La biodiversità mondiale globale

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La biodiversità mondiale globale continua anche nel 2008 ad essere in declino in tutto il mondo ed in alcune aree del Sud America e del sud est asiatico. In tali aree, il ritmo di riduzione della biodiversità terrestre appare addirittura disastroso a causa della forte espansione della urbanizzazione, e della ancor più forte espansione dell’agricoltura per usi energetici e non alimentari, con conseguente cambiamenti delle caratteristiche ecologiche ed ambientali dei suoli o dell’uso dei suoli, frammentazione del territorio per le specie animali, introduzione di specie vegetali aliene e aumento complessivo della vulnerabilità al clima ed ai cambiamenti del clima degli ecosistemi preesistenti. Ma ci sono anche segnali incoraggianti per la conservazione della biodiversità quali l’aumento delle aree protette sia terrestri che marine, che hanno raggiunto, nel loro insieme, una estensione complessiva di oltre 21 milioni di km2, di cui, oltre 18 milioni di km2 riguardano l’ambiente terrestre continentale (12% delle terre emerse) e poco più di 2 milioni di km2 riguardano l’ambiente marino (0,7% degli oceani).

Gli indici di biodiversità e di estinzione delle specie, elaborati dalla Iucn (International Union for Conservation of Nature), mostrano che la maggior parte delle specie a rischio di estinzione per concomitanti fattori di attività umane e di cambiamenti del clima, sono attualmente in Australia ed Oceania, mentre sarebbero a minor rischio quelle del nord Africa e dell’Asia occidentale. Minori informazioni sono disponibili per la biodiversità marina per la quale i maggiori fattori che ne causano il declino non sono solo quelli legati al cambiamento del clima (come sta accadendo, per esempio, per le barriere coralline), ma anche e soprattutto alla pesca intensiva ed illegale che è in forte aumento in tutto il mondo, compresa l’area mediterranea.

L’Unione europea (nell’ambito della strategia europea per la biodiversità varata nel 1998), si era posta obiettivi ambizioni per fermare la perdita di biodiversità in Europa entro il 2010, invece che al 2015 (come richiedevano le Nazioni Unite), attraverso un apposito «Action Plan», diviso in 4 aree e 10 obiettivi (approvato nel 2001 ed aggiornato nel 2006). Ebbene, la Commissione della Ue ha dovuto ufficialmente ammettere il 17 dicembre scorso che non sarà possibile, o comunque che è molto improbabile, il raggiungimento degli obiettivi posti al 2010 da tale «Action Plan» e, dunque, l’impegno della Unione europea per la protezione della biodiversità viene spostato di fatto al 2015. Gli impegni programmati appaiono largamente disattesi, seconda la Ue, per questi motivi:
– insufficiente riconoscimento da parte dei paesi membri del problema della biodiversità (scarsa o nulla consapevolezza nei cittadini e nei decisori politici);
– insufficiente ricerca scientifica e insufficienti conoscenze su come affrontare il problema della biodiversità nel medio e lungo termine (compresi i problemi di gestione di parchi, riserve ed aree protette);
– insufficiente informazione e scarsa consapevolezza sul significato economico e sul valore socio-economico, dei servizi che derivano dalla biodiversità, per le attuali e future generazioni (manca un rapporto para-Stern per la biodiversità);
– inesistente o difficile identificazione dei responsabili dei danni alla biodiversità.

Le foreste

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Anche durante il 2008, la deforestazione e la perdita di suoli forestali ha continuato a procedere, anche se a ritmi più ridotti rispetto agli anni passati. La deforestazione è particolarmente accentuata nei paesi della fascia subtropicale ed intertropicale, ma soprattutto nel sud est asiatico e Sud America. Non si è fermata neanche l’espansione delle foreste boreali nell’emisfero nord (Canada Europa e Siberia) con un aumento anche delle aree forestali protette, che a loro volta creano le condizioni per il mantenimento della biodiversità e per la conservazione del suolo e delle risorse idriche. Tuttavia, il bilancio netto globale tra deforestazione e riforestazione (compresa la afforestazione) ha mostrato una perdita complessiva di circa 7 milioni di ettari di foreste (70mila km2). Le aree desertiche e quelle a rischio desertificazione, che interessano soprattutto le aree subtropicali sia dell’emisfero nord (soprattutto Asia orientale), sia dell’emisfero sud (soprattutto Africa meridionale e Australia), non hanno mostrato segni di variazione.

Le risorse idriche

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Quantunque un numero maggiore di persone abbia accesso all’acqua, il dato complessivo del 2009 non è cambiato: circa il 40% della popolazione mondiale non ha ancora accesso all’acqua potabile, la metà circa dei quali non ha alcun accesso all’acqua. Una percentuale ancora più alta non dispone di servizio igienico-sanitari. In pratica, poco o nulla è cambiato dal 2000 al 2008 per l’Africa sub-sahariana e per l’Asia meridionale, ma anche per molti Stati delle piccole isole del Pacifico. Viceversa, i maggiori progressi sono stati raggiunti nell’Asia occidentale (ed in particolare in Cina), in molti paesi dell’America Latina (in particolare nei Caraibi) e nelle repubbliche della ex Urss situate nell’Asia centrale. Progressi significativi per l’accesso all’acqua potabile, ma non ai servizi sanitari, sono stati compiuti anche nel nord Africa e nel medio oriente.

La povertà

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Per la popolazione mondiale, la povertà, a livello globale, è in fase di riduzione ma ad un ritmo molto inferiore di quello programmato per raggiungere il dimezzamento entro il 2015. La crisi finanziaria ed economica mondiale che è subentrata alla fine del 2008 non aiuterà certo ad accelerare gli sforzi, la maggior parte dei quali vengono effettuati attualmente da accordi multilaterali e da accordi bilaterali di paesi sviluppati che hanno interesse ad investire nei Pvs. Gli aiuti economici e finanziari per i Paesi in via di sviluppo, attraverso gli organismi multilaterali (banca mondiale, fondi regionali, fondi intergovernativi), comunque, non aumentano, anzi nel 2008, forse anche a causa della crisi mondiale, mostrano una tendenza alla diminuzione.

I rischi sanitari

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Per la sanità mondiale, la mortalità complessiva (numero di individui e percentuale della popolazione) a livello globale continua a rimanere alta (soprattutto nell’infanzia e soprattutto nei paesi più poveri), nonostante l’impegno aggiuntivo di molte associazioni non governative e di volontariato. Disaggregando i dati si nota però che al 2008 è diminuita la mortalità complessiva per Aids, ma è aumentata quella per la malaria soprattutto in Africa. La mortalità per tubercolosi non aumenta ai ritmi sostenuti del passato, ma non tende neanche a diminuire. La scarsità di acqua e la mancanza di acqua ha reso alcune aree africane molto vulnerabili alle infezioni: nel 2008 sono, infatti, aumentati i focolai di infezioni coleriche.

Commenti provvisori su mitigazione e adattamento ai cambiamenti del clima

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1) La convenienza economica

La convenienza economica delle riduzioni globali di gas serra non va valutata solo rispetto ai costi industriali ma va valutata includendo anche i costi evitati dai danni provocati dai cambiamenti climatici. E i costi industriali possono essere considerati, invece investimenti produttivi qualora si colgano le opportunità di innovazione tecnologica e nuovo sviluppo che portano a convenienze economiche che non sono solo i benefici economici immediati o di breve periodo, ma anche le opportunità di sviluppo ed i benefici che lasciamo alle future generazioni.

2) Smart grid

Lo sviluppo delle energie rinnovabili e la necessità di connessione e di distribuzione dell’energia su le reti ed i sistemi degli utilizzatori, oltre che per problemi di affidabilità e flessibilità delle reti elettriche impongono un nuovo modo di progettare e gestire le reti elettriche. Questo nuovo modo riguarda sia le reti elettriche basate sulla produzione centralizzata di energia elettrica (grandi impianti), sia quelle locali basate sulla produzione territorialmente diffusa e diversificata di energia elettrica (piccoli impianti o reti e sistemi di piccoli impianti). Per la trasmissione della energia elettrica, infatti, dovranno essere sviluppati sistemi di reti analoghi a quelli sviluppati sul web (internet) ed in particolare i sistemi cosiddetti «grid» che sono quelli che garantiscono la massima inter-operabilità fra tutti i produttori e tutti i consumatori di elettricità nelle più diverse condizioni o situazioni. La Ue ha definito «smart-grid» questo nuovo modo di massimizzazione della interoperabilità delle reti elettriche per lo sviluppo delle energie rinnovabili per la quale è in corso di definizione e di messa a punto una piattaforma tecnologica europea denominata appunto «smart-grid». Il cui documento di base è «Strategic Research Agenda for Europe’s Electricity Networks of the Future» (Report EUR 22580, Bruxelles 2007).

3) Risparmio energetico ed efficienza energetica nella Pubblica Amministrazione

La Pubblica Amministrazione, comprese le Università e gi Enti di ricerca pubblici, che usa quasi un quinto delle risorse energetiche ed economiche nazionali, non dà un buon esempio, e non investe su stessa, nel campo dell’efficienza energetica, dell’uso razionale dell’energia e della promozione delle fonti rinnovabili.
L’organizzazione, la struttura, il management ed i regolamenti di funzionamento della Pubblica amministrazione sono tali da porre difficoltà o impedire, di fatto, un efficace rinnovamento ed uso, attraverso i normali strumenti di gestione, dei propri comportamenti, soprattutto verso quei settori che proprio le Istituzioni Centrali dello Stato (Ministero dello Sviluppo Economico) sponsorizzano e promuovono:
– elettrodomestici a basso consumo (fotocopiatrici, stampanti, ecc,. di classe A+ ed A++)
– lampadine ad alta efficienza (negli uffici, ministeri, caserme, ospedali, ecc)
– pannelli solari (tetti edifici scolastici, ospedali, caserme, ecc.)
– sistemi di cogenerazione (per la produzione di acqua calda, energia elettrica, ecc)
– ristrutturazioni edilizia e riqualificazione energetica degli edifici pubblici
– impianti di climatizzazione
Forniture di servizi ed appalti sono ancora effettuati su base minima tecnica e al massimo ribasso economico: il risultato è l’acquisizione di prodotti scadenti servizi inefficaci ed inefficienti. A questa logica non si sottrae neanche la Consip, che è il fornitore


ufficiale e qualificato designato dallo Stato. Ciò porta a maggiori costi, invece, che a risparmi, a maggiori inefficienze invece che ad efficienza.

4) Gli acquisti verdi

Gli acquisti «verdi» (cioè di prodotti e servizi con determinate caratteristiche di efficienza energetica e di basso impatto ambientale) per le pubbliche amministrazioni (Green Public Procurement, GPP) rappresentano ormai un orientamento che sta affermandosi in tutti i paesi europei. Gli acquisti di beni e servizi effettuati dal settore pubblico, secondo stime ufficiali, rappresentano il 16% del Pil della Ue e in Italia addirittura il 18%. L’applicazione di pratiche di GPP nella Pubblica Amministrazione influenza il mercato sull’interazione tra domanda e offerta, «premiando» in ogni bando e appalto prodotti e processi virtuosi: ciò può stimolare le imprese produttrici e quelle fornitrici a innovarsi applicando al loro interno approcci gestionali e produttivi orientati al ciclo di vita dei prodotti e dei processi, a rafforzare strumenti orientati al miglioramento delle performance ambientali (SGA, EMAS, ISO 14001, rendicontazione sociale e ambientale), ad adottare politiche integrate di prodotto, approcci di eco-design in fase di progettazione, a certificare prodotti (Ecolabel), il tutto con vantaggi di risparmio energetico di protezione ambientale e di lotta contro gli sprechi lungo la filiera produzione-consumo-postconsumo.

5) La responsabilità sociale

Le attività delle imprese si sviluppano, vivono e si sostengono con il contributo di un numero enorme di «azionisti» che non sono solo quelli che investono capitali finanziari o partecipano ai dividendi, ma anche, e soprattutto, i dipendenti e i collaboratori, i consumatori, i sindacati, le istituzioni pubbliche, le comunità locali, le associazioni di categoria, i gruppi di pressione, i movimenti e le associazioni non governative, i media, ecc. Senza il supporto di tutti questi azionisti, non ufficiali e non formali, chiamati in linguaggio tecnico: «stakeholder», (cioè tutti i gruppi di interesse che influenzano o sono influenzati dalle attività delle imprese), difficilmente le imprese potrebbero sopravvivere ed operare. Le imprese in quanto titolari di responsabilità ed obblighi, non solo verso gli investitori, ma anche verso gli «stakeholder», traggono beneficio dalle attività aziendali, ma rispondono anche degli effetti delle proprie azioni sia agli azionisti, sia agli «stakeholder» che potrebbero essere danneggiati.

6) Le Pmi: piccole e medie imprese

Lo sviluppo economico a bassa intensità energetica (quantità di energia per unità di PIL) è la prospettiva futura dello sviluppo sostenibile. Piccole aziende con alto tasso di innovazione tecnologica ed aggregate fra loro possono rappresentare il mezzo migliore per tale sviluppo. Il territorio diventa l’elemento portante di questo sviluppo se ha le infrastrutture necessarie per creare una rete di attività economiche che non impattano sulle sue caratteristiche, ma che anzi ne valorizzino gli aspetti ambientali, sociali e culturali, comprese quelle storiche, artistiche e di tradizioni popolari.
Quattro sono i punti cruciali per lo sviluppo economico nazionale delle Pmi:
1) sistema di formazione e di alta formazione (Università ed Enti di ricerca);
2) la pubblica amministrazione a supporto dello sviluppo delle Pmi;
3) l’innovazione tecnologica sui prodotti, sui processi e


sui sistemi di gestione;
4) il legame con il territorio e le caratteristiche socio-economiche, ambientali e culturali locali.
Per la parte più propriamente produttiva, il maggior supporto andrebbe focalizzato su:
– l’aggregazione di aziende e filiere,
– la formazione di consorzi,
– la crescita dimensionale,
– la deburocratizzazione di autorizzazioni e controlli delle aziende «certificate».

7) Università e ricerca

Lo Stato finanzia sempre di meno la ricerca e l’industria si avvale sempre meno di Università ed Enti di ricerca italiani. Vi è una grossa dose di miopia e di mancanza di lungimiranza. Ma una grossa mano a costruire questa convinzione l’hanno data proprio le Università. Dopo la riforma del Ministro Ruberti del 1992 l’Università italiana invece di andare avanti è andata progressivamente indietro in efficienza in attività di ricerca per lo sviluppo del paese. La autonomia è spesso diventata autarchia ed autoreferenzialità: sono proliferate cattedre insegnamenti universitari sedi periferiche e distaccate.

Ampere Equity Fund

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L’Ampere Equity Fund investe in progetti di energia rinnovabile da realizzarsi nell’Europa occidentale, con importi compresi tra i 10 e i 50 milioni di Euro per singolo investimento. Il Fondo è stato istituito dalla divisione di project development di Econcern per fornire alla propria pipeline progettuale una fonte dedicata di capitale privato. Il fondo, che ha anche una limitata capacità per investire in altri progetti europei di energia rinnovabile, ha saputo attirare i maggiori investitori istituzionali e ha un capitale assegnato di 320 milioni di Euro. Il fondo indipendente di gestione è Triodos Bank Management.

Econcern

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Econcern, gruppo internazionale con sede nei Paesi Bassi, dal 1984 opera attraverso le sue società controllate in tutti i settori della sostenibilità energetica, fonti rinnovabili, efficienza energetica e meccanismi di applicazione del protocollo di Kyoto, in linea con la propria missione «fornire energia sostenibile per tutti». Con un organico di oltre 1.200 professionisti dislocati in più di 20 paesi di tutto il mondo, Econcern si avvale del più ampio gruppo al mondo di esperti in energia sostenibile e soluzioni di risparmio energetico.
La società ha contribuito al conseguimento del Premio Nobel da parte della ricerca scientifica ed è stata una colonna portante della definizione del Protocollo di Kyoto. Al 234° posto nella classifica delle 500 aziende europee in più rapida crescita, nel 2007 Econcern ha registrato un aumento nei profitti pari al 96%. Nel 2008 la società è stata premiata «azienda dell’anno» nell’ambito degli European Business Awards. Econcern è presente in Italia dal 2005 attraverso una rete di sedi e uffici sempre più capillare.

Progetto Trullo. Caratteristiche tecniche

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La produzione annuale di energia attesa si colloca intorno ai 60.000 MWh, pari alla domanda energetica di 15.000 famiglie. Nel complesso, il progetto consentirà di ridurre le emissioni di CO2 di 30.000 tonnellate.

Fase 1.
La fase iniziale prevede la costruzione di sette campi solari da 1 MW ciascuno, che al termine dell’installazione saranno in grado di produrre complessivamente 10.000 MWh circa di energia all’anno, corrispondenti al fabbisogno di 2.500 famiglie. I lavori di costruzione saranno avviati nel 2009, così da garantire la completa operatività dei campi già all’inizio del 2010. I campi, ognuno dei quali occuperà una superficie compresa tra i tre e i quattro ettari, saranno collocati a terra e monteranno pannelli solari in silicio cristallino a inclinazione fissa.

Il centro euro-mediterraneo per i cambiamenti climatici

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Il Centro Euro-Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici è una struttura di ricerca scientifica che si prefigge di approfondire le conoscenze nel campo della variabilità climatica, le sue cause e le sue conseguenze, attraverso lo sviluppo di simulazioni ad alta risoluzione con modelli globali del sistema terra e con modelli regionali, con particolare attenzione all’Area del Mediterraneo.

Il lavoro d ricerca del Cmcc è caratterizzato da un modello a rete, costituito dalla sede centrale di Lecce e 5 sedi periferiche a Bologna, Capua, Milano, Sassari e Venezia, in cui sono distribuite tutte le funzioni dell’intera filiera degli studi sui cambiamenti climatici. Questo tipo di organizzazione e di collaborazione tra centri diversi consente di mantenere scienziati e ricercatori che si occupano di discipline e temi affini il più possibile concentrati in un solo posto; così, attraverso la rete di tecnologie e conoscenze realizzata dal Cmcc, ciascuna Divisione opera sui propri progetti di ricerca avvalendosi delle competenze e delle conoscenze che provengono dagli altri nodi dove lavorano informatici (che si occupano delle complesse operazioni di calcolo e della condivisione dei dati grazie a supercomputer di ultima generazione), fisici (che disegnano gli scenari futuri), esperti che si occupano di valutare e analizzare gli impatti degli scenari realizzati sulle economie, sulla biosfera, sull’agricoltura, sulle coste e sui mari.

Le principali caratteristiche operative del Cmcc sono quindi l’interdisciplinarietà e un efficiente networking, caratteristiche che lo rendono unico nel panorama internazionale, dando un elevato valore aggiunto all’attività rispetto ai corrispondenti centri europei.

L’attività di ricerca è coordinata da 6 Divisioni scientifiche: Sco – Calcolo Scientifico e Operazioni, Ans – Applicazioni numeriche e scenari, Cip – Valutazione Economica degli Impatti e delle Politiche dei Cambiamenti climatici, Isc – Impatti al Suolo e sulle Coste, Iafent – Impatti sull’Agricoltura, Foreste ed Ecosistemi Naturali e Terrestri, Fdd – Formazione, Documentazione e Divulgazione.

Il coordinamento delle linee di ricerca è sotto la responsabilità del consorzio Cmcc. Il consorzio è inoltre responsabile per lo svolgimento di tutte le attività di ricerca, che vengono realizzate attraverso il coinvolgimento attivo degli enti partecipanti al progetto e la condivisione delle risorse interne di questi ultimi.

Il coordinamento delle attività scientifiche avviene periodicamente su due livelli: sui singoli progetti e sui programmi annuali di attività.

Come nasce il Cmcc

Il Cmcc nasce come un programma strategico promosso attraverso un bando del Mur (Ministero dell’Università e della Ricerca), approvato dalle seguenti istituzioni: Ministero delle Finanze (Mef), Ministero dell’Università e della Ricerca (Mur), Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio (Matt), Ministero delle Politiche Agricole e Forestali.
Il programma è stato finanziato a valere sui fondi Fisr (Fondo Integrativo Speciale della Ricerca).
L’obiettivo del programma è la creazione di un «Centro di respiro internazionale per la ricerca nel campo dei cambiamenti climatici».

I promotori: la Cmcc Scarl

Il Centro è stato promosso dai seguenti soggetti:
Ingv – Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, proponente e capofila


del progetto;
Università del Salento,
Cira S.c.p.a. – Centro Italiano Ricerche Aerospaziali,
Cvr – Consorzio Venezia Ricerche,
Feem – Fondazione Enrico Mattei,
Università degli Studi del Sannio.

I soggetti promotori hanno costituito una società consortile a responsabilità limitata, la Cmcc S.c.a r.l., per la gestione del Centro.

La società ha siglato delle convenzioni con alcune organizzazioni già attive in ambito nazionale sulle simulazioni climatiche e sugli effetti dei cambiamenti climatici, per definire la loro partecipazione ai programmi di ricerca del Cmcc, in qualità di «Enti Associati».

Gli «Enti Associati» al Cmcc sono: Desa (Università di Sassari), Iamb (Istituto Agronomico Mediterraneo di Bari), Iafent (Università della Tuscia), Ictp (International Center for Theoretical Phisics), Cnr (Dipartimento Terra e Ambiente), Ogs (Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale), Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità), Crmpa (Centro di Ricerca in Matematica Pura e Applicata), Spaci (Southern Partnership for Advanced Computational Infrastructures).

(Fonte Cmcc, Mauro Buonocore, mauro.buonocore@cmcc.it mob. 3337045214, Segreteria organizzativa Alessandra Lezzi, alessandra.lezzi@cmcc.it tel 0832 288650 ? 3478780451)

Dna-Mitocondriale e Nutrigenomica

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( Dipartimento di Chimica, Università di Firenze, Direttore LRE/EGO-CreaNet )

Recenti studi di Nutrigenomica hanno focalizzato l’attenzione sull’attività del Dna-mitocondriale (mt-Dna), che proviene dalla eredità uni-parentale (materna), poiché esso si trova originariamente nella cellula uovo femminile, riproducendosi poi, per scissione semi-autonomamente in ogni cellula del corpo, così che viene impacchettato in minuscoli organuli detti Mitocondri.

Nell’uomo, il mt-Dna contiene solo 37 geni chiusi ad anello (rispetto al Dna a doppia elica che ne contiene circa 25.000) ed è composto da 16,569 coppie di basi e codifica solo per 13 specifiche proteine ed alcuni Rna, che lavorano all’interno dei mitocondri, per produrre la maggior parte di energia necessaria alla vita cellulare (sotto forma ossidazione della reazione dell’Atp per tramite il ciclo dell’acido Citrico ovvero ciclo di Krebs), dove si spezzano, proteine, zuccheri e grassi provenienti dagli alimenti. Il mt-Dna e quindi organizzato per ottenere un costante e regolato flusso energetico di elettroni e dar vita ad un graduale trasferimento di energia biologica.
Pertanto i mitocondri funzionano come orologi molecolari non solo per la produzione di Atp ma anche per la sintesi dell’eme, il complesso molecolare capace di trasportare ossigeno nel sangue ed anche per la sintesi del colesterolo; i mitocondri sono quindi espressione a livello trascrizionale delle più importanti funzioni di regolazione del metabolismo alimentare.

La Nutrigenomica pertanto ha posto in grande evidenza come i mitocondri, sulla base della loro capacità di moltiplicarsi dove il loro nutrimento e l’apporto di ossigeno è più abbondante, cioè dove è più intensa la richiesta di energia favoriscano la comprensione di come sia importante la personalizzazione delle diete. Quanto sopra fa seguito alla differente necessità dei vari organi e delle necessità funzionali specie nel caso di malattie che hanno stretta relazione con la alimentazione come il diabete.
Così, ad esempio, dato che il cervello consuma da solo il 20% dell’ossigeno, l’attività mitocondriale dei neuroni è assai elevata come è dimostrato da studi sull’attivo coinvolgimento del mt-Dna nello sviluppo delle funzioni cognitive; inoltre quando l’attività delle fibre muscolari è intensa, con essa cresce il numero dei mitocondri che si allineano lungo i fasci delle cellule che compongono le fibre muscolari.
Inoltre e stato confermato, da varie ricerche sull’alimentazione comparata in vari animali e insetti, che la riproducibilità semi-autonoma del mt-Dna può presentare una variabilità, pur limitata, la quale caratterizza l’abitudine alimentare dei diversi esseri viventi.

Il Dna mitocondriale (mtDna) ha un basso livello di diversità genetica nella maggior parte delle varie specie. Infatti il mt?Dna detto anche Eva-Dna, perché di derivazione esclusivamente femminile, non rivela un’azione determinante sulla variazione genetica come quella del Dna a doppia elica, ciò proprio in quanto la funzionalità principale del mt-Dna è finalizzata a determinare le condizioni ottimali di produzione energia necessaria per tutte le specie viventi per ottenere energia biologica.
Si è accertato comunque che i mitocondri pur avendo una variabilità interspecifica poco


evidente, essi variano la loro attività funzionale in coordinazione con il Dna-nucleare della cellula eucariota, per definirne le condizioni di «apoptosi» («morte cellulare programmata») e pertanto tale co-organizzazione agisce anche sulla definizione delle preferenze alimentari di ogni specifico animale ed a livello umano di ogni singola persona.

Ricordiamo ad es. che i bruchi della farfalla del Costa Rica (Astraptes fulgerator) pur presentando differenze nell’aspetto e nell’habitat, erano state considerate appartenere alla stessa specie. Studi recenti hanno dimostrato come la variazioni delle funzionalità genetica del mt-Dna, in particolare individuate nel gene C01, che determina la produzione di un enzima, agiscano effettivamente nel modificare le preferenze alimentari dei bruchi; pertanto ciò comporta una stretta correlazione tra l’habitat e le variazioni di forma e di aspetto delle farfalle.
Il mt-Dna ha pertanto una funzionalità specifica nel determinare le preferenze alimentari delle varie specie ed individui in un determinato habitat, così come è stato verificato dalle ricerche sulle varie tipologie di goldfish, ed anche più di recente al Cold Spring Harbor Laboratory, dove sono stati confrontati due diversi ceppi di topi da laboratorio, con corredi genetici nucleari virtualmente identici tra loro ma genomi mitocondriali differenti.

In conclusione i più recenti studi di Nutrigenomica hanno iniziato a decifrare il rapporto tra regime alimentare e salute con maggior rigore scientifico, ricercando le complesse interazioni tra il Dna Nucleare e il mt-Dna di esclusiva derivazione femminile, le quali presentano significative differenze nel metabolismo dell’energia e nel suo immagazzinamento. Infatti, mentre la ricerca genetica sul Dna-doppia elica, conduce a comprendere come si ottengono le proteine che forniscono i «mattoni» e il «cemento» con cui l’organismo viene costruito, la moderna Nutrigenomica si propone di capire il modo in cui le interazioni tra geni assumano determinate forme organiche che contribuiscono a definire le funzionalità specifiche essenziali per la vita di ciascun essere vivente.

Gli obiettivi essenziali della Nutrigenomica

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( Dipartimento di Chimica, Università di Firenze, Direttore LRE/EGO-CreaNet )

Genetica della nutrizione: caratterizzazione delle modifiche individuali del genoma che possono dare luogo a variazioni del metabolismo dei macro/micronutrienti e quindi a produrre intolleranze alimentari.

Epigenetica della nutrizione: studio come particolari alimenti contribuiscano a regolare l’espressione genica e di conseguenza l’attività di specifici enzimi nell’individuo; cioè di come i nutrienti inducano ri-programmazioni del metabolismo. Sono comprese in questo campo le modifiche che l’alimentazione della madre apporta al metabolismo del feto e quindi al nascituro.

Bio-chimica della nutrizione: è l’applicazione pratica della Nutrigenomica finalizzata ad ottenere il miglior «fitness-metabolico» specifico dei vari organi di un organismo vivente, ognuno dei quali è caratterizzato dalle proprie esigenze nutritive, in modo da poter migliorare e curare le varie funzioni dell’organismo, mediante appropriate scelte alimentari capaci di correggere difetti metabolici e migliorarne le prestazioni fisiche e cerebrali.

La Nutrigenomica nel suo insieme è quindi la scienza della nutrizione personalizzata, e ciò comporta una profonda riflessione, proprio in quanto sappiamo che il 99% della genetica umana e la stessa per tutti gli uomini, ma che la differente espressione genica nei vari organi e tessuti, crea una personale risposta individuale in relazione alle esigenze nutrizionali; ciò comporta la necessità di approfondire a) la relazione tra le interazioni genetiche e le esigenze nutritive, ed anche b) come i nutrienti stessi vadano ad influenzare la differenziazione della espressione genetica.

Un crescendo di dati e studi ma…

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Che cosa dice il rapporto dell’Apat del 2007

Il ciclo del carbonio

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( Direttore Centrale Enea )

Il processo naturale di ripulimento dell’atmosfera dell’anidride carbonica e del successivo seppellimento del carbonio come materiale organico, trasformatosi poi in petrolio, carbone e altri combustibili fossili, ha avuto una durata di alcune centinaia di milioni di anni. Infatti, circa 350 milioni di anni fa le concentrazioni atmosferiche di anidride carbonica erano superiori a 2.000 ppm, mentre 20 milioni di anni fa erano scese a valori inferiori a 300 ppm.
L’esplosione della vegetazione e delle foreste su tutto il pianeta, avvenuta tra i 350 milioni di anni fa e circa 60 milioni di anni fa, avevano trasformato l’anidride carbonica in materia organica attraverso la fotosintesi clorofilliana. Nel frattempo gli intensi processi geologici naturali vulcanici e tettonici avevano sotterrato nelle viscere della terra (soprattutto nel «carbonifero») il materiale organico prodotto dalla vegetazione terrestre ed oceanica, riducendo progressivamente la presenza di anidride carbonica atmosferica fino a portarla, circa 20 milioni di anni fa, al di sotto di 300 ppm. Il materiale organico sepolto nelle viscere della terra si era nel frattempo trasformato prevalentemente in petrolio, carbone e metano, cioè in combustibili fossili.
L’atmosfera, una volta ripulita, ha permesso lo sviluppo della vita umana sul pianeta. Tenete presente che l’uomo, agli albori della sua esistenza, come Homo erectus, è comparso tra due milioni ed un milione di anni fa ed era poco più che uno scimmione bipede. È diventato Homo sapiens, cioè simile all’uomo attuale circa 100mila anni fa e, infine Homo sapiens sapiens, cioè l’uomo attuale, solo 10mila anni fa.

Che cosa ha fatto l’Homo sapiens sapiens dall’inizio dell’epoca industriale, databile tra il 1750 ed il 1800, fino ai giorni nostri? Ha compiuto, in 250 anni, un processo opposto a quello compiuto naturalmente dal pianeta in centinaia di milioni di anni. Ha, cioè, disseppellito il materiale organico (petrolio, carbone, metano) accumulato nel sottosuolo e, bruciandolo come combustibile fossile, ha rimesso in atmosfera, in poco più di due secoli, gran parte dell’anidride carbonica che il pianeta aveva eliminato in centinaia di milioni di anni.
L’Homo sapiens sapiens attuale, sta, in pratica, compiendo un esperimento di cambiamento delle condizioni del pianeta, in cui lui stesso è l’oggetto dell’esperimento di sopravvivenza. L’Homo sapiens sapiens attuale non si rende conto che è lui stesso la cavia che sta nella sua provetta.

La velocità dei cambiamenti climatici

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( Direttore Centrale Enea )

L’anidride carbonica è il principale gas serra, ma non l’unico. Le attività umane producono altri gas serra in quantità minori o molto minori (come protossido di azoto, perfluorocarburi, clorofluorocarburi, ecc.), molti dei quali hanno un potere di riscaldamento climatico che però è enormemente superiore a quello dell’anidride carbonica e, dunque, nel loro complesso contribuiscono efficacemente ai cambiamenti del clima alla pari dell’anidride carbonica.
Tuttavia, quello che preoccupa maggiormente, non è il cambiamento climatico in quanto tale, perché il nostro pianeta è stato oggetto di continui e profondi cambiamenti climatici per fattori astronomici e fattori naturali interni al sistema planetario. Questi cambiamenti, però, sono avvenuti tutti con cicli superiori ai 20mila anni. Quello che preoccupa gli scienziati è, invece, la velocità del cambiamento climatico ed in particolare l’accelerazione che sta subendo il cambiamento climatico del nostro pianeta soprattutto in questi ultimi decenni.

I modelli di analisi della evoluzione del clima attuale e di proiezione degli andamenti futuri del clima, quantunque imprecisi, mettono in evidenza rischi enormi di destabilizzazione della macchina climatica del nostro pianeta, che non ha analoghi riscontri nella passata storia del nostro pianeta. Se il processo di riscaldamento climatico sarà molto veloce, questi modelli, che sono piuttosto «lineari» (causa ed effetto sono collegati da una relazione esprimibile in termini matematici) quasi certamente non funzioneranno più.
Infatti, se i cambiamenti avvengono rapidamente si possono innescare processi «non lineari» (causa ed effetto sono del tutto scollegati) o «a soglia» (dopo una certa soglia causa ed effetto cambiano correlazione), che rendono del tutto imprevedibile qualsiasi evoluzione futura del clima.
Alcuni casi, noti dalla storia passata del nostro pianeta, hanno messo in evidenza che alcuni processi che concorrono alla stabilizzazione del clima potrebbero destabilizzarsi: come per esempio il collasso dei ghiacci della Groenlandia con innalzamento repentino del livello del mare fino a circa 7 metri, oppure il collasso della corrente del Golfo, con la conseguente glaciazione di gran parte dell’emisfero nord del nostro pianeta, invece che del riscaldamento torrido.
Poiché, il rischio di destabilizzazione del sistema climatico è tanto maggiore quanto maggiore è la velocità del suo riscaldamento, semplici criteri di prevenzione (principio di precauzione), ma anche di buon senso, ci consigliano di contenere il riscaldamento climatico entro variazioni molto piccole e, comunque, tali da poter essere considerate ancora perturbazioni «lineari», piuttosto che lasciare, in modo incontrollato ed incontrollabile, la possibilità che avvengano variazioni rapide, il cui esito potrebbe essere del tutto imprevedibile e perfino catastrofico.

La prevenzione dei rischi

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( Direttore Centrale Enea )

Le Nazioni Unite hanno affrontato il problema dei cambiamenti climatici da un punto di vista delle analisi del «rischio», con un ragionamento molto semplice: se il cambiamento climatico rappresenta un rischio per l’Umanità, noi dobbiamo affrontare questo rischio esattamente come si affrontano tutti i rischi: agendo sia sulle cause del rischio per minimizzarne i fattori di insorgenza, sia sugli effetti del rischio per minimizzarne le conseguenze negative ed i danni.
La riduzione delle cause del rischio di cambiamento del clima, nel linguaggio delle Nazioni Unite, si chiama «Strategia di mitigazione». Invece, la riduzione delle conseguenze negative e dei danni derivanti dal rischio di cambiamento del clima, si chiama, sempre nel linguaggio delle Nazioni Unite, «Strategia di adattamento».
La strategia di mitigazione dei cambiamenti climatici, che agisce sulle cause dei cambiamenti del clima, ha l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas ad effetto serra provenienti dalle attività umane al fine di eliminarne l’accumulo di gas serra in atmosfera, accumulo che, per le caratteristiche che hanno questi gas di trattenere il calore, determina uno spostamento dell’equilibrio complessivo del bilancio energetico del sistema climatico e, quindi, una variazione del clima.

La strategia di adattamento ai cambiamenti climatici, che agisce sugli effetti dei cambiamenti del clima, ha, invece, l’obiettivo di minimizzare le possibili conseguenze negative derivanti dai cambiamenti climatici ormai in atto (e non evitabili attraverso il taglio delle emissioni di gas serra e la conseguente stabilizzazione della loro concentrazione nell’atmosfera) e di prevenirne gli eventuali danni futuri riducendo la vulnerabilità territoriale e quella socio economica ai cambiamenti del clima, e sfruttando, ove possibile, le nuove opportunità di sviluppo socio economico che dovessero sorgere con i cambiamenti climatici.
Anche se la strategia di adattamento ai cambiamenti climatici dipende dalla strategia di mitigazione (ed in particolare dalla sua efficacia e dalla sua tempestività di attuazione), perché maggiore è lo sforzo di mitigazione (cioè di riduzione delle emissioni di gas serra), minore sarà lo sforzo di adattamento, tuttavia adattarsi non significa rassegnarsi all’ineluttabile, perché l’adattamento è fondamentalmente una azione di prevenzione dei rischi e di protezione dell’ambiente, del territorio e del benessere socio economico e socio sanitario della popolazione.

La strategia di mitigazione è una strategia internazionale perché l’azione delle riduzione delle emissioni potrà essere efficace solo se tutti i Paesi concorreranno insieme con uno sforzo comune per ottenere il risultato necessario. Il problema è quello di ripartire equamente costi e benefici di tale azione comune, un problema questo che è ormai in discussione da tempo in un lungo processo negoziale che ha trovato una prima tappa (solo per i paesi industrializzati) nel protocollo di Kyoto, approvato nel 1997 ed entrato in vigore nel 2005, ma che dovrà trovare una seconda e definitiva tappa (per tutti i paesi del mondo) con una soluzione unanime, equa e condivisa da tutti, che avrà validità a partire dal 2012 (data di scadenza del protocollo di Kyoto). Questa soluzione unanime dovrà essere messa a punto e discussa entro la fine del 2009 (come stabilito nel 2007


a Bali, in Indonesia) in occasione di una specifica conferenza convocata a Copenhagen.

La strategia di adattamento è, invece, una strategia essenzialmente nazionale, anche se dovrà trovare opportune forme di omogeneizzazione metodologica a livello internazionale. Si tratta, in pratica, di un processo attraverso il quale ogni Paese dovrà cercare di prepararsi ad affrontare le incertezze del futuro, attrezzandosi opportunamente (piani, programmi, tecnologie, organizzazione, formazione scientifica, informazione, ecc.) per minimizzare i contraccolpi negativi che possono derivare dai cambiamenti del clima e per prevenire i possibili danni. Ma nello stesso tempo, ciascun Paese dovrà anche cercare di prepararsi per trasformare quelli che potrebbero essere possibili punti di debolezza del proprio sistema socio?economico, in possibili punti di forza, cioè prepararsi anche a saper cogliere e sfruttare le nuove opportunità che potranno presentarsi a causa dei cambiamenti del clima e dei suoi effetti.
I problemi maggiori per la definizione e l’attuazione di una strategia di adattamento si pongono per i Paesi in via di sviluppo che non hanno adeguate conoscenze tecnico scientifiche, capacità tecnologie, risorse finanziarie ed efficiente organizzazione sociale, per definire azioni idonee per i loro problemi di adattamento.
In questo contesto, le Nazioni Unite hanno chiesto una forte cooperazione internazionale fra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo ed hanno istituito anche appositi fondi finanziari ed organismi di supporto per venire incontro alle esigenze dei paesi più poveri. Ma hanno anche chiesto che sia agevolato il trasferimento di nuove tecnologie verso i paesi più poveri e che vengano accresciute le capacità di conoscenza e di consapevolezza dei problemi, le capacità istituzionali e di intervento operativo e tutte quelle condizioni di base che vanno sotto il nome di «capacity building». Anche su questo versante nella conferenza di Copenhagen del 2009, citata precedentemente, si dovrà pervenire con una serie di proposte concordate fra tutti Paesi (ricchi e poveri) delle Nazioni Unite da discutere e da accettare consensualmente.

Il Piano turistico regionale della Basilicata

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Il Piano turistico regionale si articola lungo circa 250 pagine e 12 capitoli. Nei primi capitoli si definiscono gli obiettivi del Ptr e la metodologia di lavoro. «Il nuovo Ptr si propone di offrire una visione organica e coerente degli obiettivi e delle strategie di sviluppo da perseguire seguendo le logiche della competitività e del mercato, favorendo nuove modalità aggregative dei sistemi territoriali vocati al turismo e in grado di raccogliere le sfide poste dai nuovi scenari. Il documento intende, inoltre, valutare qual è il posizionamento della Basilicata nel contesto italiano, nell’ambito della vorticosa crescita dell’industria dell’ospitalità, e costruire un approccio fondato su standard elevati di organizzazione e di qualità».

In particolare, il Ptr individua due macro-obiettivi:
1) sostenere e accompagnare la crescita dei prodotti in espansione e/o maturi agendo soprattutto sui fattori di contesto (Metapontino, Matera, Maratea, Melfi/Venosa);
2) incrementare le quote di mercato implementando un articolato sistema di offerta (rurale, naturalistico, enogastronomico, culturale) in diverse aree territoriali, coerente con la nuova e variegata domanda presente sul mercato.

Nella prima parta, inoltre, si analizzano i trend del turismo nel mondo e in Italia non trascurando gli effetti della recente crisi internazionale. «Il turismo straniero ha scelto l’Italia, nel 2007, come indicato dall’Osservatorio Turismo 2007 dell’Unioncamere-Isnart, soprattutto per la cultura (40,4%), poi per il mare (32,55%), per la montagna (12,3%) per i laghi (9,3%) mentre in quote minori per le terme (3,9%) e per il turismo verde (1,8%)».

La Basilicata «è una meta turistica prevalentemente per gli italiani. Circa il 90% dei turisti sono infatti di origine italiana e i flussi provengono, per la maggior parte dalla Campania (17%), dal Lazio (12%) e soprattutto dalla Puglia (25%), oltre che dalla Basilicata stessa (9%)».
Tra le aree turistiche analizzate il Metapontino risulta il polo turistico più scelto, 33% degli arrivi sul totale regionale. Seguono Matera (17%), Vulture e Maratea (10%), Potenza (9%) ed il Pollino (7%). Tali dati evidenziano che il Metapontino è già un prodotto di successo, mentre i restanti sono ancora da sviluppare, a breve e medio termine.

Tra il 1999 e il 2007 gli arrivi crescono di circa il 30% e le presenze monitorate hanno ormai superato il milione e ottocentomila. Si stimano nel totale (comprese le altre forme di ospitalità non monitorate) circa 2 milioni. L’incremento medio è stato del 6% annuo.
Ampio spazio, nella parte centrale del Ptr, viene dato alle diverse declinazioni del turismo. Si passa dal cineturismo al turismo enogastronomico a quello naturalistico, al turismo culturale, passando per il geoturismo, il turismo termale e del benessere, il turismo sociale, scolastico e congressuale, religioso, sportivo, invernale e così via. «Resta urgente dar vita a prodotti turistici effettivi, ossia a soluzioni organizzate, promosse e comunicate adeguatamente attraverso un nuovo modello di governance in grado di riflettere la natura di ?sistema? del turismo e non più di settore, integrando le diverse politiche e azioni prima considerate settorialmente (ambientali, enogastronomiche, culturali, comunicazionali)».

La parte più operativa riguarda le linee strategiche


del Ptr con il passaggio dalle aree prodotto ai prodotti d’area, l’individuazione dei modelli strategici di offerta, la differenziazione delle politiche di marketing e l’analisi sul posizionamento della Basilicata all’interno del panorama nazionale e internazionale e le relative strategie di marketing. Spazio anche alla necessità di costruire solide relazioni con le pro-loco e con i privati che operano in questo settore.
Nella parte finale vengono individuate le politiche per l’attrattività turistica legata agli eventi culturali e di animazione soffermandosi su tre temi fondamentali: Cultura, innovazione, ospitalità diffusa. Infine, riflettori puntati sui Piot, pacchetti integrati per l’offerta turistica.
Il Ptr si chiude con un approfondimento normativo, con un capitolo sulla governance del sistema turistico regionale, e con la parte bibliografica.

(Fonte Regione Basilicata)

Dalle carestie alle guerre

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( Dottore di ricerca in Geobotanica )

Dopo Giovanni Tozzetti la fitoalimurgia perde progressivamente di interesse, evidentemente la fame, le carestie si fanno sentire sempre meno, ma nuove crisi alimentari non mancheranno, e saranno quelle causate dalle guerre. Solo durante la Prima guerra mondiale si distingueranno nuovi lavori fitoalimurgici: Phytoalimurgia pedemontana (memoria di conoscenze botaniche e di tradizioni popolari sulle erbe spontanee del Piemonte) di Oreste Mattirolo (1918), ordinario di Botanica (Bologna, Firenze, Torino) e direttore dell’Istituto e Orto Botanico dell’Università di Torino; un’altra testimonianza letteraria è una Carta fitoalimurgica dell’Istria e dell’Illiria (A. Tukakov, 1943) per aiutare le popolazioni locali a superare, con le piante spontanee, le notevoli difficoltà alimentari durante la Seconda Guerra Mondiale.
Sempre in questo periodo la fitoalimurgia è attiva anche altrove: le truppe statunitensi sbarcate in Italia disponevano di un manuale di fitoalimurgia, approntato da una commissione di botanici americani, da utilizzare come prontuario di sopravvivenza.

Vincenzo Giuliani

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( Dottore di ricerca in Geobotanica )

Per la nostra Capitanata mancano lavori scientifici in proposito; tra l’altro, la stessa «botanica» trova pochi riferimenti anche a livello di studiosi locali.
I personaggi che meritano di essere citati sono almeno tre attraverso i quali possiamo avere un’idea del rapporto delle nostre comunità con le piante: Vincenzo Giuliani (Vieste, 1753), Michelangelo Manicone (Vico del Gargano, 1806) e Luigi Baselice (1812).
L’intento di Giuliani è quello di illustrare ai suoi garganici la ricchezza vegetale del Promontorio e dei loro pregevoli «liquori» medicamentosi, per cui parlerà di manna, e di frassino ed orniello «da cui estraggasi», camomilla e di tante altre specie, perché il Gargano e «un giardino di Botanica» nel quale «vi nascono molte erbe attinenti alla medicina e vengono dai paesi forastieri a raccoglierle gli Erbattoli».
Negli anni del Giuliani l’interesse per le piante è quello medicinale, così è ovunque, la botanica, infatti, è ancora una branca della medicina. Nel suo elenco, limitato, perché «eccederebbe dal suo istituto» (ma se il tempo lo permetterà e, contribuiranno le forze, spera di darne un saggio più distinto) si trova la «Bietola selvatica, nella nostra città detta Ghieta, di cui ne fanno uso in minestre…», con foglie «liscie, ripiene di sugo, e di un gusto nitroso». Ma l’intento di Giuliani è quello di evidenziare che la Ghieta «purifica il sangue ed essendo ammolliente muove il ventre». Per cui se si può trovare qualche altro riferimento utile al nostro scopo, come il finocchio selvatico «che comunemente passa con il nome di Finocchietto di Puglia…, quantunque di un gusto piacevole, … il succo dalle foglie spremuto lo decantano a rischiarar la vista».
Così sarà per gli asparagi «buoni da mangiare, di gran uso nelle cucine ed esquisiti sono, apparecchiandosi col brodo di pesce», ma solo perché «provocano l’orina, e perciò giovano nell’iscuria, disuria e stranguria, e molti gli commendano come un preservativo ne’ calcoli, e nei vizi tutti de’ reni». Così sarà, infine, per i capperi, che «condite, vaglioni a risvegliar l’appetito; … si colgono per serbarli nella salmoia, o nell’aceto…, dei quali nella città di Foggia se ne fa tanto acquisto, empiendo botti per spedirle altrove» perché la sua radice è molto «lodata per la sua virtù astergente ed incisiva a togliere le ostruzioni della milza, e del fegato».

Michelangelo Manicone

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( Dottore di ricerca in Geobotanica )

Per ciò che riguarda Manicone, trattandosi di un’opera veramente «universale», riferimenti indiretti utili al nostro scopo non mancano, per cui già nelle prime pagine si trova un paragrafo dedicato alla «pampanella» (Pimpinella, Sanguisorba minor), come ingrediente fondamentale per la preparazione di quella che oggi potremmo chiamare semplicemente come «porchetta».
Per il resto, Manicone va oltre: le sue piante «alimurgiche» non sono le erbe spontanee ma sono, invece, piante nuove che studia, propone, come la patata, appena sperimentata in coltura in Europa, o piante che possono creare nuove occasioni economiche come le sue piante di caffè (bacche di pungitopo, biancospino) e le piante zuccherine.