleare è un estremo caso di quell’entusiasmante e rovinosa politica del «fare qualunque cosa si possa fare», in nome di mistificanti prospettive di sviluppo che sono, in realtà, solo interessate occasioni per devianti profitti. Un fare che, se pur anima buone ricerche e scoperte, alla fine viene consacrato, imbrigliato a produrre tecnologia, consumi senza senso e alti profitti, tutte cose, queste, che finiranno col disperdere risorse naturali ed energie umane per la mancanza di valutazioni su finalità e obiettivi (energia: ma per quale modello di economia? e soprattutto per quali utilizzatori?). In questo scenario non c’è da sorprendersi se poi vengono a mancare i tempi e le risorse per una ricerca di nuove e attese conoscenze, per migliori e condivisibili riflessioni e scelte operative a favore di un progresso umano.

[vedi anche: Energia, ma è vera crisi? Le ragioni del «no» a questo nucleare: Il prezzo del combustibile, in L’Energia che verrà, «Villaggio Globale» anno XI, n. 43, settembre 2008].

C’è chi si chiede per quanto altro tempo dovremo assistere all’agonia del dinosauro nucleare prodotto dalla modernità del secolo scorso, ieri così veloce nel dare l’idea di un entusiasmate avanzamento scientifico (deviato, in realtà, a soddisfare ben altro). Oggi, invece, così lento nel concludere il suo irreversibile coma profondo, anche perché sono molti i dottori che lo tengono in cura (per passioni tecnologiche, ma anche per interesse sinceramente scientifico, o per lucrosi profitti da mettere a segno o per eccitate incompetenze in materia). Alla fine, i più avveduti, hanno dovuto, però, prendere atto della non praticabilità, almeno di questo nucleare, e della mancanza di senso nel sostegno a questo malato che, così com’è oggi, è destinato all’estinzione.

C’è chi vorrebbe porre un limite, purtroppo improbabile, ai costi sempre più insostenibili (per la difesa della salute degli esseri viventi e dell’ambiente e non solo per la costruzione e gestione economica e per i tentativi di mettere in sicurezza provata, gli impianti) di un «accanimento terapeutico» per la sopravvivenza di questo nucleare, deciso alcune decine di anni fa, che non poteva, però, che portarlo all’attuale e preoccupante suo stato di agonia.
Già prima ancora di costruirne di nuove, negli anni passati si affacciarono i problemi della demolizione del nucleare, degli anni precedenti, giunto a fine corsa. Non si tratta, infatti, di semplici demolizioni, perché l’Uranio esausto non è un materiale inerte e perché neanche i materiali da costruzione, usati per le centrali nucleari, sono esenti da residui nocivi.
È, poi, del tutto infondata la convinzione di poter risolvere il problema dello smaltimento delle scorie. Si fa intendere come smaltimento, solo una costosissima messa in sicurezza temporanea del materiale radioattivo, mentre sull’ipotizzata messa in sicurezza finale si raccontano solo favole: dalle miracolose miniere di sale (che dovrebbero garantirne un improbabile riposo eterno), alla inclusione, per sicurezza, in appositi materiali che, compattando e trattenendo polveri e parti di materiali tossici e nocivi, servirebbe solo a confinarli in una matrice di contenimento per meglio controllare la loro eventuale dispersione nell’ambiente.

[vedi anche:  Energia, ma è vera crisi? Le ragioni del «no» a questo nucleare. Problema scorie, in L’Energia che verrà, «Villaggio Globale» anno XI, n. 43, settembre 2008].

In Germania, per la dismissione delle centrali nucleari, hanno già dirottato 30 Mld di euro prelevati dalle tasche dei cittadini tedeschi per mettere un velo pietoso sulla scelta nucleare di diverse decine di anni fa. Ma neanche quei 30 Mld di euro saranno sufficienti e comunque il materiale radioattivo, potrà essere solo spostato e, quindi, diversamente da ciò che si vorrebbe far intendere, in qualsiasi posto sarà destinato ad essere conservato, continuerà ad essere un’allarmante presenza per la salute degli esseri viventi (soprattutto in tempi di terrorismo internazionale e nonostante i costosissimi sistemi di sicurezza che saranno messi in atto, con specialisti della sicurezza armati e con le costose tecnologie che sarà sempre necessario aggiornare, pagare e gestire).
L’avventura nucleare italiana si è onerosamente protratta per qualche decina di anni, sopravvivendo fra piani di acquisizione di brevetti, di costosissime e sofisticate apparecchiature e software per il controllo dei reattori; fra costi indefiniti delle centrali (per opere consentite in assenza di capitolati di spesa); fra costi dell’Uranio arricchito (del quale non ne disponiamo in modo assoluto) per il funzionamento dei reattori; fra costi dovuti a false partenze e arresti, a controlli e manutenzioni, a riparazioni obbligatorie e costi dovuti per la chiusura finale degli impianti nucleari (per limiti di sicurezza superati); fra finanziamenti a fondo perduto per il presidio degli impianti chiusi e dei materiali radioattivi prodotti e per la fase intermedia di demolizione e del cosiddetto smaltimento e trasferimento (ovvero per una messa in sicurezza solo vantata e fatta immaginare) dei materiali radioattivi delle centrali.
Oggi, a fronte anche solo di tanto danno (economico, ambientale e per la salute umana) che viene procurato, sorge il giustificato dubbio che queste centrali abbiano almeno prodotto tanta energia da controbilanciare quella andata persa e che si continuerà a perdere, in termini economici e di impatto ambientale e sociale, dal momento della progettazione al momento finale della loro almeno formale, ma sempre minacciosa, sepoltura tombale.
Ma in questo settore c’è da aspettarsi anche di peggio: la gestione della fine del nucleare, potrebbe portare anche alla sua resurrezione. Come l’araba fenice e in nome delle economie di scala, che verrebbero realizzate, il nucleare potrebbe tornare e completare la sua dannosa missione. Infatti c’è chi vorrebbe portarci a «scoprire» che il danno è ormai irrecuperabile e che quindi la produzione di altro materiale radioattivo cambierebbe solo la quantità delle scorie (un fattore socio-ambientale ritenuto di poco conto) che sarebbe provvidenzialmente compensato, in questo caso, da una nuova fonte di energia elettrica strategica (si può immaginare quanto sia strategica se ci rendiamo conto che un’Italia nuclearizzata la produzione da questa fonte non potrà superare il solo 10% dell’energia totale aumentando, però, a percentuali indefinibili, i devastanti rischi, per la popolazione e per l’ambiente, e i costi di una gestione, anche militarizzata, dell’attuale regime di sicurezza). In realtà sarebbe solo un vera, nuova e lucrosa fonte di business e non altro.

[vedi anche: Energia, ma è vera crisi? Le ragioni del «no» a questo nucleare. La sostenibilità del contributo, quantitativamente significativo, del nucleare ai consumi energetici nazionali, in L’Energia che verrà, «Villaggio Globale» anno XI, n. 43, settembre 2008].

C’è chi, ancora infatuato dalla capacità dell’uomo di ridurre ogni fenomeno a un processo deterministico, scommette su un prossimo sistema nucleare sicuro (quello di 4° generazione ed oltre), su fonti inesauribili di materiale fissile (sempre disponibili e a basso prezzo) o spera, almeno, nella rivalsa di un drammatico giorno nel quale, terminate le risorse minerali fossili tradizionali (necessarie per trasformare calore in energia elettrica) e con l’effetto serra, che offuscherà le energie rinnovabili di fonte solare, tutti dovranno riconoscere il valore unico del nucleare: sarà una grande vittoria dell’impegno distruttivo per il «bene» del consumo dell’energia. Un consumo che continuerà ad essere immaginato, nella disperata mente dei kamikaze del progressismo tecnologico, continuo e senza limiti.
Oggi sembra che sia possibile morire solo di fame, ma non è consentito morire per mancanza di energia elettrica anche se da destinare solo a usi insensati se non del tutto inutili. Eppure tutta l’energia elettrica consumata, anche irrazionalmente nel nostro paese è solo il 30% dell’energia necessaria e il contributo nucleare sarebbe, a sua volta, solo una quota di questo 30% (realisticamente, come già ricordato, solo il 10% per un’Italia nuclearizzata, che deve prevedere però, anche un’esposizione di diversi milioni di cittadini ai rischi degli incidenti nucleari).
Dovremmo chiederci, allora, se vale la pena, per questo incerto 10% di energia, innescare problemi che (a parte i costi impresentabili di costruzione e manutenzione degli impianti nucleari) già oggi, in Italia e con il nucleare sospeso, di fatto non trovano soluzione.
È purtroppo vero, però, che se la crescita continuerà a connotarsi come potente generatore di fenomeni entropici, fisici e sociali (distruzione della qualità delle risorse, accumulo di rifiuti, degrado individualista della convivenza umana, perdita dei vitali equilibri naturali) in fondo al barile della nostra sopravvivenza, prima della fine, troveremo solo il nucleare: il che, però, non migliorerà le condizioni della nostra fine.
Siamo nella paradossale condizione di vedere avanzare da una parte l’impegno a raggiungere nuove conoscenze e creare occasioni per acquisire sempre più consapevolezze per fare scelte responsabili, mentre da un’altra parte queste stesse conoscenze vengono sfruttate (trasformandole in nuove tecnologie) da un piccolo insieme di individui pervasi dal pensiero unico del libero mercato dei consumi e dalle inconsapevolezze che lo alimentano. In quest’ultimo scenario si vorrebbe, addirittura, far immaginare la possibilità di raggiungere un «bene» assoluto, effetto automatico dello sviluppo tecnologico. Ma la tecnologia e la scienza non affrontano i «perché» dei fenomeni che possono dare risposte e senso alle cose (entrando nel merito di ciò che è bene per l’uomo e che può essere solo il risultato di autonome riflessioni personali, del loro confronto e dell’assunzione diretta di responsabilità operative personali, collettive e condivise. La scienza si interroga solo su «come» avvengono i fenomeni e la tecnologia su «come» applicarli a qualsiasi cosa che l’uomo già fa, per rispondere ai propri bisogni, ma soprattutto a qualsiasi cosa che potrebbe essere indotto a fare affascinato dai meccanismi mitici dei consumi, segni di un trionfante sviluppo anche se destinato a finire, prima o poi, con l’esaurimento delle risorse.
Da una parte ci sono alcuni, mentalmente privi di pensieri alternativi e fatalmente disorientati e deviati (da scelte ideologiche), che mostrano un’ampia vocazione a imporre soluzioni limitate dalla loro assolutezza (magari appellandosi al bene deformato dal senso comune che immagina realtà immutabili destinate ad essere le stesse «ora e per sempre»). Da un’altra parte vi sono, invece, tutti gli altri che, sottoposti al dominio dei primi, si trovano quasi destinati a subire le conseguenze di questo disarticolato e distruttivo stato delle cose.
C’è, forse, anche un malvagio programma, presentato come scelta politica, che si propone di creare un consenso (in qualsiasi modo e senza verifiche) solo per legittimare interessate convinzioni, di un manipolo di prepotenti, e per rendere inutile ogni critica, a risoluzioni preordinate e a convenienze universali inventate, ma somministrate come vere. Si tratta di un manipolo di disorientati ma potenti distruttori di risorse, che probabilmente non riescono ancora ad attivare i propri legittimi e sereni meccanismi di autostima e che non riescono, quindi, ad abbandonare i minacciosi propositi ideologici del successo tecnologico che hanno solo deciso di cavalcare come opportunità e convenienze per l’esercizio di un potere e per disporre dei vantaggi che ne conseguono. Un manipolo di esseri umani che inibiscono anche le proprie e uniche qualità creative, quelle che permettono di accedere alle conoscenze e di interpretarne il senso: c’è tutto un mondo di relazioni con quell’armonia degli equilibri naturali che loro sembrano impegnati solo a sottovalutare se non proprio a ignorare.

Le convinzioni sull’assoluto e le mancate riflessioni sulla condizione umana

L’informazione sul nucleare civile e le comunicazioni sullo stato degli impianti e dei territori interessati

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Sono passati ormai 60 anni, ma all’opinione pubblica si continuano a fornire schemi degli impianti nucleari che, pur se a volte diversi nella grafica, appaiono composti sempre dagli stessi elementi: dal reattore, dagli scambiatori di calore, dal generatore di vapore, dalle turbine, dai generatori di elettricità e dal «combustibile» nucleare. Si parla di «combustibile» per far intendere qualcosa di già noto e rassicurante, ma è solo una sottile mistificazione della realtà: non si tratta, infatti, di un combustibile che reagisce con un comburente e di una reazione nella quale la sottrazione di uno dei due, interrompe la reazione, ma di atomi instabili, mantenuti in un equilibrio precario di fissione atomica, che procedono senza controlli nella loro trasformazione. Questo dovrebbe essere, dunque, il nucleare sicuro che alcuni vorrebbero convincerci ad accettare.

Tutto questo può essere definito un caso di evidente non informazione, se non anche di cattiva informazione, sulle questioni della sicurezza degli impianti. Infatti, mentre le dichiarazioni, che accompagnano questi immutati schemi, annunciano che siamo già al nucleare civile «provato» di terza generazione, queste affermazioni non sono sostanziate da esaurienti presentazioni dei problemi e della validità delle soluzioni adottate. Una situazione, questa, che denuncia anche uno stato di diffusa e preoccupante passività dei cittadini, in buona parte però indotta, su questioni, come quelle del nucleare civile, che possono essere ad elevatissimo impatto ambientale e che possono decidere la sorte di vasti territori e delle intere comunità che li abitano.
Per esempio, pur considerando le attenuanti per le particolari cause che hanno determinato l’incidente di Chernobyl, possiamo ben immaginare quali conseguenze vi sarebbero state se il territorio non fosse stato sostanzialmente privo di insediamenti civili e produttivi! Conosciamo, invece (pur se in modo incompleto) quanto l’incidente di Fukushima abbia pesato e continuerà a pesare per i danni alle cose e alle persone. Si tratta di un danno economico valutato fra i 75 e 260 Mld di $ che salgono a 500 Mld $ se si comprendono le opere di smantellamento della centrale e di bonifica del territorio, senza le quali le compensazioni economiche, offerte per il rientro degli 85.000 cittadini (ufficialmente sfollati, ma in realtà se ne contano 150.000), sarebbero il prezzo inaccettabile dell’esposizione della popolazione ad un elevato rischio per la loro vita.

[vedi anche: Linguaggi nucleari,  Il vero e il falso sul nucleare, 2) l’equivoco del termine «combustibile», in Parole nuove per l’ambiente, «Villaggio Globale» anno XIV, n. 54, giugno 2011].

Per ora, però, vi sono solo insufficienti investimenti disponibili per un tale intervento e appaiono del tutto insufficienti anche le misure attuali di contenimento degli impatti già prodotti.

L’accesso a dati diretti sulla conduzione e sullo stato di un impianto nucleare non è consentito (vi sono solo informazioni preordinate sulle reali condizioni degli impianti, mancano anche quelle in occasione di incidenti che pur hanno avuto una significativa rilevanza ambientale) non solo per l’inesistenza, alla fonte, di dati tecnico-scientifici sui processi di trasmutazione, ma anche perché molti dati sono occultati dalla segretezza, imposta per misure di sicurezza in difesa degli impianti (e per evitare allarmi ritenuti inutili). Questo dovrebbe preoccuparci e dovremmo quindi cercare rimedi a queste scelte che il mondo finanziario (implicitamente, ma con la determinazione del suo potere) impone a una politica, anche dei paesi democratici, che definire sprovveduta, per i palesi ed enormi interessi in gioco, sarebbe solo un’insopportabile menzogna.
Cosa caratterizzi l’evoluzione degli impianti nucleari, è lasciato solo intendere. In realtà si tratta di miglioramenti (a volte anche non condivisi, nella valutazione della loro efficacia, da molti esperti dello stesso settore e che, comunque, non sono la soluzioni dei problemi) relativi al software (per il controllo delle temperature, della movimentazione delle barre di Uranio e della gestione dei sistemi di rallentamento dei neutroni) e alle qualità e caratteristiche specifiche dei materiali usati per la costruzione dei reattori (per i quali sorge il dubbio che vi siano significativi riscontri sugli effettivi vantaggi procurati, forse anche non rilevabili per la complessità dei fenomeni da controllare).
Per il miglioramento di qualsiasi cosa non basta, però, controllare il controllabile e aggiungere nuova tecnologia che, applicata per fare ciò che può fare, diventa anche possibile causa di pericolose deviazioni dai problemi reali (la cui complessità, non essendo compiutamente affrontabile, porta a trascurare parametri considerati non rilevanti rispetto ai pochi che siamo in grado di controllare per riceverne indicazioni comprensibili). Nel migliore dei casi, ogni intervento, a favore della sicurezza, finisce con l’essere solo un’implementazione di software e hardware, con il sospetto che sia solo inutile e costoso (forse, però, è anche un modo per approfittare e fare ottimi business). La tecnologia non è la panacea per problemi irrisolvibili, quello che serve, in questo caso, sono invece impianti sicuri e non scommesse sulla sicurezza degli impianti.
Gli approcci teorici e l’innovazione tecnologica può, forse, entusiasmare qualcuno, ma tutti gli altri, di fronte a situazioni di questo tipo, sicuramente vorrebbero accedere, oltreché a reali vantaggi economici senza inutili rischi, anche alle verifiche sugli impatti effettivi (e non solo sentirseli raccontare): non può essere considerato non essenziale il poter disporre di un quadro definito di dati diretti e disponibili in tempo reale del rischio in presenza di un impianto nucleare. È una necessità di sicurezza, che coinvolge la vita fisica e psicologica degli individui, il poter essere esaustivamente informati da comunicazioni complete, corrette e affidabili sullo stato degli impianti oltreché sulle ragioni delle scelte e su quali precauzioni, per la sicurezza della popolazione civile, sono adottate, a regime e nei casi di emergenza, e di quali obiettivi, risorse e fattibilità dispongono i piani di sicurezza, fermo restando che la «opzione zero» sulla costruzione e gestione degli impianti non è «opzionale», ma una precisa e dovuta risposta a impatti che possono alterare del tutto l’uso sociale ed economico di un territorio.

[vedi anche: Linguaggi nucleari, Il costo dell’energia e il costo dei rischi, in Parole nuove per l’ambiente, «Villaggio Globale» anno XIV, n. 54, giugno 2011].

Occasioni di trasparenza e accesso in tempo reale ai dati, trovano riscontri solo in situazione di conduzione degli impianti preordinate a tal fine. Al di fuori di queste situazioni e adempiute ogni formalità, la pratica della conduzione (se non anche la progettazione) sembra godere di ampie occasioni per il fai da te. A volte siamo stati informati su alcuni incidenti, ma solo perché non è stato possibile occultarli (per esempio, su valvole aperte per errore, ma che di fatto, hanno permesso «provvidenziali» sversamenti di liquidi, contenenti materiali radioattivi, in corsi d’acqua e in mare, poi, subito dichiarati inquinati e messi sotto controllo, pur se non si sa con quale efficacia). Ancora, siamo stati informati sull’immissione di elementi radioattivi attraverso camini che, invece, si assicura garantiscano una loro miracolosa dispersione (fra questi c’è anche il Cesio137, perfettamente assimilabile dai tessuti animali in sostituzione del Potassio e che in quantità dell’ordine dei µg/kg peso corporeo è letale per gli esseri viventi, uomo compreso). Vi sono anche incidenti, non rilevabili all’esterno dell’impianto, e riparazioni, per particolari condizioni di pericolo dei vari sistemi, non denunciati (naturalmente per non creare allarmismi), vi sono progettazioni sempre più avanzate, ma che non fanno miracoli, e scorie che sostano un po’ qui, un po’ là e che sono a disposizione di preoccupanti utilizzatori.
È emblematico, per avere la misura della qualità dell’informazione fornita sui rischi del nucleare, quanto detto in una trasmissione radiofonica da un esperto del settore: «La presenza di Cesio137 radioattivo a Fukushima è un terzo dello stesso Cesio presente a Roma». Possiamo anche crederci, ma forse questa informazione è incompleta ed è falsa nella sostanza. Infatti il Cesio137 a Roma è presente nella roccia tufacea, a Fukushima è, invece, nell’aria ed entra in particolare, non solo direttamente nei tessuti degli animali, uomo compreso, ma anche nelle catene alimentari (qualsiasi isotopo del Cesio sostituisce il Potassio presente nei vegetali e quindi accede, anche, ai tessuti degli animali, attraverso il loro cibo).
Le scorie non si possono mettere sotto il tappeto, ma c’è qualcuno, con notevoli competenze in materia, che (si spera per scherzo, ma in un una qualificata tavola rotonda) ha anche minimizzato il problema scorie assicurando che «se tutte quelle del nostro paese fossero distribuite a tutti i cittadini, ciascuno di essi ne avrebbe, solo, una quantità molto più piccola di una aspirina».
Cose come queste possiamo interpretarle come miserie umane, nelle quali la scienza non c’entra in alcun modo, ma nelle quali l’ignoranza, a tutti i livelli esercitata, fa da padrona.
Le scorie, come in una nemesi, con i loro irrisolvibili e drammatici problemi, sembrano essere, invece, la fatale punizione per chi, senza una riflessione umana e, invece, con una sedicente neutrale interpretazione scientifica, ha sfidato la logica, la corretta comunicazione, le pratiche democratiche, tutto per prendere decisioni di parte come fossero state oggetto di corrette e, addirittura, condivise informazioni. Le tecnologie applicate al nucleare, per la potenza dei possibili impatti, non possono essere solo l’oggetto di una convenienza tecnica, economica o di partito.
Oggi, pur se a noi invisibile, non possiamo non denunciare un abuso operato da alcuni nostri concittadini esperti del settore, ma «innocenti o timidi e inetti competenti», che probabilmente fra la loro scienza e la società di tutti hanno saputo immaginare soluzioni dettate solo da una loro disattenzione sociale. In realtà attraverso equivoci linguaggi criptici o improprie analogie, si è lasciato sempre immaginare l’inconsistenza degli ostacoli che venivano frapposti da chi avrebbe voluto contenere l’applicazione e la diffusione della tecnologia nucleare. Il cosiddetto nucleare civile, così, veniva proposto come un’innocente e incompresa innovazione e, forse, sono state troppo poche le denunce per bloccare, con il nucleare una rivendicazione scientificamente incompleta e sostenuta solo dal profitto che altri ne potevano trarre.
Tecnici ed economisti negli anni 80 giravano per le scuole per imbonire giovani sprovveduti e zittire domande impertinenti. Si raccontava con diapositive e filmati la vita di scienziati famosi, per far intendere cose che avevano ben poco a che fare con la scelta nucleare che, intanto, in quei tempi avanzava vittoriosa come simbolo di una benefica scelta ispirata da ideologie scientiste e da prospettive meccaniche di progressismo tecnologico. Il consenso era un sentimento da indurre, non il risultato consapevole di una partecipazione informata ad una scelta responsabile che riguardava quella qualità della vita che non può fare a meno di informazioni corrette e del senso delle cose (senso che può venire solo dalle nostre riflessioni personali e condivise).

[vedi anche: Linguaggi nucleari, Il ruolo dei media, in Parole nuove per l’ambiente, «Villaggio Globale» anno XIV, n. 54, giugno 2011].

Il nucleare è, dunque, un processo indefinito che ha troppo pochi parametri di controllo disponibili per poter essere compiutamente governato (pur in presenza dei software e degli hardware più avanzati). Le energie messe in gioco sono notevoli, ma anche troppo elevate sono la non disponibilità di conoscenze per il controllo del processo di trasmutazione e i rischi della fusione del reattore e di un fallout radioattivo. Anche se tali eventi fossero avvenuti una sola volta (in particolare nella sola storia di un paese densamente popolato, come è l’Italia) la catastrofe generata sarebbe stata irrimediabile per alcuni secoli.
Alcuni sono impegnati nella progettazione di impianti intrinsecamente sicuri, ma pur se concettualmente possono essere presi in considerazione, nella pratica le occasioni di attivazione dei sistemi di spegnimento del reattore, potrebbero essere così frequenti da renderlo del tutto inefficiente, già oggi vi è un plausibile sospetto che, in molti impianti, vengano rimossi, anche se temporaneamente, alcuni sistemi di sicurezza per porre rimedio a situazioni anomale. Magari, solo con l’intenzione di far passare come un non incidente lo sversamento di liquidi radioattivi o l’immissione in aria ambiente di elementi radioattivi, se questi dovessero essere, poi, «sfortunatamente» rilevati all’esterno degli impianti.
Non è completamente definibile la qualità e la quantità degli elementi e il tipo di parametri fisici che possono intervenire nelle trasmutazioni in atto in un reattore nucleare, ma è possibile solo, controllando la temperatura dei liquidi del reattore e degli scambiatori di calore, alimentare o inibire la trasmutazione attraverso la quantità di materiale fissile (fonte della produzione di calore) immesso nel reattore o la quantità di inibitori capaci di far diminuire il numero delle collisioni efficaci.
Il reattore deve cercare di dare continuità alla produzione di calore, mantenuto a circa 400°C e trasferito all’esterno, con un sistema di scambiatori termici, fino alla produzione di vapore per le turbine del generatore elettrico. Il controllo della temperatura è, in sostanza, l’unico ma indiretto parametro che permette, con continui aggiustamenti, sia di non inibire la trasmutazione (che comporterebbe lo spegnimento del reattore e la necessità di dover procedere poi, anche nel corso di mesi, alle operazioni per la sua ripartenza), sia di evitare il peggiore degli esiti, con la perdita irreversibile del controllo della produzione del calore e arrivare, così, fino alla fusione del nocciolo del reattore per superati limiti fisici della sua tenuta).
Portare e mantenere, in questo stato instabile, il sistema è una operazione altamente complicata anche per i notevoli danni prodotti, nel tempo, al reattore con la conseguenza, in particolare, di dover eseguire costose e complesse manutenzioni, riparazioni e sostituzioni di elementi lesionati dal distruttivo bombardamento neutronico e di dover, quindi, mantenere inattive, per alcuni mesi, le singole unità produttiva di un impianto nucleare.
L’instabilità del processo oggi viene controllata attraverso software aggiornati, man mano che emergono possibili situazioni di rischio, ma che spesso sono anche in conflitto fra loro e che, comunque nel dubbio, dovrebbero portare ad una precauzionale sospensione dell’attività del reattore. Un software che, in presenza della precaria sicurezza degli impianti nucleari, può diventare anche un costoso ricatto, pur non esplicitato come tale, da parte dei loro produttori nei confronti di chi non dovesse aderire agli aggiornamenti. In caso di incidente, infatti il gestore dell’impianto si vedrebbe privato dell’alibi, pur inconsistente, di non aver fatto tutto il possibile (nel rispetto dei vantati protocolli di sicurezza più aggiornati, pur se non infallibili negli effetti).
Per i più malevoli, c’è anche il sospetto, poi, che tali software, sempre più avanzati, non vengano tutti connessi e non siano sempre attivi nei sistemi di controllo del processo, e che vengano, così, abbassati gli eventuali migliori livelli di sicurezza (come avviene per altre attività produttive che non hanno, però, i livelli di pericolo e gli impatti del nucleare) per bypassare nuove ed estreme verifiche precauzionali e poter, così, continuare a produrre energia.
Anche per gli hardware la situazione è simile, gli aggiornamenti, anche se di scarso rilievo, diventano obbligatori per non correre il rischio di dover giustificare, poi, come colpevoli, omissioni anche se, proprio loro, non sono stati causa di alcun danno in occasione di eventi drammatici.
Queste situazioni di incertezza e la loro gestione potrebbe ben spiegare come mai il monitoraggio completo, trasparente e in tempo reale di una centrale nucleare non sia disponibile per controlli liberi da vincoli: si offrono solo alcuni e ben riorganizzati dati periodici finalizzati a creare consenso, ma non vengono accettate verifiche autonome e non programmate per dare la prova che tutto avviene nella totale sicurezza dell’impianto come, invece, solo a parole i responsabili degli impianti sono costretti o si affannano a raccontare per rassicurare la popolazione messa a rischio .
Da quanto fin qui già detto (e come già anticipato in precedenza) è evidente che nel nucleare di oggi non c’è sostanzialmente niente di nuovo: siamo di fronte ad un sistema tradizionale che usa il vapore per muovere le turbine di un normale generatore elettrico. La fonte di calore è la trasmutazione dell’Uranio arricchito già usata nei precedenti reattori, anche le misure di sicurezza reali sono ancora quelle indirette e puntate sul controllo della temperatura del reattore. Soprattutto per la sicurezza della popolazione civile, è inutile, poi, farsi illusione su piani di emergenza che, in Italia per la densità di popolazione e per la conformazione geografica (in particolare per regioni circondate dal mare, come Puglia, Calabria, Sardegna, Sicilia) comporterebbero un esodo di dimensione bibliche di milioni di persone anche attraverso il mare e anche verso le nazioni confinanti.
Oggi il mitico racconto di una tecnologia, sempre in procinto di realizzare un condiviso, documentato e verificabile progresso umano non viene neanche più proposto. Sembra, invece, che il progresso umano sia diventato una meta che, come tante altre a favore dell’uomo, è addirittura scomparsa dagli orizzonti di un nostro possibile futuro. Moltissimi, conquistati dallo sviluppo tecnologico, negano che questi scenari siano la prova di un declino, in atto, del senso del vivere umano e che si tratti, invece, di una profonda e virtuosa mutazione antropologica che mira a semplificare il vivere dell’uomo (oggi siamo addirittura arrivati a definire semplificazione, senza averne coscienza, tutto ciò, uomo compreso, che viene affidato alle tecnologie).
Del gruppo degli entusiasti dello sviluppo tecnologico fanno parte anche alcuni scienziati e tecnici che operano nel settore del nucleare. È comprensibile che questi siano naturalmente portati a difenderlo (soprattutto se ne va di mezzo il loro impegno nella ricerca o un posto di lavoro qualificato in una impresa del settore). Ma ciò non esime, anche loro, da un civile impegno nella gestione autonoma delle proprie consapevolezze e responsabilità. Sono molti (e pesano significativamente nelle scelte di questo settore) quelli che sono convinti che le proprie competenze (anche quelle genericamente tecnico-scientifiche) siano tanto fondamentali da ritenere già definita a priori ogni scelta, che dovesse coinvolgerli, e che sia inutile ogni verifica e ricerca di alternative.
Vi sono, però, in ambito scientifico, anche posizioni critiche qualificate che denunciano gli inequivocabili segni di un uomo, oggi, sempre più asservito alle macchine (tanto da apparire lui una loro appendice), sempre più sottomesso ad una loro pretesa perfezione assoluta (effetto solo di una semplificazione riduzionista della complessità), sempre più sottomesso all’assoluto di un pensiero unico che induce a comportamenti acritici ispirati da un bene definito da interpretazioni ideologiche tecno-scientiste (complementari a quelle liberiste in quanto essenziali per generare nuovi consumi e attivare nuovi mercati). Un uomo sempre più espropriato delle qualità creative e sinergiche (necessarie per entrare a far parte degli equilibri vitali e non per assistere, criticamente inerme, al ciclo distruttivo, senza senso e finalità vitali, del consumo di risorse, della produzione di beni, servizi e rifiuti). Un uomo espropriato proprio di quelle qualità creative e sinergiche essenziali per non deviare verso meccanismi spersonalizzanti che trasformano le unicità umane in replicanti sull’unica scena del possedere soldi e potere, dei quali loro stessi sono vittime, mentre si esercitano come carnefici sull’ambiente vitale naturale e sulla salute psicofisica di tutti gli altri loro simili.
Anche nell’attuale situazione di crisi, figlia del mercato e delle mistificanti immagini di beni e servizi avanzati, che fingono prospettive anche solo di sviluppo (senza progresso umano), si rafforza sempre più la convinzione che la tecnologia è un valore assoluto, che sa «far bene le cose», per definizione, che offre gratuitamente una «soddisfacente» libertà, di consenso-dissenso individuale, e «vantaggiosamente» orientata da un mercato globale al quale «tutto» appartiene.
Il successo di questa degradata mutazione diventa, invece, addirittura la prova della sua efficacia (anche gli strumenti usati sono in linea con questa avvilente mutazione: le mode del consumo a perdere, i devastanti azzardi economici, l’esercizio incondizionato di qualsiasi forma di potere, la distruzione delle risorse, l’accumulo di profitti nelle mani di pochi e improduttivi speculatori, sono sempre più meccanismi incontrollabili di un fare le cose senza senso).
Una realtà distorta del senso del vivere che si vorrebbe animasse ogni individuo umano, una realtà però anche diffusamente percepita, nella sua drammaticità (non sappiamo per quanto tempo ancora), ma impotentemente vissuta, da sempre più esili minoranze di individui del nostro tempo. Il progresso umano viene a mancare, ma il suo fallimento appare vittima, solo, di incolpevoli crisi di ogni genere (politiche, sociali, economiche, finanziarie). In realtà a diventare vittime siamo proprio e solo noi e lo siamo non certo per un pur inaccettabile fuoco amico (il prezzo che ci toccherebbe pagare a un’economia finanziarizzata che viene imposta come presunto elemento indispensabile, ma assoluto e senza alternative, per il nostro benessere o anche solo per una nostra sopravvivenza). A ben guardare, infatti, non dovrebbero esserci dubbi che siamo di fronte a preordinate e provocatorie attività, in un mondo globalizzato, finalizzate alla colonizzazione dell’economia reale. Non dovrebbero esserci dubbi che siamo di fronte a fenomeni spinti dall’avidità di denaro e dall’esercizio autoreferente di un potere che, con attività predatorie, ne viene in possesso sottraendolo, con subdola legittimità, alla condivisione con altri. Ci sono gruppi di sostenitori dei propri interessi e vantaggi che, pur se formati da pochi elementi traggono vantaggi incalcolabili, a totale nostro danno, dall’assolutismo, ideologico individualista, patrocinato e perseguito dalla tirannia liberista.

[vedi anche: Energia per consumi senza progresso in Il controllo dell’energia, «Villaggio Globale» anno XVIII, n. 69, marzo 2015].

La Terra non è più un luogo di vita, ma sta diventando sempre più l’oggetto di un possesso assoluto e senza senso, da parte di individui (autoreferenziali e isolati dal contesto vitale reale, che operano come se fossero mentalmente turbati da visioni di conflitti terminali fra altri inesistenti mondi).
Sono individui ossessionati dalle paure, di un «non avere» e di un «rischiare di perdere» le cose di questo mondo, che li trasforma in insaziabili automi impegnati, con stupide reiterazioni, a mettere abusive bandierine di possesso su ogni cosa, su ogni idea, su ogni modello, anche ipotetico della realtà (con l’attesa che questo modo, di occupare il mondo, un domani possa permettere chissà quali vantaggi a proprio favore). Al limite di uno stato paranoico, c’è perfino chi vorrebbe disporre della volontà e della fede di persone morte e che, per entrare in possesso della loro adesione ai propri convincimenti, le riconverte, con procedure di tipo amministrativo (con atti di registrazione su propri specifici schedari), ad altra fede (quella loro che è, naturalmente, quella vera in assoluto), facendo incetta di registrazioni storiche di battesimo e simili, di dati riportati nelle iscrizioni tombali.

La trasmutazione atomica

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Il processo che avviene nei rettori nucleari procede spontaneamente ad opera di un aumento continuo di neutroni che generano collisioni efficaci ad attivare la trasmutazione degli atomi fissile (seguendo un meccanismo a catena che produce quantità sempre maggiori di altri neutroni e quindi di collisioni efficaci). Ciò comporta che la fissione nucleare, se innescata, diventi un evento spontaneo e rapido. In presenza del solo processo di trasmutazione e in un sistema chiuso come può essere quello di un reattore, più collisioni producono più energia e più energia produce più collisioni. In assenza di un sistema di controllo della trasmutazione, il processo arriverà fino ad una temperatura, oltre la quale avviene la fusione del sistema esposto direttamente a questa trasformazione, con il conseguente rilascio incontrollabile di materiale radioattivo, la sua immissione in aria ambiente e la sua dispersione sul suolo e nelle acque. Una attività che proseguirà, generando elevate condizioni di nocività nel corso dei suoi lunghissimi processi almeno fino all’esaurimento del materiale fissile.

Sul nucleare usato negli impianti, sappiamo solo che la trasmutazione dell’Uranio235, produce alla fine calore e che, in particolare, ogni atomo di Uranio235, colpito da un neutrone, ricombina le sue particelle subatomiche e dà origine (oltre a minori quantità di altre particelle) soprattutto a due nuovi atomi, lo Stronzio94 e lo Xenon140 e genera 2 nuovi neutroni. Il numero dei neutroni nel corso della trasmutazione andranno, così, sempre aumentando. Seguendo un processo a catena, questi 2 neutroni colpiranno altri 2 atomi di Uranio235 e genereranno 4 nuovi neutroni e così via ogni volta raddoppiando il numero di neutroni di volta in volta prodotti. È immediato immaginare quanto questa trasmutazione sia spontaneamente rapida per la crescita esponenziale delle collisioni (efficaci a cambiare la struttura atomica dell’Uranio235 e a rilasciare sempre maggiori quantità di calore). La velocità della trasmutazione (cioè la quantità di Uranio235 che, nell’unità di tempo, si ricombina per formare nuovi tipi di atomi) crescerà fino ad arrivare ad una produzione massima di neutroni determinata dalla quantità di Uranio235.
Il fenomeno se giunge in questo stadio estremo, arriva a temperature dell’ordine delle migliaia di gradi (sufficienti, quindi, per far fondere il reattore e generare un processo terminale incontrollabile di fusione della sua carica di materiale fissile e di rilascio di sostanze radioattive in intorni molto ampi all’esterno dell’impianto). La trasmutazione durerà nel tempo fino ad esaurimento dei suoi elementi fissili e, quindi, se non vi sono (e ancora non vi sono) sistemi di contenimento efficaci, continuerà a produrre gas, fumi e materiali solidi radioattivi e a immetterli nell’ambiente.
Il nucleare fondamentalmente è costruito intorno ad un equilibrio fisico, instabile e non definito, che come tale espone ad elevati rischi i contesti produttivi, sociali e naturali di territori molto vasti e con impatti negativi anche globali. In caso di incidente, una centrale nucleare non interrompe spontaneamente le proprie attività, come avviene in una centrale termica tradizionale (nella quale il ciclo si ferma per interruzione dell’alimentazione dei motori o per rottura dei meccanismi che generano l’energia elettrica). Una centrale tradizionale non ha, neanche, i problemi qualitativi e quantitativi del fallout nucleare e tantomeno di tossicità estrema e letale per le sostanze immesse nell’ambiente.
Per una centrale nucleare, invece, in caso di allarme, deve essere attivata tutta una complessa procedura per evitare che il processo di trasmutazione prosegua fuori dal controllo delle sue condizioni critiche e arrivi spontaneamente all’ingestibile fusione del nocciolo del reattore (con tutte le conseguenze sull’impianto, protratte in lunghi tempi, e con impatti, sull’ambiente e sugli esseri viventi, che distruggono la vita economica e sociale di intere regioni).

A Chernobyl è stato costruito un sarcofago gigantesco che ora, però, non riesce più a mitigare le immissioni di materiale radioattivo in aria ambiente e quindi dovrebbe essere a sua volta ricoperto da un nuovo e più grande sarcofago: un’opera che (a parte i costi e un’efficacia ancora precaria) avrebbe dell’incredibile da vantare. Ma questo non è tutto, perché nel sottosuolo dell’impianto continua ancora la fusione del nocciolo (tutto il resto del reattore è andato distrutto) con il conseguente inquinamento delle eventuali falde acquifere. A Fukushima, invece, si tenta di trattenere gas e fumi con acqua che viene precipitata sui fumi e sui gas, poi filtrata e immessa nuovamente in circolo (almeno in parte, mentre una quota non controllabile finisce dispersa nell’ambiente). Per evitare l’immissione in mare, delle acque usate per contenere le dispersioni di residui solidi radioattivi, invece, non si può fare niente (il divieto di pesca non può essere certo definita come una soluzione). Ma anche le resine scambiatrici non sono un sistema adeguato per filtrare la grande quantità di acqua inquinata prodotta e contenente residui radioattivi. Per cercare di porre rimedio, si sta, ora, pensando di mantenere attiva un’incredibile lastra di ghiaccio artificiale di circa 1,5 km che faccia da barriera invalicabile per il materiale radioattivo contenuto nei fluidi che fuoriescono dalla zona di fusione, ancora attiva, del nocciolo, e che ne impedisca la sua diffusione in mare.
C’è da chiedersi, allora, quanto costa questo nucleare, chi paga tutto questo, quale rapporto fra energia prodotta da questi impianti e quella spesa per tenerli in funzione e, poi, per dismetterli e, ora, per recuperare i danni dei forti e totali impatti generati sulle persone e sull’ambiente che dureranno per un lunghissimo periodo di tempo?
[vedi anche: Linguaggi nucleari, Il vero e il falso sul nucleare 1) l’equivoco del termine «reazione», in Parole nuove per l’ambiente, «Villaggio Globale», anno XIV, n.54, giugno 2011].

Non disponiamo quindi di conoscenze su meccanismi e processi deterministici, che permettano di controllare la trasmutazione, disponiamo, invece, solo di racconti già confezionati e finalizzati ad avvalorare l’idea di una sostenibilità e sicurezza (per la salute umana e per l’ambiente) degli impianti nucleari, sulla base di valutazioni teoriche e di sistemi di controllo e prevenzione (che in realtà perseguono solo una generica strategia di sorveglianza ridondante di un processo non definito nei suoi dettagli essenziali per il contenimento di eventi indeterminabili).

[vedi anche: Linguaggi nucleari, La questione nucleare, in Parole nuove per l’ambiente, «Villaggio Globale», anno XIV, n. 54, giugno 2011].

 

L’informazione sul nucleare civile e le comunicazioni sullo stato degli impianti e dei territori interessati

La trasformazione dell’uranio negli impianti nucleari i rischi e gli impatti sui territori

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Nella fissione nucleare dell’Uranio235, è di fatto ignota la dinamica dei processi e, quindi, sono anche ignote le valutazioni in merito a loro possibili, incontrollabili e ignoti, comportamenti, pur se definiti poco probabili o trascurabili. Sappiamo solo che si parte da una massa critica di Uranio, contenente l’isotopo235 (3-4% del totale), una quantità essenziale che, per l’instabilità di questo isotopo e per l’azione dei neutroni inizialmente liberati, attiva la scissione di altri isotopi dello stesso tipo, in atomi più semplici e libera quantità crescenti di nuovi neutroni che possono così attivare un numero, sempre maggiore, di nuove fissioni degli altri atomi di Uranio. Il numero sempre crescente di neutroni fa, dunque, proseguire questa fissione con sempre maggiore velocità e maggiore produzione di quantità di calore a temperature sempre più elevate, limitate solo dalla quantità di Uranio ancora disponibile nel corso del processo.

Sappiamo che la fissione nucleare non è una reazione chimica, ma è una trasformazione fisica degli atomi, nota come trasmutazione, che non è conoscibile, come invece lo sono le reazioni chimiche (che possono essere controllate in ogni attimo del loro evolversi per il determinismo, a noi del tutto noto, che caratterizza i loro processi).
Nel caso delle trasmutazioni nucleari sfugge alla nostra comprensione il meccanismo della trasformazione del materiale fissile. Sappiamo che avviene (conosciamo le sostanze iniziali e i prodotti finali), ma non sappiamo «come» questa trasmutazione avviene. Riusciamo, in modo precario, solo a controllare (se interveniamo entro certi limiti di tempo disponibili) la produzione del calore (assorbendolo, se è necessario, per evitare condizioni oltre le quali la trasmutazione non è più controllabile), ma non possiamo modularla per produrre le quantità variabili di energia elettrica richieste dagli utilizzatori.
Il reattore, raggiunto il punto critico di equilibrio instabile della trasmutazione e fin quando il controllo delle temperature si mostra efficiente, permette di trasferire al suo esterno, il calore generato, cedendolo ad uno scambiatore. In caso di necessità il reattore potrà essere solo fermato. In caso di allarme (per condizioni che potrebbero interferire con la tenuta dell’equilibrio instabile della trasmutazione) il reattore potrebbe non rimanere più nel suo stato critico, se il calore prodotto, si accumula al suo interno (per impossibilità di scambiare calore con l’esterno), e generare una produzione di neutroni sempre maggiore e non più controllabile con sistemi disponibili per rallentarli. In queste condizioni, il processo arriverà fino alla fusione del nocciolo (nel quale stava avvenendo la trasmutazione): da questo momento nessun intervento specifico sul processo sarà più possibile e si potranno attivare solo misure di emergenza generali (raffreddamento con acqua, del materiale che alimenta la trasmutazione in atto all’interno dell’impianto, e tentativi di contenimento del suo sversamento sul suolo e nelle acque utilizzate dall’impianto nucleare; misure per mitigare gli effetti del fallout radioattivo; misure di controllo sull’inquinamento di prodotti alimentari; misure per la difesa dei prodotti agricoli e della pesca; misure di sicurezza per la popolazione fino all’eventuale evacuazione di zone comprese fino ad un raggio di 80 Km dall’impianto nucleare; divieti di trasferimento in altri luoghi di materiali e prodotti inquinati; sospensione delle attività economiche all’interno delle zone con radioattività oltre i limiti consentiti; ma, poi, tutte le indicazione specifiche, su come realizzare queste misure di emergenza generali, in particolare gli interventi per la protezione delle persone e delle cose, sono lasciate a valutazione e responsabilità da decidere alle convenienze del momento).
In una trasmissione televisiva, sull’incidente di Fukushima, nella quale erano intervenuti esperti del nucleare e della sicurezza, erano questi stessi a meravigliarsi di quanto stava accadendo e veniva presentato in diretta: vapori e fumi che uscivano dalle strutture dell’impianto e dubbi sulle misure che venivano prese, erano causa di disorientamento nella valutazione delle migliori scelte possibili di intervento. In questi casi, per la natura e le conseguenze di un incidente nucleare che porta alla fusione del reattore, è evidente che si può solo cercare in tutti i modi possibili di raffreddare il materiale radioattivo (per evitare, alla fonte, il suo rilascio sul territorio e la sua dispersione in aria ambiente) e di evacuare la popolazione più a rischio e sperare bene per gli altri.
Per i fumi e vapori, contenenti materiale radioattivo immessi in aria ambiente, si può tentare di contenere il fallout con abbondanti innaffiamenti di acqua (che consente almeno di diminuire la massa di materiali radioattivi immessa in aria ambiente, catturandola e poi assorbendola su filtri che diventano, comunque, scorie radioattive solide e quindi più semplici da controllare). A volte, però, si ricorre anche a metodi che dire fantasiosi sarebbe poco. A Fukushima per esempio, per tentare di evitare lo sversamento di materiale radioattivo in mare si è pensato di creare e mantenere attiva una barriera di ghiaccio che arrivi in profondità, sotto il livello del mare, e da sviluppare per tutto il lungo tratto di costa interessato). A Chernobyl fu costruito un sarcofago di dimensioni incredibili, ma che già da alcuni anni sta mostrando i suoi limiti con la formazione di crepe dalle quali vengono immessi fumi e vapori, contenenti sostanze radioattive, in aria ambiente, con la conseguenza di continuare ad inquinare vasti territori e procurare conseguenti danni alla salute dei pochi o dei molti (soprattutto anziani) che hanno comunque deciso di non abbandonare i territori, del loro vissuto, compresi nell’area inquinata della centrale nucleare.

In merito alla gestione di un impianto nucleare, si sa la quantità di calore prodotta, il rendimento in termini di vapore prodotto e di energia elettrica immessa in rete, ma non si sa nulla sulle dinamiche che governano la trasformazione e che permetterebbero, fra l’altro, anche di modulare la quantità di calore e, quindi, l’energia elettrica prodotta. Non sono definibili, cioè, quei protocolli specifici, dell’eventuale processo deterministico associato a questo tipo di trasformazioni, che permetterebbero di adottare misure che escludano eventi oggi non prevedibili e quelli incontrollabili che avvengono in caso di incidenti, oggi, a noi ben noti (ma anche in incidenti forse non noti perché occultabili o ben occultati).
Gli interventi, in caso di incidente negli impianti nucleari, non possono offrire certezze e in questi casi si decide anche all’istante sulla base delle migliori misure che possono essere prese (man mano che il fenomeno della fusione del nocciolo procede nel suo incontrollabile percorso) per tentare di limitare i danni continui prodotti all’ambiente e alla salute umana.
Queste, dunque, sono misure dettate solo da esperienze vissute in precedenti incidenti, da intuizioni, da analogie, ma che non permettono di esercitare essenziali controlli e verifiche in tempo reale sui complessi fenomeni in atto. In pratica in queste situazioni si fa, soprattutto, ciò che si riesce a fare. È evidente che in queste condizioni un vero responsabile della sicurezza degli impianti nucleari non potrà mai essere individuato perché il concetto di responsabilità è strettamente connesso a procedure deterministiche da rispettare (che sono oggetto della responsabilità). In questi casi la presenza di un responsabile si prefigura come un falso ideologico: c’è un responsabile formale, ma non c’è la materia sulla quale può esercitare le proprie responsabilità. Non c’è responsabilità, infatti, se non sono disponibili informazioni del tutto esaustive per organizzare protocolli garantiti.
Tutto questo avviene perché mancano le conoscenze e i relativi strumenti che possono permettere di accertare step by step e senza ambiguità cosa avviene nel passaggio da Uranio235 arricchito, ai prodotti finali della sua trasmutazione. A parte, vi sono poi, come in tutte le altre attività umane, i fattori di rischio connessi a errori umani di gestione degli impianti, ma anche a cattive e incomplete progettazioni (infatti progetti perfetti, pur se fattibili, spesso non sono realizzati perché i loro elevati costi non rientrano nei limiti di spesa imposti). Errori umani o progettazioni approssimate possono essere anche causa di incidenti nucleari (è il caso del generatore elettrico, dell’impianto di Fukushima, che doveva alimentare i sistemi di sicurezza e che invece è stato reso inservibile a causa dell’inondazione).
Ma mentre ci affanniamo a comprendere come possano essere evitati incidenti in sistemi che pur hanno alle spalle condizioni precarie di equilibrio e conseguenze tragiche, sembra che il vero problema sia passato in second’ordine o cancellato del tutto. Sembra, infatti, che vi sia una rimozione condivisa soprattutto delle domande su «chi» decide scelte a danno degli equilibri vitali per la Terra e per i suoi abitanti e su «come» sia possibile portare a compimento, in assenza di sufficienti conoscenze e in nome di una precaria tecnologia, un elevato livello di rischio (come quello connesso ad un impianto nucleare) da far correre a intere comunità e territori e per più generazioni.
Chi dà il consenso per queste allucinanti avventure che impongono degrado fisico e psichico ad esseri umani sottomessi dalla decisione di insediare un impianto nucleare? Come si può sostenere la folle idea di una crescita infinita dei consumi e di una tecnologia che, come un fatale vaso di pandora, invadendoci con i suoi prodotti, precostituisce le condizioni per la disumanizzazione consumistica del mondo. Una disumanizzazione che, nella prospettiva ideologica del liberismo, sembra intenzionata a plasmare l’uomo per attribuirgli sofisticate capacità di consumo, di adesione all’ordine necessario per il libero mercato. Uno scenario già predefinito e funzionale non a favorire processi vitali e creativi, ma solo quella crescita di entropia che è frutto di un cattivo uso, fino alla distruzione, delle risorse naturali. Questa è la stessa crescita di entropia che caratterizza gli incendi, le distruzioni, gli stermini, gli egoismi del possesso delle risorse, tutte cose sottratte agli equilibri naturali e necessarie per dare risposte ai bisogni, anche futuri, dell’umanità.
Siamo, oggi, di fronte a un’allucinante avventura che prevede piani di sicurezza (per la popolazione coinvolta in caso di emergenze) che hanno dimensioni bibliche, praticamente inattuabili e quindi esistenti solo nelle carte dei «buoni» propositi. Per i casi più complessi, quelli che coinvolgono un elevato numero di cittadini (come è nel caso del nucleare), mancano piani di evacuazione, una reale valutazione degli impatti ambientali e sociali e un’analisi costo/benefici che verifichi il senso di una politica economica puntata solo alla crescita della produzione di energia per la crescita dei consumi. Una crescita che vede l’uomo ridotto al passivo ruolo di consumatore e che sembra invece finalizzata a favorire solo sciagurati profitti.
L’aumento della produzione di energia elettrica andrà ad alimentare, infatti, solo i mercati dei beni e servizi non necessari, ma resi artificiosamente obbligati in un sistema di sopravvivenza incatenato ad un ciclo produzione-consumo che si propone (e comunque può solo proporsi) di resistere fin quando non avrà consumato l’ultima risorsa disponibile. Il rischio, non è solo per l’economia reale (quella che oggi dà uniche prospettive di sopravvivenza ad un territorio), ma anche per la salute e la vita dei cittadini, per gli effetti dei lunghi tempi richiesti per un minimo recupero dei territori (bonifica e sostegno alla ricostituzione di equilibri naturali e degli ambienti fisici di vita, e dei tessuti socioeconomici), per i costi insostenibili a spese dei contribuenti (che sono però ottimi affari per le imprese finanziarie), mentre i profitti godranno dell’immunità per i disastri dei quali sono artefici.

La trasmutazione atomica

Il sistema finanziario globale

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A fronte di questa situazione che già espone la popolazione, l’ambiente e l’economia di un ampio territorio, agli inaccettabili rischi e conseguenze generati da sostanze radioattive, tossiche e nocive o letali per la salute degli esseri viventi e per la qualità della loro vita, c’è da prendere in considerazione anche un problema di altra natura e di dimensioni ben più ampie.

Siamo abituati ad associare la risoluzione di un problema a un intervento tecnico: di fronte a ogni problema, siamo portati a immaginare che siano necessarie competenze specifiche per individuarne la natura e provvedere automaticamente, poi e in modo efficace, alla sua soluzione. Ci sfugge, così, il valore politico delle scelte che sono a monte dei problemi. Siamo, cioè, indotti a dare per scontata una separazione fra tecnica e politica o, peggio, a ritenere che un intervento tecnico sia neutrale o addirittura automaticamente in sintonia con le scelte politiche che riteniamo di aver deciso democraticamente. Fino a qualche decennio fa, la tecnica e i suoi apparati tecnologici, erano presentati (e noi ne eravamo convinti) come ancelle di quello sviluppo economico necessario ed essenziale per dare sostanza al progresso umano. Purtroppo, dopo gli accordi, di fatto segreti, presi dalle consorterie economico-finanziarie a partire dalla fine della seconda guerra mondiale fino ad arrivare ad oggi e ancora oltre, le scelte non le propone la politica (cioè non le scegliamo noi, neanche indirettamente attraverso i nostri rappresentanti in parlamento), ma le impone un gruppo di interessi sovranazionale che ha fatto dell’ideologia liberista la chiave per riorganizzare il mondo.
Un modello semplice nel quale viene prodotta ricchezza a spese di un aumento di entropia senza limiti: vengono prodotti e messi sul mercato beni e servizi dissipando l’energia contenuta nelle risorse materiali utilizzate (un’energia non rinnovabile che va, quindi, verso l’esaurimento) e l’energia rinnovabile che con gli attuali livelli di consumo può offrire solo contributi parziali e che con la distruzione progressiva degli equilibri ambientali sarà sempre meno disponibile. Siamo in presenza di un’economia finanziarizzata che sul senso comune di un vivere a lei funzionale (nascere, avere successo con l’obiettivo di morire gloriosamente fra ricchezze e poteri) ha costruito il nostro ideale di società esclusiva e virtuale ridotta ad un gioco di produttori, di consumatori e di quei valutatori finanziari che promuovono o puniscono gli attori di questo sistema.
Siamo in presenza di un mondo finanziario che, in questo banale gioco, si sente investito del compito (che nessuno ha deciso) di giudicare l’efficienza del mondo (in realtà è un mondo che fa solo lauti e ingiustificabili profitti, emettendo dubbie sentenze e inappellabili condanne o approvazioni). Un sistema, quello finanziario, che non produce beni, ma impone all’economia reale, con minacce e ricatti inflessibili, servizi distruttivi e sempre efficaci, però, per i propri profitti. Infatti, piuttosto che finanziare le attività economiche (gestire il relativo rischio, come il suo compito istituzionale richiederebbe), saccheggia, con atti di pirateria speculativa, il valore dei beni e dei servizi frutto del lavoro umano. Un valore che teoricamente dovrebbe essere giudicato, pur con tanti limiti, dal mercato e non da questi predatori.
Il sistema finanziario globale, infatti, in nome del proprio profitto, bada solo a incentivare la massimizzazione di un devastante sistema di «libere» risorse da immolare a una crescita senza limiti dei consumi e dei relativi servizi e preordinare, così, quella devastante disgregazione, sociale ed economica, necessaria per creare più efficaci e deviate opportunità speculative. Una crescita che, invece, se fosse orientata da nostre consapevoli riflessioni, potrebbe promuovere fenomeni vitali e non consumi terminali delle risorse. Una crescita che potrebbe essere, cioè, in sintonia con la vitalità dell’ambiente e con gli equilibri naturali che ci accolgono e della cui fertile evoluzione facciamo parte.
Il nostro problema, allora, non è l’energia (che come sistema produttivo, da solo, non è in grado di fare scelte politiche che rispondano alle attese di progresso affidate a responsabilità umane) e tanto più non è quella nucleare, ma è, innanzitutto, la necessità di riacquistare quelle qualità politiche che permettono riflessioni, confronti e decisioni sul senso del nostro esistere. Tutto il resto, anche se oggi agita gli interessi e le preoccupazioni dei pochi favoriti e dei molti, plagiati dai sogni liberisti, è solo un insieme inerte di strumenti e strutture le cui potenzialità operative ed esecutive, pur se diffuse in tutte le società più avanzate, non hanno titoli, però, per decidere sul ruolo, la funzione e la sorte dell’umanità.
Non possiamo non prendere atto che, soprattutto in questi ultimi decenni, l’esercizio delle nostre qualità politiche è stato silenziosamente disattivato (mentre ci facevano distrarre con le giostre sempre più veloci dei consumi) e che le scelte venivano, invece, affidate a ciò che la tecnologia offriva in quel momento o che, addirittura, imponeva, a costi sociali e ambientali crescenti e con responsabilità improprie, tutte a nostro carico.

La trasformazione dell’uranio negli impianti nucleari i rischi e gli impatti sui territori

La «rivoluzione» energetica

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Oggi, al di là delle atrocità del «califfato» islamico, che monopolizzano l’attenzione non solo dei media, altri gravi rischi si sprigionano dal vaso di Pandora delle iniquità sociali, dei milioni di disperati migranti e della spoliazione della natura e delle sue risorse operata dall’uomo. In molti ormai sanno le risposte da dare, nuovi profeti della penultim’ora ce le raccontano dalle colonne dei giornali. Le diagnosi e l’elencazione degli interventi possibili non fanno però le soluzioni; di mezzo c’è la complessità delle società, i rapporti di forza tra le classi, la concentrazione dei poteri e la loro dinamica.

È sicuramente più di un barlume la prospettiva dei tre 20% al 2020 che si estende dalla Ue a tutti i Paesi del mondo. È nota la difficoltà di una trattativa mondiale che non ha precedenti di livello comparabile, tra Paesi che hanno interessi diversi e, come nel caso degli Stati Uniti una riluttanza, storica, ad accordi politici multilaterali.
È vero che alla Conferenza delle Parti di Durban del 2011 (CoP 17) un accordo globale è stato rimandato al 2015 e che, per di più, richiederebbe ai Paesi più forti di allargare di molto (almeno 100 miliardi di dollari all’anno) il modesto budget previsto a Cancún (CoP 16); ma è anche vero che gli obiettivi Ue per la mitigazione degli effetti del global warming sono divenuti il centro del dibattito e un punto di riferimento per i Governi di tutto il mondo, e non è infondata la speranza che la Conferenza delle Parti prevista a Parigi per dicembre di quest’anno, CoP 21, abbia un esito positivo con l’assunzione di ben determinati impegni.
La speranza si alimenta di quel 19%, il dato di copertura dei consumi già conseguito al livello mondiale dalle fonti rinnovabili, dei buoni risultati ottenuti dalla Ue rispetto ai tre 20%, degli accordi bilaterali (fra Stati Uniti e Cina, fra Russia e Cina) che sono proceduti in questi anni e del recentissimo impegno assunto dall’amministrazione degli Stati Uniti di ridurre del 32% le emissioni carboniose entro il 2030 (anche se solo rispetto al 2005).
È una vera e propria «rivoluzione» energetica, il primo grande passo per abbandonare l’attuale modello ad alta concentrazione d’energia, responsabile della più grave delle crisi che dobbiamo fronteggiare, quella del clima, per fonti energetiche diffuse nel territorio e più controllabili e accessibili ai cittadini, come dimostrano anche le interessanti esperienze in corso di autogestione.
Ed è anche il primo necessario passo verso una più generale trasformazione che affronti accanto alla crisi ecologica quella economica, tentando di ridurre le colossali distorsioni economico-sociali e le inaccettabili ingiustizie alimentate dal dominio di una finanza senza regole e centrate sui parametri quantitativi del potere.
In generale, un passaggio «dalla quantità alla qualità», che configura una tutt’altro che scontata evoluzione del capitalismo verso modelli di produzione e di società più aperti alle esigenze di partecipazione dei cittadini, meno predatori e più attenti alle risorse della natura e ai suoi cicli. Il primo grande progetto «universalista», per mitigare fortemente l’insostenibile modello economico-sociale dominante, che ha prodotto le due crisi: quella ecologica e quella economica.
Sembra quasi echeggiare lo spirito che subito dopo il secondo conflitto mondiale ispirò nelle Nazioni unite i principii della «carta di San Francisco» sui diritti dell’uomo. E la recente enciclica «Laudato si’», nel capitolo dedicato a «La radice umana della crisi ecologica», assegna agli uomini proprio il compito di una coraggiosa rivoluzione culturale, da compiere nel contesto di quella che ormai da un quarto di secolo il movimento ambientalista ha proposto come conversione ecologica dell’economia e della società.

Conclusione

Il nucleare dopo Fukushima è finito. Il permanere di una crisi economica, che contagia ormai anche il gigante Cina, rende ancora più improbabili grandi stanziamenti pubblici, senza dei quali non esistono centrali nucleari, a favore di una tecnologia complessa ma «più vecchia dei transistor» (già, chi era costui?) e con irrisolti problemi: oggi, anche per l’Italia (5), risuona quello della gestione delle scorie con tempi di dimezzamento di decine di migliaia quando non di milioni di anni.
Proprio il dramma di Fukushima mostra il mito di Prometeo sempre più come un portato arcaico della cultura umana, forse in procinto di sgretolarsi e frantumarsi. Sarà anche intrinseco all’avventurosa escalation accennata all’inizio, quel procedere della conoscenza umana secondo il metodo «trial and error»; ma si dovrà chiedere più sapere e consapevolezza sui trial, e una riduzione degli error sempre maggiore: scienza e tecnologia si impegnino, questo è oggi un obiettivo possibile. Siamo forse alle soglie del superare l’angosciosa profezia di Einstein, che vedeva nell’era atomica che si era appena aperta il preludio di una «catastrofe senza fine»; perché è sempre più chiaro che la risposta alla più grave crisi che ci minaccia, quella dei cambiamenti climatici, è proprio nel passaggio dall’era atomica all’era solare.

 

Massimo Scalia, professore di Fisica Matematica al Dipartimento di Matematica dell’Università La Sapienza di Roma

Anche i numeri sono importanti

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Caso italiano a parte, poi, già cinque-sei anni fa, cioè prima del disastro di Fukushima, autorevoli studi internazionali davano al nucleare pochi decenni di vita. Per quegli studi, quelle cifre, più alcune nostre valutazioni, rimandiamo a (1). Tra i molteplici fattori alla base di quelle previsioni uno ne va sottolineato, veramente nuovo rispetto al dibattito, un po’ stantio, che si svolge da almeno trent’anni: la concorrenza avvertibile e crescente di strategie energetiche e di settori industriali rivolti al risparmio e alle fonti rinnovabili.

Per contro, dopo la tragedia di Fukushima quale governo potrà mai autorizzare il prolungamento delle attuali centrali atomiche oltre i 40 anni, come l’industria nucleare propone? Non ha già nel 2009 il Senato del Vermont respinto una delle prima richieste in questo senso avanzata dalla società esercente la centrale nucleare di quel piccolo Stato degli Stati Uniti? Non ha già la Germania deciso di chiudere tutte le sue centrali nucleari entro pochi anni, nel 2022? Non hanno poi i reattori cosiddetti «provati» dato una prova di sé (i 123 chiusi entro il 2010 avevano avuto una vita media inferiore a 23 anni, altro che 40!) tale da configurare come una dissennata sfida alla sicurezza il volerne prolungare l’esercizio? Proprio quest’anno 91 reattori, in tutto il mondo, compiranno 40 anni e in questo totale declino dell’industria nucleare (4), nel contesto della generale perdurante crisi economica globale, quale governo disporrà dei rilevanti stanziamenti pubblici necessari per contenere, almeno un po’, quel declino?
Forse accadrà che qualcuno comincerà allora a pensare che, caso mai, è necessaria una nuova ricerca, una nuova Fisica del reattore.
A dir la verità lo scrivere queste righe è motivato solo dal fatto che il tema del nucleare l’ha proposto il direttore di un periodico, il «Villaggio Globale», che tanti meriti ha acquisito nell’accendere il riflettore su molti settori scientifici trascurati o derisi dall’«ufficialità».
La fissione nucleare, così com’è, lungi dall’essere «la» soluzione dei problemi energetici (come veniva proposta nei primi anni 60 quando, studente di Fisica, andavo a intervistare Felice Ippolito, presidente del Cnrn, l’Enea di oggi) è andata molto al di sotto delle previsioni, che pure sono state alimentate per tutti gli anni 80. Il rapporto 2014 dell’Iea (l’Agenzia internazionale dell’energia dei Paesi dell’Ocse) quantifica nel 4,8% l’apporto del nucleare al fabbisogno di fonti primarie, una cifra in costante calo dal 2000; quanto lontano da quel 15-20% che, ad esempio, i rapporti della Ford Foundation prevedevano negli anni 80.
E poiché l’uso del nucleare civile è pressoché esclusivamente elettrico, la cifra che riguarda la copertura dei consumi è ancora più modesta, l’1,6%; e, guardando alla produzione elettrica, quella nucleare si è ridotta a due terzi di quella idroelettrica: 2.471 contro 3.672 TWh.
Per capire meglio la sostanziale irrilevanza del nucleare rispetto alle altre fonti, ma, soprattutto, i trend in atto in tutto il mondo, è il caso di fornire qualche altro dato. Quelli di seguito riportati sono tratti dal rapporto annuale 2015 «Global Status Report – REN 21», GSR, la più completa raccolta di dati e di analisi sulle prospettive delle fonti rinnovabili.
Nel 2013 la quota di consumi energetici totali coperta in tutto il mondo da fonti rinnovabili, idro inclusa, superava il 19%, con il 9 % di biomasse «tradizionali» e il 10,1% di rinnovabili «moderne»; e alla fine del 2014 le fonti rinnovabili, idraulica inclusa, rappresentavano il 23% dei consumi elettrici mondiali.
Alla fine del 2014 la potenza totale delle fonti rinnovabili ascendeva a 1.712 GW (1 miliardo e 712mila kiloWatt), così ripartiti: 1.055 idraulica, 433 da biomasse, 370 eolica, 177 fotovoltaica; cui vanno sommati 406 GW termici per il riscaldamento dell’acqua con pannelli solari. La crescita delle rinnovabili nel 2014 ha rappresentato il 58,5% della potenza globale che si è aggiunta nel corso dell’anno: un incredibile incremento che relega l’insieme di tutte le fonti fossili (petrolio, carbone e gas) a rappresentare neanche il 40% della nuova capacità energetica resa disponibile nel 2014.

Quel trend è stato scandito e reso possibile, negli ultimi dieci anni, dall’aumento vertiginoso di nuovi investimenti in tutto il mondo: dai 40 miliardi di dollari del 2004 ai 279 del 2011 e, nonostante un successivo calo indotto dalla crisi, di nuovo 270 miliardi nel 2014. In questo contesto l’Unione europea ha avuto un ruolo trainante, dai 23,6 miliardi di dollari del 2004 ai 120 del 2011; ruolo che ora è passato alla Cina con oltre 83 miliardi di dollari nel 2014. Sempre nel 2014 Asia e Oceania, esclusa la Cina e l’India, con 48,7 miliardi di dollari hanno fatto di più degli Stati Uniti (38,3 miliardi); e assai importanti sono stati anche gli investimenti operati dai Paesi in via di sviluppo, che nel 2014 hanno superato nel settore eolico quelli dei Paesi sviluppati: 58 miliardi di dollari a fronte di 41.
E infatti il Gsr sottolinea fin dalle prime battute dell’Executive Summary: «Sebbene l’Europa rimanga un mercato importante e un centro di innovazione, l’attività continua a spostarsi verso altre regioni. Nel 2014 la Cina ha di nuovo occupato il primo posto nel mondo per l’installazione di nuova potenza rinnovabile, e Brasile, India, e Sud Africa hanno inciso per una gran parte della capacità aggiuntiva nelle rispettive regioni. Un crescente numero di Paesi in via di sviluppo attraverso Asia, Africa e America Latina sono divenuti importanti produttori e installatori di tecnologie per l’utilizzo dell’energia rinnovabile».
Ai primi del 2015, sono 164 i Paesi che si sono dati obiettivi nel campo delle rinnovabili e 145 quelli che agli obiettivi hanno fatto corrispondere politiche e stanziamenti per conseguire gli obiettivi, rispetto ai 15 del 2005.
Messi da parte i rancorosi argomenti degli «scettici», sul terreno dei fatti il mondo è già oggi sotto appena dell’1% rispetto all’obiettivo che la Ue si era data al 2020! Conseguenza di questo trend sono i circa 8 milioni di posti di lavoro censiti nel 2014 nei vari settori delle rinnovabili, poco meno della metà dei quali nelle applicazioni dell’energia solare. L’innovazione tecnologica è tradizionalmente «labour saving», non così è stato per le fonti rinnovabili, la cui ricaduta occupazionale non ha precedenti di ugual intensità nella storia del lavoro contemporanea.
Anche nella UE-28 il livello medio di copertura dei consumi finali d’energia con fonti rinnovabili era nel 2013 pari al 15% rendendo più che credibile il raggiungimento del 20% al 2020; per l’Italia le rinnovabili rappresentavano il 17% dei consumi finali, cioè l’obiettivo fissato per il Paese al 2020, e il 31% dei soli consumi elettrici, cioè più del 26% fissato per l’Italia sempre al 2020.

Massimo Scalia, professore di Fisica Matematica al Dipartimento di Matematica dell’Università La Sapienza di Roma

La «rivoluzione» energetica

I tre 20% al 2020

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Di nucleare si parla, ormai francamente sempre meno, in rapporto alle politiche energetiche. Oggi, ogni valutazione e discussione su scelte e strategie energetiche rischia di essere fatua se non fa riferimento al contesto nel quale vanno attuate, che è il dato drammaticamente nuovo: il passaggio dalla stabilità all’instabilità dei cicli climatici, il quadro degli sconvolgimenti che da vari anni stiamo già vivendo.

Sull’esigenza di tenere assolutamente presente il collegamento tra energia e cambiamenti climatici si è pronunciata la comunità scientifica internazionale attirando l’attenzione dei «grandi» ai G8 del 2005 e del 2006 (2a, 2b) e richiedendo ai governi una «prompt action» (2a), cioè un’azione immediata proprio per far fronte ai cambiamenti climatici. Basti pensare che negli ultimi 50 anni c’è stato un incremento di concentrazione di CO2 in atmosfera della stessa entità che nella storia del clima aveva richiesto in media 5.000 anni! Questa contrazione nel tempo, di circa cento volte, è una misura certa di quella che in Climatologia viene chiamata «azione forzante» e che ha condotto dalla stabilità all’instabilità climatica (3). È il passaggio che stiamo già vivendo, infinite le prove sperimentalmente verificate, drammatiche le conseguenze.
E già nel 2007 l’Unione europea dà una risposta molto significativa alle sollecitazioni della comunità scientifica internazionale: i tre 20% al 2020. L’impegno, entro quella data, a ridurre del 20% rispetto al 1990 le emissioni di CO2, a ridurre del 20% i consumi finali d’energia e a coprire il 20% dei consumi finali con fonti energetiche rinnovabili. Da sottolineare che gli ultimi due obiettivi riguardano i consumi totali d’energia, che sono assai di più dei soli consumi elettrici. Gli obiettivi europei, che inizialmente venivano criticati: «Ma che cosa possono poi fare i tre 20% su scala globale, se restano un obiettivo della sola Unione europea?», sono invece diventati già con le Conferenze di Copenhagen (2009) e di Cancun, alla fine del 2010, il riferimento per tutti i governi impegnati nella lotta ai cambiamenti climatici; con il rigetto dei 200 Paesi partecipanti di ogni posizione «negazionista» sulla gravità dei cambiamenti climatici.
Preoccupazioni e moniti sono risuonati da più parti, illuminanti le parole che nel settembre 2009 José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, rivolse al summit dei leader del mondo, riuniti a New York in sede Onu proprio in preparazione di Copenhagen: «Il clima sta cambiando più velocemente di quanto si prevedesse anche solo due anni fa. Continuare a comportarci come se niente fosse equivale a rendere inevitabile una trasformazione pericolosa, forse catastrofica del clima nel corso di questo secolo».
Il problema quindi è posto in modo molto chiaro: le strategie energetiche devono puntare su quelle soluzioni che sono maggiormente in grado di ottenere risultati nel più breve tempo possibile. E tra le risposte da dare non c’è il nucleare, la morale è: «chi ce l’ha se lo tenga», ma, nonostante le pressioni e i molteplici tentativi di inserirlo, il nucleare non compare come scelta per far fronte ai cambiamenti climatici né tra gli obiettivi della Ue né negli accordi di Cancún o di Durban.
A partire dal 2008 il governo italiano si muove invece in direzione opposta, verso una tecnologia del passato (1). L’intesa Berlusconi–Sarkozy e i provvedimenti legislativi conseguenti puntano a un piano nucleare basato sul reattore francese Epr, che è un reattore ad acqua pressurizzata (Pwr) di 1.600 MW di potenza, prodotto dal gruppo industriale Areva. Quindi davvero una brillante scelta di politica economica: finanziare con soldi italiani un’industria francese, Areva, per di più di Stato!
Un’altra cartina al tornasole, en passant, del «liberismo» proclamato da Berlusconi, i cui governi si sono invece contraddistinti, come quelli della destra in Grecia, per il rigonfiamento della spesa pubblica a un livello tale che fu poi alla radice, proprio non molti mesi dopo Fukushima, delle dimissioni del suo ultimo governo. Certo, ci fu anche una manovra speculativa, ma solo uno sprovveduto provinciale poteva non sapere che gli assalti al debito sovrano dei Paesi economicamente più fragili, nel dominio di una finanza incontrollata, sono uno degli sport più praticati. Poi, ovviamente, all’ottuso populismo dei fan si potrà continuare a raccontare la stroppoletta della congiura europea, assecondata da Napolitano e capeggiata, peraltro, dagli ex amici Merkel e Sarkozy, apparsi come oltraggiosi derisori in una ripresa video, una sorta di gag divenuta un tormentone mediatico.
Già, Sarkozy e gli abbracci e le pacche sulle spalle nell’incontro che all’Eliseo doveva definire l’accordo nucleare; ma quali sarebbero stati i costi? Sulla base delle offerte che Areva ha avanzato, proprio mentre i premier si scambiavano quelle affettuosità, cioè nelle gare del 2009, confermate poi nel 2010, i primi quattro Epr sarebbero venuti a costare oltre 32 miliardi di euro per una produzione elettrica che il governo stesso di allora dichiarava non disponibile prima del 2020, e con molto ottimismo (vedi la vicenda di Olkiluoto-3). Questa spesa, tutta a carico dello Stato, sarebbe da subito andata a gravare sulle bollette dei cittadini per coprire gli oneri finanziari dei prestiti per il capitale necessario, dei quali il governo avrebbe assunto l’onere. Tutto questo per assicurare a quella data un 3% dei consumi finali d’energia e diecimila posti di lavoro, soprattutto nei 6-8 anni di cantiere.
Per fortuna era poco più di un castello di carte, che gli italiani si sono incaricati di mandare all’aria col referendum del 2011, la seconda volta in un quarto di secolo. Quanto ai costi, per citare un solo esempio, con la metà dell’investimento richiesto per i quattro Epr il «Piano straordinario di efficienza energetica 2010–2020», che venne presentato da Confindustria nel settembre 2010, dopo anni di colpevole disinteresse, prevedeva oltre 51 Mtep di risparmio (è il 20% richiesto dalla Ue) con una conseguente riduzione di 207,6 Mton di CO2 (una riduzione superiore all’obiettivo Ue): una strategia il cui impatto socio-economico veniva valutata dal Piano in circa 1,6 milioni di posti di lavoro sull’arco del decennio.
È vero, di quel Piano non se ne è poi fatto niente, nonostante fosse diventato addirittura un «avviso comune» di Confindustria, Cgil, Cisl e Uil; ma quando nella primavera del 2012 le «parti sociali» andarono al confronto col governo Monti in nome del «secondo tempo», quello che dopo le mazzate del rigore avrebbe dovuto puntare al rilancio economico, il Piano fece la stessa fine che fa sempre il «secondo tempo»: sparì nel nulla. I meglio informati sostennero che la stessa «genitrice», Confindustria, non aveva voluto dar credito al suo «figlio», e vale la pena parlarne perché ancor oggi sembra che esso faccia un timido capolino tra le perforazioni di trivelle e i fumi degli inceneritori, che caratterizzano i progetti energetici del governo Renzi, in questo non troppo dissimile da quelli che l’hanno preceduto.
È vero poi che anche gli incentivi alle fonti rinnovabili hanno gravato e gravano sulle bollette degli italiani, ma in misura significativa solo negli ultimi anni, mentre per oltre tre lustri sono stati largamente maggioritari gli incentivi elargiti alle fonti fossili. Una vera vergogna incentivare sistemi energetici maturi da più di cinquant’anni, va ricordato a chi strilla contro gli incentivi alle rinnovabili, in campo da meno di vent’anni; una vergogna resa possibile dal famigerato Cip 6 (1992), che ha protratto le sue truffaldine finestre su tempi incredibilmente lunghi.
Insomma, le cifre riportate fanno ben capire che non si tratta di guerre di religione, ma di doveroso realismo, nei confronti di chi, in buona fede ma disattento alla volontà degli italiani espressa ben due volte e con grande nettezza, si attarda ancora a sostenere la compatibilità dell’uso efficiente e delle rinnovabili con il ricorso al nucleare: l’impegno finanziario, economico, industriale e organizzativo nel nucleare è alternativo a quello per il risparmio energetico e le fonti rinnovabili. Al di là di ogni altra considerazione sulla sicurezza, sui rischi della contaminazione radioattiva, sull’obsolescenza nonostante gli imbellettamenti della tecnologia di fissione, non è davvero l’Italia, ancora pesantemente vincolata da una grave crisi economica, che ha le risorse per mandare avanti tutte e due le strategie.

Massimo Scalia, professore di Fisica Matematica al Dipartimento di Matematica dell’Università La Sapienza di Roma

Anche i numeri sono importanti

L’incidente di Fukushima e la sicurezza nucleare

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Alcuni autorevoli commentatori presentarono, all’epoca, l’incidente di Fukushima come figlio dell’azione devastante del terremoto e dello tsunami, e poiché neanche una società tecnologicamente molto avanzata come quella giapponese è in grado di fronteggiare gli eventi estremi della natura ne concludevano che si deve rinunciare al nucleare. Certo, sembra una pazzia realizzare centrali nucleari in un’area come quella giapponese, dove si scontrano quattro placche tettoniche, sicura garanzia di terremoti devastanti. Ma un’analisi più attenta di quel che è successo mette in discussione le premesse di quella conclusione. Infatti, gli edifici della centrale atomica hanno retto al terremoto (i tetti sono saltati per l’esplosione delle bolle di idrogeno formatesi con l’inarrestato progredire del surriscaldamento dei noccioli dei reattori) e le tremende accelerazioni subite dalle strutture dei reattori, causa sicura di gravi lesioni future soprattutto a causa dei fenomeni di risonanza, avrebbero però dispiegato nel tempo gli effetti di rischio.

Che cosa andò storto allora, che cosa portò alla fusione dei noccioli? Si deve risalire al lay out dell’impianto, in particolare alla cattiva disposizione dei servizi ausiliari d’emergenza, che, non adeguatamente protetti e investiti dall’onda dello tsunami (come documentato da vari video che riprendevano l’evolversi dell’incidente) non poterono entrare in funzione quando avrebbero dovuto; quando cioè il black out elettrico della rete di trasmissione elettrica, causato questo sì dal terremoto, mise fuori uso gli ordinari sistemi di raffreddamento del nocciolo del reattore. E fa riflettere anche il fatto che il molo di protezione nel porto a servizio della centrale fosse alto solo sei metri, quando proprio la Tepco aveva documentato un terremoto della stessa magnitudo di quello dell’11 marzo 2011, avvenuto nella stessa area 115 anni prima con un’onda di tsunami alta più di 10 metri.
Insomma, il riferimento allo scatenarsi delle forze incontrollabili della natura rischia di essere un esercizio retorico se non si tiene conto della sciatteria progettuale (lay out) e della vocazione a tirare giù i costi (l’altezza del molo) che travalicano, non davvero solo in Giappone, ogni aprioristica esaltazione dell’eccellenza tecnologica raggiunta da una società.
Quanto agli effetti sanitari, aspetto di gran lunga più rilevante, la tragedia di Fukushima, con i livelli di radioattività registrati al suolo e nel mare, con i duecentomila cittadini evacuati nel raggio dei venti km, verdure e ortaggi contaminati nel Giappone del Sud a centinaia di km dalla centrale, con lo Iodio nell’acqua potabile di Tokyo, consente purtroppo di affermare che le vittime delle radiazioni saranno nel corso degli anni molte di più di quelle del terremoto e dello tsunami. Gli effetti somatici della radioattività (cancri e leucemie) hanno un carattere statistico, sono tanto più estesi quanto maggiore è il numero delle persone esposte.
È come un’arma che ruota sparando in mezzo alla folla, non si sa chi verrà colpito, ma le vittime ci saranno e saranno tante più quanto più numerosi sono i presenti. E quelle migliaia di vittime che farà la radioattività, ancora ogni anno sull’arco di almeno trent’anni, non le vedrà nessuno, né ci potranno mai emozionare come le immagini che ci riportavano i corpi senza vita travolti dalle onde dello tsunami.
Ma, al di là di Fukushima, quali sono i livelli di sicurezza raggiunti dalla tecnologia nucleare?
All’alba dell’era del predominio del petrolio, 1960, le agenzie internazionali dell’energia riportavano il dato della produzione nucleare: 1 Megatep (= 1 milione di tonnellate di petrolio equivalente). Nel giro di poco più di un decennio una tumultuosa crescita degli ordinativi portò quel dato a ben 146 Megatep. Già, ma che cosa aveva consentito quella formidabile espansione?
Certo, Atoms for peace, la campagna lanciata nel 1953 da Eisenhower, un altro storico esempio di serendipity: nata con l’intento di arrestare l’escalation atomica che era iniziata con l’Urss divenne la bandiera della nascente industria nucleare, un ottimo slogan per rimuovere all’insegna del progresso la terrifica immagine del fungo di Hiroshima. Certo, l’esigenza di ripianare in parte con la vendita del kWh gli enormi costi pubblici affrontati, negli Usa, ma anche in Canada e nel Regno Unito, per l’esperienza militare.
Il solo progetto Manhattan, che era arrivato a impiegare la bellezza di 130mila persone, era costato due miliardi di dollari di allora, pari a 26 miliardi di oggi. O anche la «grandeur» (è il caso della Francia) di avere tutto atomico, l’elettricità e la propria bomba, senza dover dipendere dagli altri. Ma è indubbio che il passaggio dal nucleare militare a quello civile (peraltro tecnologicamente troppo «frettoloso») avvenne sull’onda del dogma della sicurezza nucleare: comunque grave sia l’incidente alla macchina, neanche una particella radioattiva deve uscire dallo schermo più esterno di contenimento della radioattività. Poi, l’incidente di Three Mile Island (TMI) ad Harrisburg, 28 marzo 1979, con oltre venti tonnellate di uranio fuoruscite dal reattore, rilasci radioattivi incontrollati al di fuori della centrale e 140mila cittadini evacuati, volontariamente, dall’area delle 5 miglia.
Il 26 aprile 1986 si aggiunge il dramma di Chernobyl, il dogma si spezza, e la stessa Iaea (International Atomic Energy Agency), l’Agenzia delle Nazioni Unite per il nucleare, inventa la scala Ines per la classificazione della gravità degli incidenti nucleari, introducendo per la prima volta la distinzione tra catastrofe «locale» e catastrofe «globale». Sorge immediata la domanda: ma il nucleare si sarebbe mai affermato, con quell’impressionante trend di crescita tra gli anni 60 e i primi anni 70, se riguardo alla sicurezza fosse stata proposta quella distinzione?
Per segnalare inoltre che alla scala Ines non rinunciano davvero i reattori cosiddetti di terza generazione «avanzata» o «III+». Gli innegabili miglioramenti ingegneristici che si sono avuti con la «III+» non sono infatti in grado di rispondere agli irrisolti problemi del nucleare, in quanto sono stati apportati a quella tecnologia di fissione dell’Uranio, che, trasposta di peso alla produzione elettro-nucleare dai laboratori e dalle esperienze per le armi (con la già menzionata «frettolosità» spinta dall’esigenza di ripianare parte delle colossali spese per gli arsenali atomici) non poteva certo avere tra le sue priorità sicurezza, protezione dalla contaminazione radioattiva e adeguata gestione delle scorie. Per questo il Nobel della Fisica, Carlo Rubbia, ha liquidato la terza generazione «avanzata» come una «operazione di cosmesi»; e il proliferare di termini che vorrebbero accreditare una sicurezza che non c’è fa venire in mente la massima di Goethe: «quando mancano i concetti nascono le parole».
In ogni caso, di reattori Epr come quelli che l’industria di stato francese, Areva, voleva rifilare all’Italia e che a tutt’oggi definisce nella sua home page come «il primo della generazione “III+”», ce ne sono solo tre in costruzione in tutto il mondo: per il primo, «Olkiluoto-3» in Finlandia, era prevista l’entrata in esercizio entro il 2010 e un costo di 3,2 miliardi di euro; l’ultimo rinvio annunciato prevede la sua messa in parallelo per il 2018, e, nel dicembre 2012, il «Wall Street Journal» riportava che Areva prevedeva un aumento del costo a 8,5 miliardi di euro. Per un’analisi tecnica delle caratteristiche dei vari tipi di reattori «III+» e, in particolare, dei gravi ritardi e del rilevante aumento dei costi in corso d’opera degli Epr, ci permettiamo di rimandare a un nostro testo (1).
Vale la pena rilevare che le fusioni avvenute nei reattori di Fukushima, che sommate a quella di TMI e senza neanche metterci Chernobyl a causa della sua diversa tecnologia fanno almeno quattro, ridicolizzano le stime che l’Iaea avanzava ancora nelle conferenze di Columbus (Ohio) e di Roma del 1985, cioè dopo TMI: la probabilità di un danneggiamento grave con inizio di fusione, quello che in Italia all’epoca veniva pudicamente chiamato «rischio residuo», veniva confermato in 10-5 – 10-6 reattori per anno (un incidente all’anno per ogni centomila/un milione di reattori funzionanti). Il dato di fatto (il numero di reattori in esercizio è cresciuto fino a un massimo intorno a quota 440) è invece un incidente di quel tipo ogni cinquemila reattori per anno, cioè venti volte più frequente rispetto alle stime Iaea del 1985! Questi numeri sono lo scheletro impietoso nell’armadio dei rapporti tra scienza, tecnologia, aspettative dell’uomo della strada, pressioni delle lobby e delle cricche, manipolazione della comunicazione, democrazia delle decisioni nella società tecnologica.

Massimo Scalia, professore di Fisica Matematica al Dipartimento di Matematica dell’Università La Sapienza di Roma

I tre 20% al 2020

Note

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(1) Gianni Mattioli e Massimo Scalia: «Nucleare. A chi conviene? Le tecnologie, i rischi, i costi». Edizioni Ambiente. Milano. 2010

(2a) «Joint science academies’ statement: Global response to climate change», 7 giugno 2005. È lo statement rivolto al G8 di Gleanagles dalle Accademie delle Scienze dei Paesi del G8, più quelle di Cina, India e Brasile.
(2b) «Joint science academies’ statement: Energy Sustainability and Security», 14 giugno 2006. È lo statement rivolto al G8 di S. Pietroburgo. Entrambi sono reperibili on line.
(3) Uno rapporto molto approfondito sul passaggio all’instabilità climatica, basato su studi e su oltre dieci anni di campagne di misure, in Antartide come nel golfo di Maracaibo, è stato presentato nel 2002 dal National Research Council della National Academy of Science degli Stati Uniti. Il rapporto, intitolato: «Abrupt Climate Change. Inevitable Surprises», ha avuto sicura eco negli statement riportati in (2).
(4) È nel rapporto 2001 che l’Iaea già lamenta il declino del nucleare in tutto il mondo: «L’entrata in linea di sei nuovi reattori nel 2000 rappresenta solo il 3% circa della capacità aggiuntiva globale di produzione di elettricità nel 2000. Le proiezioni mostrano che questo andamento è atteso anche per il prossimo futuro, nel qual caso la quota di energia elettronucleare prodotta andrebbe in declino nel prossimo decennio». Da allora per il nucleare è andata ancora peggio.
(5) Con il recepimento della Direttiva UE 70/11 tramite il D.lgs n. 45/2014 sono stati messi a punto gli strumenti normativi per il decommissioning degli impianti nucleari. Agli incredibili ritardi cumulati a causa del Decreto «Scanzano», che nel 2003 causò la giusta ribellione di tutta la Basilicata, e poi del tentativo di rilancio del nucleare nel 2008, si aggiunge adesso quello del Governo che non ha ancora presentato in sede Ue il richiesto Programma nazionale, cornice di tutti gli altri interventi. Si è però conclusa la procedura per la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) a ospitare il deposito dei rifiuti radioattivi di 1^ e 2^ categoria, proposti dalla Sogin e verificati da Ispra; spetta adesso ai Ministri competenti renderla pubblica, per le osservazioni previste da parte degli stakeholder. Non è stata ancora costituita la nuova autorità per la sicurezza nucleare, Isin, a presiedere la quale il Governo aveva proposto una persona priva delle competenze previste dalla legge e per di più indagata; ha dovuto fare un passo indietro.

In conclusione, cosa si può fare prima che sia troppo tardi

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Sicuramente dobbiamo rispondere al prossimo bando preannunciato dal vice Direttore, con una riedizione aggiornata di Saner. L’inclusione di tutte le sorgenti di energia, oltre al nucleare, rientrava già nelle nostre intenzioni: soprattutto le fonti fossili hanno avuto un ruolo pesante nella nostra rinunzia al nucleare, e la loro innovativa inclusione nel prossimo bando della Commissione integra perfettamente la nostra storia e la sua comparazione con le storie degli altri Paesi. Nell’idroelettrico, che è sempre stata e tuttora rimane la prima delle rinnovabili, l’Italia è stata in epoca giolittiana il secondo Paese al mondo, dopo gli Usa. Nessuno qui è contro le rinnovabili, contro nessuna di esse, purché le si usi lealmente fra i Paesi membri, Francia Belgio e Catalogna compresi. L’indagine demoscopica comparata di Saner acquista ancora più senso alla luce dei recenti sviluppi. Però, edotti dall’esperienza del bando precedente, non possiamo lasciare che l’Italia resti ferma così al palo. Bisogna costituire in Italia una rete di esperti che inizi comunque a confrontarsi con gli attori qui brevemente richiamati. Salvo un giovane, promettente storico fiorentino, ero l’unico italiano al seminario di Stoccolma. Enea non paga più queste trasferte ai suoi dipendenti, né lo fa alcun’altra amministrazione pubblica italiana. O privata, nonostante che le nostre imprese siano letteralmente e concretamente saccheggiate da questo contesto, se lasciato agire indisturbato.

Ci sono le condizioni per confidare che basta disporsi con determinazione su questo fronte per fare cessare il saccheggio. La città da cui provengo, Cuneo, ha subìto paziente (così l’aveva definita anche Carducci) una lunga serie di invasioni ed assedi da parte dei francesi, limitandosi ad abbassare i suoi portici per ripararsi dalle ricorrenti cannonate. Dopo che fu costruito il Forte Albertino a Vinadio, quelle invasioni cessarono. E non vi fu mai bisogno neppure di armarlo propriamente quel Forte: bastò avere la faccia tosta di piazzarlo lì, con dentro qualche giovane di leva, non so se davvero anche Totò, ma mio padre mi disse di esserci stato, nel 1920. Avendo rappresentato, per tanti anni, prima i miei colleghi, poi tutte le professioni italiane ed europee a Bruxelles ed a Strasburgo, posso testimoniare che questa semplice mossa funziona: fa capovolgere radicalmente le direttive se erano state male impostate da parte della Commissione, con accoglimento di tutti, ma proprio tutti gli emendamenti. Parigi ospiterà la conferenza Onu sul clima, e sappiamo cosa avranno predisposto le imprese francesi «amont». Noi stiamo preparando sul tema una riunione al Cnr, cui inviteremo imprese, Governo, diplomazia, per provare ad assumere un atteggiamento corrispondente anche da parte nostra.
E dobbiamo lavorare bene dal primo momento in cui il bando uscirà nell’autunno, tutti insieme, senza dividerci pregiudizialmente fra ecologisti, come tutti siamo, e vetero-industrialisti, come nessuno è più. Così possiamo arrivare a presentare in primavera un progetto approvabile. E, se tutto va bene, il kick-off meeting lo potremo tenere nel Forte Albertino di Vinadio nell’agosto 2016, invitandovi anche ovviamente gli ottimi colleghi francesi, che da tanti anni ci commiserano e ci vogliono aiutare ad evitare questa assurda, eppure incombente, frana della grande costruzione europea.

Un tentativo italiano di individuare l’origine dello scisma viene boicottato dalla Commissione

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La discriminazione che ci infligge la Commissione può essere disinnescata solo mediante due operazioni contestuali: a) confrontare le due storie divergenti dei Paesi anti-nucleari e pro-nucleari in materia, e b) verificare con una finalmente duplice e finalmente comparata indagine demoscopica quale scisma cognitivo sia stato generato da quelle due storie divergenti.

Ambedue queste operazioni sono state richieste dalla più recente proposta della Commissione in materia, con la topica del programma di lavoro «NFRP 12 – 2015: Past and recent history of nuclear developments and interaction with society, Storia passata e recente degli sviluppi nucleari ed interazione con la società».
A rispondere a quel bando si sono preparati, come al solito, due consorzi avviati dai paesi pro-nucleari. Uno guidato dagli Svedesi, ed un altro guidato dagli Spagnoli, anzi, più precisamente, dai Catalani. Anche se la data di scadenza del bando era il 17 Settembre 2014 alle 17, quelle due bozze di risposta erano già tratteggiate nella primavera di quell’anno. Ambedue ignoravano la storia del nucleare italiano, e segnatamente quella della sua crisi, a partire dalla morte di Mattei. Nella bozza di progetto dei Catalani, già molto prolissa nella primavera del 2014, tutta la vicenda dei Paesi divenuti anti-nucleari, senza neppure nominare l’Italia, veniva riassunta, testualmente, come un «cambio di vento politico»: tout court. Abbiamo fatto delle avances proprio verso i Catalani, per integrare semplicemente queste loro vistose lacune, senza bisogno di presentare un progetto italiano autonomo, però siamo stati rifiutati senza spiegazioni. Lo stesso è accaduto per la cordata coordinata dagli svedesi, nonostante che i contatti fossero stati tentati attraverso colleghi con cui abbiamo collaborato in progetti precedenti, prevalentemente per la sicurezza stradale ma non solo, e con cui collaboriamo tuttora felicemente ed amichevolmente. Questo tema ci era dunque precluso, come già quello analogo, dell’altra scelta modale.
Ho allora dato la disponibilità, insieme ad una certa parte di alcune reti di ricercatori europei di cui faccio parte, e con molti nuovi ampliamenti, per collaborare con Enea dove la storia passata e recente della materia è ben nota. Il nome originario di Enea «Ente nazionale energia atomica» coincideva con i trattati «Atomi per la pace» ed «Euratom». Tuttavia, questo periodo iniziale di entusiasmo è stato sostituito da preoccupazioni crescenti circa l’ambiente e preferenze per le energie alternative al nucleare, parallelamente ai due referendum italiani che hanno rigettato l’energia nucleare. All’interno delle competenze di Enea restano esempi di atteggiamenti contraddittori della società verso tutte le cose nucleari: una accettazione acritica di una vasta gamma di trattamenti nucleari e delle loro scorie, combinata con un completo rifiuto di qualunque deposito nucleare in tutto il nostro Paese.
Intendevamo avviare anche un dialogo più sereno fra le due parti avverse, che ormai sono arrivate ad accusarsi reciprocamente di follia. Spiegare l’origine delle divergenze rende sempre più ragionevoli gli uni verso gli altri e viceversa, in inglese «saner», che così abbiamo adottato come acronimo del nostro progetto: «SANER, Social Attitudes to Nuclear Energy Risks».

Prima di decidere che Enea fungesse da coordinatore del progetto, invece che altri pure disponibili, lo stesso Enea ha inviato un quesito al Direttore competente, un belga (Paese fra i massimi utilizzatori di nucleare), subito dopo il suo ritorno dalle ferie, prima della fine di Luglio: chiedevamo se i due piccoli reattori esclusivamente sperimentali e non commerciali che Enea tiene operativi non costituissero conflitto d’interesse a tale coordinamento. A tale Direttore competente si chiedeva conferma della nostra convinzione che Enea non poteva essere in conflitto di interesse, stante pure il vincolo che ben due referendum hanno imposto ad Enea, ente pubblico non commerciale, a non sviluppare centrali nucleari. Il Direttore non ha risposto durante tutta l’estate, e quel silenzio interpretato come assenso ci indusse ad abbandonare la scelta di altri coordinatori. Inopinatamente però lui ha risposto alle 16,14 del 16 settembre, cioè otto ore lavorative e tre quarti prima della scadenza del bando: quella sua lunga e cortese email spiegava che Enea non poteva essere il coordinatore del progetto, ma poteva esserne un attivo partner; quindi indicava ad Enea come organizzare utilmente la propria partecipazione, dopo che il consorzio fosse stato ristrutturato con un altro coordinatore. La tempistica stessa della risposta, che impediva di rovesciare i rapporti con tutti i partner del consorzio, ed i suggerimenti su come continuare a lavorare alla stessa topica, ci facevano apparire come scontato che il bando sarebbe stato ripetuto identico, poco dopo. Anche perché lo stanziamento per la topica specifica, per otto milioni di Euro, di cui in questa prima tornata era previsto l’uso di soli due o tre milioni, non era esauribile tutto in questa sola volta.
In attesa del nuovo bando, il 25-27 maggio 2015 sono andato a Stoccolma ad un seminario tenuto dai soliti partecipanti ai progetti menzionati all’inizio di questo articolo, sapendoli interessati anch’essi al lancio di un nuovo bando. Insieme a tutto l’uditorio del convegno, ho atteso con fiducia la relazione del vice del Direttore suddetto, un funzionario francese, avvenuta in plenaria nel primo pomeriggio del martedì 26. Fra la costernazione mia e di tutti gli altri uditori, egli ha detto che solo nell’autunno uscirà un nuovo bando, con scadenza non prima della primavera 2016; quel ch’è peggio, con soli uno o due milioni in dotazione e, peggio ancora, con una destinazione vastissima e generica, per tutte le dinamiche sociali concernenti tutte le problematiche energetiche. Non io, ma un altro fra i presenti, peraltro coordinatore di una specifica sessione su questi temi, e della cordata degli svedesi nel bando precedente (che egli sapeva già di aver perso contro i Catalani, come ho saputo dopo) ha obiettato al vice-Direttore quello che avrei obiettato anch’io: che la scabrosità degli atteggiamenti sociali verso il nucleare, cui era specificamente destinata la topica di cui sopra, veniva così inopinatamente trascurata ed archiviata come fosse inopinatamente risolta. Il vice-Direttore ha risposto che nulla vietava di riprendere questo specifico tema rispondendo al nuovo bando, il quale non esclude il tema nucleare, pur non avendolo ad oggetto specifico come invece lo aveva sia il bando precedente, sia originariamente l’intera topica da otto milioni. Che saranno adesso dirottati sugli sviluppi tecnologici, indipendentemente da «SSH, Social Sciences and Humanities».
Fra la delusione generale siamo andati al coffee break, dove molti convegnisti hanno ribadito queste lagnanze attorniando il vice Direttore. Il quale rispondeva sempre che questa svolta non andava imputata a lui, che sembrava non condividerla affatto, bensì al suo capo. La sensazione era che lui personalmente non desiderasse inibire queste lagnanze, che infatti sono continuate. Per parte mia, gli ho mostrato il dépliant del www.ecp2015.it, vantando di avervi imposto io il titolo «Linking Technology and Psychology», un intento che lui aveva rivendicato come anche suo. A questo punto ho potuto lamentare anch’io che, per un (non meglio precisato) «malinteso» con il suo capo avevamo perso l’occasione di far venire quella bella gente, con tanta expertise utilissima a fronteggiare la riedizione della rivolta di Scanzano Jonico, che si prospetta durante i quattro mesi di mediazione ambientale preannunciati dal ministro Galletti.
Gli ho descritto l’allarmante situazione italiana, migliaia di tonnellate di scorie sparse ed indifese, anche provenienti dalle nostre sovrabbondanti prescrizioni sanitarie, ed il nostro bisogno di importare subito quelle esperienze che lui stesso si era vantato di aver generato per primo. Non gli ho ripetuto le obiezioni che gli altri gli avevano fatto contro l’esigua dotazione di quel bando da lui testé prefigurato, però ho evidenziato che sarebbe troppo generico e soprattutto troppo tardivo rispetto ai tempi della scelta governativa del sito nazionale italiano. Ho aggiunto qualche altro allarme sul nostro Paese, che risulterebbe poi molto grave non aver minimamente cercato di prevenire. Essendo stato presidente dell’Ordine degli Psicologi durante la rivolta di Scanzano, dovevo ammettere che non eravamo stati minimamente coinvolti. Ora potrà succedere di peggio, e sarà stato peggio non aver cercato di prevenirlo.
Ho visto che lui si è messo a telefonare, e per buona educazione non gli sono rimasto vicino. Neppure dopo, quando ha ripreso a telefonare vicino a me, che stavo parlando con altri. Quando l’indomani mattina si è seduto subito dietro di me, dato che un relatore stava prospettando un sito unico europeo per le scorie radioattive, gli ho scritto un biglietto più o meno così: «Si vous, de la Commission, annoncez que vous travaillez à une solution unitaire, vous pourriez épargner à l’Italie la prochaine révolte annoncée contre le nouveau site des déchets radioactifs». Quando mi sono rigirato per vedere la sua reazione, mi ha chiamato molto gentilmente per nome, e mi ha rassicurato che il giorno prima aveva già aggiornato («ranseigné») il suo capo riferendogli quanto gli avevo detto poco prima, e che il dialogo adesso era aperto. Ho preferito rinviare ogni nuovo contatto, in attesa di vedere chi nel frattempo avesse vinto il bando precedente. Qui allego il link al progetto dei Catalani, appunto quello che è stato approvato, con più di tre milioni di finanziamento, senza bisogno di nessun co-finanziamento: col titolo HoNESt, acronimo di History of Nuclear Energy and Society.
Va innanzitutto notato che dal consorzio mancano alcuni Paesi. Certi Paesi. Intanto, dei quattro che il bando stesso chiedeva di includere (Russia, Ucraina, Giappone, Usa), qui c’è solo la Russia, e cliccando sul + si vede che le destinano solo 15.000 euro, sui tre milioni abbondanti. E soprattutto manca l’Italia, totalmente. Mi chiedo come un progetto del genere possa arrivare a far conoscere e capire le resistenze contro il nucleare, vuoi quelle motivate da incidenti (Chernobyl, Fukushima, Three Miles Island), vuoi da altro, proprio per l’Italia. Già un anno prima, in effetti, avevamo chiesto di aderire proprio al loro progetto in quanto ci era sembrato onestamente, questo sì, onestamente lacunoso in campo italiano.
Ora il loro rifiuto di accogliere innanzitutto noi, e poi qualunque altro istituto dal nostro Paese, appare in una luce diversa. Lacune talmente vistose appaiono non tanto casuali, quanto piuttosto sistematiche. Per integrare quanto riportato sopra da Stoccolma, va riconsiderata la graduatoria delle delocalizzazioni italiane che avevo riportato nel precedente articolo su Villaggio Globale: la Spagna (specialmente la Catalogna, nucleare ed industriale), di tutto quanto il mondo, è il quarto beneficiario di queste preziosissime delocalizzazioni delle nostre imprese, collocandosi esattamente allo stesso quarto posto per prezzo dell’energia al Kwh. Questi nostri concorrenti non sanno produrre dei beni tanto desiderati da tutto il mondo come i nostri; per questo loro limite soffrono una pesantissima disoccupazione, però con il nucleare riescono a risucchiarci moltissimo del nostro lavoro. Altro che HoNESt, altro che assenza di conflitto d’interesse, altro che spirito dell’Euratom, altro che il suo «dovere di condividere le cognizioni tecniche». Esattamente al contrario, questi vogliono lasciarci come lo struzzo con la testa sotto la sabbia, per continuare a spennarci tranquillamente: non gli sembra vero, fin che questa pacchia dura. Questo capeggiato dal Direttore belga e dal vice-Direttore francese è proprio un bel gruppetto di pensatori: prima pensavano che ci volessero da due a quattro milioni per un primo bando di tre complessivi, poi che per questa prima volta ne sarebbero bastati di meno, poi, quando han letto questo bel progetto HoNESt, hanno concluso che ne racimolavano più di tre per questo sforzo unico e definitivo, per metterci una pietra sopra a tutta questa storia; chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scurdammece ‘o passato, non parliamone più di nucleare, parliamo di ‘ste benedette rinnovabili, e per solo uno o due milioni, non di più.

 

 

Sardi1-3-15

 

Dal sito del seminario di Stoccolma, mi rivedo piazzato proprio davanti ad una slide dove il vice Direttore francese reclamizza appunto le rinnovabili (in grassetto: Europe must lead on the next generation of renewables… SSH will be critical in meeting them), invitando dunque anche quei rappresentanti degli istituti propalatori del nucleare nei propri Paesi a convertirsi e reclamizzare invece tali rinnovabili (che la Francia eviterà e rimpiazzerà con una nuova centrale nucleare, abbiamo visto sopra). Bisogna riconoscere onestamente che questo vice Direttore francese risulta sintonico a quanto abbiamo sopra riportato nella sua lingua dal sito del suo Governo.

Altrettanto onestamente, la nostra esperienza non può concludersi aspettando i risultati del progetto HoNESt a fine 2018. Ci ritroviamo, un po’ per caso, arruolati in una impresa doverosa non solo per l’Italia, ma per la costruzione europea, che è nata e tuttora resta orientata in direzione diametralmente opposta a questi nazionalismi che la stanno drammaticamente spaccando e devastando, in un modo che poi alla fine, se noi lasciamo che la fine sia questa qui, risulterà irrimediabile.

4. In conclusione, cosa si può fare prima che sia troppo tardi