Catastrofi e conflitti

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Mentre i disastri naturali di origine geologica (terremoti, eruzioni vulcaniche) sono rimasti praticamente costanti, i disastri di origine climatica (cicloni, tifoni, uragani, eventi estremi di vario tipo, ecc.) e quelli associati di tipo idrogeologico (alluvioni, inondazioni, frane, smottamenti, ecc.) sono in continuo aumento.
Siamo passati, infatti, dai circa 100 eventi per decennio degli anni 40 agli oltre 3.000 eventi per decennio degli anni 90, fino ad arrivare a 4.850 disastri in un solo quinquennio, nel periodo 2000-2005.
Il legame tra disastri, degrado dell’ambiente ed attività umane insostenibili appare del tutto evidente. Con i disastri aumenta la conflittualità sociale tra popolazioni e non solo tra gruppi di popolazione nell’ambito della stessa nazione, ma anche tra paesi confinanti, perché aumentano anche le migrazioni ambientali delle popolazioni più povere verso territori le cui risorse naturali non sono state distrutte o verso territori meno vulnerabili agli eventi estremi.

Uso efficiente delle risorse

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L’Unep pone particolare attenzione nella costruzione e gestione efficiente degli edifici consumano circa un terzo dell’energia e sono responsabili di circa un terzo delle emissioni globali di gas serra.
L’uso efficiente dell’energia riguarda non solo il riscaldamento/raffreddamento ma anche tutti gli elettrodomestici e le attrezzature commerciali. Uguale attenzione viene posta sul trasporto e la mobilità che sono responsabili del 20% delle emissioni di gas serra a livello globale con una forte impennata alla crescita di tali emissioni, a mano a mano che i paesi in via di sviluppo procedono verso la loro industrializzazione.
Questo significa che il problema già cruciale nei paesi industrializzati, lo sarà ancor di più nei prossimi 20 anni quando l’attuale parco dei mezzi di trasporto, stimato in 650 milioni di veicoli circolanti, si raddoppierà. Infine, l’Unep, considera l’uso della risorsa acqua, una risorsa che è indisponibile per 880 milioni di persone dei paesi più poveri e che è scarsamente disponibile per altri 2,5 miliardi di persone.
La disponibilità di acqua e l’uso corretto delle risorse idriche rappresentano una priorità mondiale ed un presupposto fondamentale per eradicare la povertà, le malattie ed il sottosviluppo.

Governance dell’ambiente

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Tuttavia, vi sono comunque diversi problemi potenziali che potrebbero derivare dell’utilizzo di Ogm:

1) la possibilità che i geni Ogm vengano trasferiti a varietà selvatiche;

2) i rischi per la biodiversità prodotti dall’espansione non controllata di varietà resistenti a erbicidi o parassiti;

3) la formazione di nuove varietà di parassiti resistenti ancora più aggressivi;

4) la possibilità che i prodotti utilizzati per le specie infestanti, risultino tali anche per specie utili o comunque non dannose (come la controversa vicenda degli effetti della tossina Bt sulla farfalla monarca).

Senz’auto si può

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A Londra, le prime case per abitanti «senz’auto» sorgeranno nel quartiere di Camden. Si tratta di 90 appartamenti e villette in tre complessi residenziali che saranno pronti per il 1999.
I primi progetti di quartieri chiusi alle auto, circolavano già dal 1994 in Germania. A Berlino 1.300 famiglie si dichiaravano pronte a rinunciare all’auto e c’erano già 14 milioni di cittadini che sbrigavano le proprie faccende a piedi, in bici o con mezzi pubblici. Ad Amsterdam è in costruzione un quartiere di 600 appartamenti e a Vienna si costruiscono 300-500 abitazioni.
E’ una moda o una tendenza? Le città del futuro saranno senz’auto? Secondo alcune previsioni nel 2010 abiteranno nelle città 3,3 miliardi di persone rispetto a un totale previsto di 6,59 miliardi. E c’è chi prevede che nel 2000 le immatricolazioni di veicoli nuovi supereranno i 40 milioni a fronte dei 34,4 del 1995. La tendenza dovrebbe essere confermata nel 2004 con la circolazione sulle strade di tutto il mondo di 45 milioni di veicoli nuovi.

I gas serra

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L’anidride carbonica (CO2, circa 80% delle emissioni nazionali nel 1995) è prodotta da tutti i processi di combustione (in ragione di 4 / 3 / 2,35 / 0 tonnellate di CO2 per tonnellata equivalente petrolio di carbone, petrolio, metano e biomassa rispettivamente) e da alcuni processi industriali (come il cemento).
Il metano (CH4, circa 10% delle emissioni nazionali nel 1995) è prodotto dalle discariche di rifiuti, in zootecnia e in agricoltura.
Il protossido di azoto (N2O, circa 10% delle emissioni nazionali nel 1995) è prodotto in agricoltura e foreste, nella combustione e in alcuni processi industriali.
I perfluorocarburi (PFC, circa 0,01% delle emissioni nazionali nel 1995) sono impiegati nella refrigerazione.
Gli idrofluorocarburi (HFC, circa 0,6% delle emissioni nazionali nel 1995) sono sostituti dei CFC nelle schiume isolanti e antiincendio, nei circuiti frigoriferi e di condizionamento.
I fluoruri di zolfo (principalmente SF6, circa 0,6% delle emissioni nazionali nel 1995) sono utilizzati in alcune produzioni industriali (per esempio alluminio).

La Terza Conferenza

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La prima conferenza delle parti (Berlino, 1995) ha deciso di avviare un processo per elaborare politiche e misure comuni di mitigazione e per stabilire limiti quantitativi di contenimento e riduzione delle emissioni di gas serra in tempi definiti. La terza conferenza delle parti si è tenuta a Kyoto ed ha approvato un protocollo vincolante (il cui testo è riportato nel sito: ) che pone limiti alle emissioni annuali medie di gas serra nel periodo 2008-2012 per tutti i paesi sviluppati e con economie in transizione. Le riduzioni vanno conteggiate rispetto all’anno base, il 1990; pertanto le parti firmatarie che prevedono aumenti delle emissioni dal 1990 al 2010 devono conseguire riduzioni ben più sostanziose di quanto indicato nel protocollo. Nel conteggio entrano i sei maggiori gas serra non vincolati dal protocollo di Montreal sulla protezione della fascia di ozono. Il conteggio delle emissioni va fatto al netto del carbonio ricatturato mediante incremento delle foreste. Una parte (minore del 50%) delle riduzioni si può conseguire mediante investimenti all’estero o mediante commercio di emissioni (con modalità tecniche tutte da definire in negoziati che stanno iniziando e potranno essere almeno in parte codificati nella quarta conferenza delle parti che si terrà a novembre del 1998 a Buenos Aires). Il protocollo entra in vigore se entro il marzo del 1999 sarà stato ratificato da almeno 55 paesi, che complessivamente siano responsabili del 55% delle emissioni mondiali.

Perché il riferimento 1990

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La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, concordata al vertice della terra tenutosi nel giugno del 1992 a Rio de Janeiro, entrata in vigore il 21 marzo ’94, è un trattato internazionale cui anche l’Italia ha aderito (da non confondere con l’Agenda 21, documento molto più vasto teso a fornire alle nazioni un indirizzo programmatico per conseguire uno sviluppo sostenibile mondiale). Suo obiettivo centrale è quello di «stabilizzare le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera ad un livello che previene interferenze antropogeniche gravi con il sistema del clima. Questo livello dovrebbe essere raggiunto in tempi sufficienti per permettere agli ecosistemi di adattarsi naturalmente ai cambiamenti climatici, per assicurare che la produzione di cibo non venga messa a repentaglio e per consentire che lo sviluppo economico avvenga in modo sostenibile». La Convenzione impegna fra l’altro i paesi sviluppati e quelli con economie in transizione (paesi dell’Annesso 1) ad assumere un ruolo guida nella modifica degli attuali andamenti di emissione a lungo termine attraverso l’impegno a riportare le proprie emissioni nel 2000 ai livelli del 1990. Come d’uso, gli impegni che le parti firmatarie assumono per attuare gli obiettivi vengono specificati da successivi protocolli. Il primo protocollo di attuazione è stato firmato a Kyoto.

Adempimenti nazionali

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La delibera Cipe del 3 dicembre ’97 di Approvazione delle linee generali della «seconda Comunicazione Nazionale alla Convenzione Sui Cambiamenti Climatici» indica un percorso che l’Italia intende seguire per adempiere agli obblighi della Convenzione di Rio e del Protocollo di Kyoto. Sono previsti tre livelli di impegno.
1. Un primo gruppo di interventi consentono di ridurre le emissioni in Italia nel 2010 del 2-3% rispetto a quelle del 1990 con ritorni anche economici, perché il loro costo è in generale inferiore ai benefici che apportano in termini di riduzione dei consumi di energia fossile, di protezione dell’ambiente regionale e locale, di ammodernamento settoriale.
2. Gli interventi del secondo gruppo indicano come ridurre le emissioni del 7%, mediante altri interventi, che non si giustificano interamente dal punto di vista economico, ma nel breve termine non distorcono la concorrenza, perché concordati con gli altri paesi sviluppati, e nel lungo termine possono portare molti benefici in termini di innovazione e di competitività.
3. Il terzo pacchetto di misure consente di ridurre le emissioni in Italia nel 2010 del 10% circa rispetto al 1990 ma si prospetta economicamente oneroso.
Le misure e i provvedimenti in grado di rendere operativi gli interventi nei settori nazionali di energia, trasporti, civile, industria, agricoltura, rifiuti, comunicazione e informazione, ricerca sul clima, sia a livello nazionale che locale, e quelli a valenza internazionale, sono demandati alle amministrazioni competenti. La prima scadenza è fissata per il 30 aprile ’98.

Il rischio dei cambiamenti climatici

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Il «Secondo Rapporto sul Clima Globale», predisposto da alcune centinaia di scienziati dell’Intergovernmetal Panel for Climate Change sotto l’egida dell’Onu attraverso un lungo processo di analisi e valutazione delle informazioni e delle previsioni disponibili, sviluppato nel corso di quattro anni di lavori tra il 1991 e il 1995, afferma, tra l’altro, che
* è sempre più evidente l’influenza antropogenica sul clima globale, determinata dalle emissioni di gas serra prodotte dalle attività umane;
* senza specifiche politiche e misure per mitigare i cambiamenti climatici, la temperatura media superficiale globale relativa al 1990 è destinata a crescere di circa 2°C (tra 1,5 e 3,5°C) entro il 2100;
* il livello medio dei mari è destinato a crescere entro il 2100 di circa 50 cm (tra 15 e 95 cm) rispetto al livello del 1990, con la compromissione di vaste aree costiere intensamente popolate;
* il riscaldamento globale potrà determinare modifiche significative nei cicli climatici con l’intensificazione dei fenomeni estremi (forti precipitazioni con eventi alluvionali alternate a lunghi periodi di siccità), alterazioni degli ecosistemi terrestri e acquatici, effetti sulla degradazione e aridificazione dei suoli, modificazioni delle produzioni agricole);
* l’aumento delle temperature avrà effetti sulla salute, diretti (incremento delle morti e delle malattie a causa delle «onde di calore») e indiretti (aumento e diffusione, anche nelle zone temperate, di malattie infettive tipiche delle zone tropicali;
* per garantire che entro il 2100 le concentrazioni di gas ad effetto serra siano contenute entro livelli «compatibili», ovvero per raggiungere l’obiettivo della stabilizzazione della concentrazione atmosferica di CO2 a livelli doppi rispetto a quelli dell’era preindustriale, le emissioni globali dovranno corrispondere alla metà di quelle attuali
.
Secondo le proiezioni del Panel, le emissioni mondiali di CO2 dal settore energia, che costituiscono più del 95% delle emissioni totali, senza interventi correttivi tendono a crescere entro il 2010 del 30%-50% a causa dell’aumento del fabbisogno di energia necessaria allo sviluppo economico mondiale.

Sandra Postel

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Sandra Postel attualmente dirige il Global Water Policy Project, nel Massachusetts, in passato ha ricoperto incarichi alle Nazioni Unite e alla Banca mondiale su problematiche ambientali e ha co-diretto con Lester Brown il prestigioso World Watch Institute di Washington. Pubblica articoli sul New York Times e sul Washington Post e tiene conferenze, lavora come consulente per l’Unione europea e sta scrivendo un libro sul rapporto acqua-agricoltura: da sempre l’attività umana che ne consuma di più, che sarà pubblicato il prossimo anno. Villaggio Globale l’ha intervistata.

Amazzonia

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Nel corso dei tre ultimi anni, 47.220 Kmq di foresta amazzonica (una superficie superiore a quella della Svizzera) sono stati distrutti in Brasile, secondo il rapporto sulla deforestazione in Amazzonia, reso pubblico dall’Istituto nazionale di ricerche spaziali (Inpe) di São José dos Campos. La regione copre 5,1 milioni di Kmq ossia circa il 60% del territorio nazionale.

Città

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Saranno le città il luogo più insalubre del pianeta nel prossimo secolo. Secondo una previsione Oms (Organizzazione mondiale della sanità) entro il 2025 il 61 per cento della popolazione della terra abiterà in centri urbani, e ciò accadrà soprattutto nei Paesi del Terzo mondo.
A causa delle acque inquinate potrebbero verificarsi epidemie di colera ma anche di diarrea, morbillo e tubercolosi. Secondo l’Oms le città con popolazione tra i 10 e i 18 milioni di abitanti saranno nell’ordine delle dozzine.
Attualmente in Cina, secondo l’agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente, la città più inquinata è Pechino che è al decimo posto nella classifica mondiale. I dati rilevati su particelle sospese, biossido di zolfo ed ossido di azoto riscontrati nel ’96 superavano di gran lunga sia i limiti stabiliti in Cina, sia quelli dell’Organizzazione mondiale della Sanità.
L’inquinamento di benzene, invece, è maggiore nelle città del sud Europa rispetto a quelle del nord. E oltre a Città del Messico e Atene soffoca anche Teheran. Nella metropoli di 12 milioni di abitanti, circa 4.000 persone muoiono ogni anno per gli effetti dell’inquinamento. Mentre a Città del Messico, dove circolano tre milioni di auto e si trovano 30mila industrie, il governo spenderà oltre 18mila miliardi di lire nei prossimi quattro anni per combattere l’inquinamento.

Caldo

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Nelle prime due settimane del mese di febbraio si sono registrati fino a 10-15 gradi in più della media. A Milano e Torino si sono avuti fino a 10-15 gradi in più dei valori medi a causa di una fascia di alta pressione che ha interessato principalmente l’Italia settentrionale. A Milano si sono registrate punte di 23 gradi, a Torino 21 ed a Roma 18.

Senz’auto si può

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A Londra, le prime case per abitanti «senz’auto» sorgeranno nel quartiere di Camden. Si tratta di 90 appartamenti e villette in tre complessi residenziali che saranno pronti per il 1999.
I primi progetti di quartieri chiusi alle auto, circolavano già dal 1994 in Germania. A Berlino 1.300 famiglie si dichiaravano pronte a rinunciare all’auto e c’erano già 14 milioni di cittadini che sbrigavano le proprie faccende a piedi, in bici o con mezzi pubblici. Ad Amsterdam è in costruzione un quartiere di 600 appartamenti e a Vienna si costruiscono 300-500 abitazioni.
E’ una moda o una tendenza? Le città del futuro saranno senz’auto? Secondo alcune previsioni nel 2010 abiteranno nelle città 3,3 miliardi di persone rispetto a un totale previsto di 6,59 miliardi. E c’è chi prevede che nel 2000 le immatricolazioni di veicoli nuovi supereranno i 40 milioni a fronte dei 34,4 del 1995. La tendenza dovrebbe essere confermata nel 2004 con la circolazione sulle strade di tutto il mondo di 45 milioni di veicoli nuovi.

Antenne1

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Le antenne installate dagli operatori della telefonia mobile sono un elemento di degrado dello spazio urbano. Partendo dalla constatazione del danno ambientale e dell’affermazione che «chi inquina paga» un comune di Bruxelles ha inventato una nuova tassa per gli installatori di antenne.
Se l’idea piacerà alle autorità locali di altri comuni belgi il provvedimento, il primo del genere nel paese, costerà caro agli operatori del settore. La tassa annuale applicata per il degrado da antenna è di circa cinque milioni (100.000 franchi).

Antenne2

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In attesa di una legge nazionale contro l’elettrosmog, Bologna ha delineato una sua strategia. Pietra angolare sono i limiti fissati per l’esposizione ai campi elettromagnetici. Limiti severi, visto che per le basse frequenze il valore (0,2 microtesla con una fascia di tolleranza del 50%) è di cento volte inferiore a quello nazionale, mentre per le alte frequenze (0,01 mW/cm quadrato) rappresenta un’anteprima dato che a livello nazionale il limite non c’è ancora.

Venti anni di State of the World

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In attesa di una legge nazionale contro l’elettrosmog, Bologna ha delineato una sua strategia. Pietra angolare sono i limiti fissati per l’esposizione ai campi elettromagnetici. Limiti severi, visto che per le basse frequenze il valore (0,2 microtesla con una fascia di tolleranza del 50%) è di cento volte inferiore a quello nazionale, mentre per le alte frequenze (0,01 mW/cm quadrato) rappresenta un’anteprima dato che a livello nazionale il limite non c’è ancora. Venti anni fa il Worldwatch Institute pubblicava il suo primo State of the World, che ebbe subito un notevole successo di vendita e di traduzioni.
Oggi questo straordinario rapporto, scritto in maniera chiara e avvincente e basato sui migliori dati scientifici a disposizione, è tradotto ogni anno in oltre 30 lingue (dal cinese all’arabo, dal rumeno al persiano, dal russo all’hindi) e costituisce il documento più noto e diffuso che rende conto della ricca complessità interdisciplinare dello sviluppo sostenibile.
Si tratta di un volume che non può mancare nella biblioteca di chiunque abbia minimamente a cuore il nostro futuro e l’interpretazione della complessa realtà ambientale, economica e sociale in cui siamo immersi.
Il merito dell’intuizione che ha condotto a questo rapporto annuale è del fondatore del Worldwatch Institute, Lester Russel Brown, che ? dopo aver portato nei primi dieci anni l’istituto alla notorietà grazie alla qualità delle sue pubblicazioni (tra le quali il famoso volume Il 29° giorno) con lo State ha richiamato su di sé e sulla sua équipe l’attenzione di tutto il mondo, tanto da essere definito dal «Washington Post»uno dei più influenti pensatori del nostro tempo.
Lester Brown ha fondato nel 2001 un altro Istituto, l’Earth Policy Institute, che si occupa specificamente di dimostrare la praticabilità di un’economia ecologica nelle odierne società dominate ancora dal mito della crescita economica, ma resta sempre un grande ispiratore delle attività del Worldwatch.
Il primo State, quello del 1984, fu scritto da Lester Brown e da cinque suoi collaboratori, Christopher Flavin (che oggi è il presidente dell’Istituto e ha preso il posto di Brown), William Chandler, Sandra Postel (nota esperta dei problemi legati all’acqua, che da vari anni ormai dirige il «World Water Policy Project»), Linda Starke e Edward Wolf.
Brown decise di lanciare il Worldwatch in questa avventura perché riteneva maturo il tempo per presentare, annualmente, un rapporto sullo stato del nostro pianeta, focalizzandolo in un’ottica ambientale con la necessaria considerazione dei risvolti economici, sociali e politici, e realizzando di fatto un esempio concreto di rapporto sulla sostenibilità del nostro sviluppo.

Nessuna istituzione ufficiale o organismo delle Nazioni Unite provvedeva allora a questo compito (sono arrivati successivamente i rapporti «World Resources» del World Resources Institute, dell’UNEP, dell’UNDP e della Banca Mondiale e i «Global Environment Outlook» dell’UNEP).
In questo modo Brown e i suoi sono stati, senza alcun dubbio, dei veri pionieri dello sviluppo sostenibile, in un periodo in cui il termine «sviluppo sostenibile» non era ancora «ufficiale» come oggi.
Nel rapporto del 1984 i capitoli trattavano questi temi: la necessità di stabilizzare la popolazione, quella di ridurre la dipendenza dal petrolio, la conservazione del suolo, la protezione delle foreste, il riciclaggio dei materiali, lo stato e i costi dell’energia nucleare, la necessità di sviluppare le energie rinnovabili, il futuro dell’automobile, il futuro dell’alimentazione e la ricostituzione delle politiche economiche. Tutti temi di grandissima attualità ancor oggi.
Allora restai letteralmente folgorato dalla lettura di quel volume e dalla straordinaria capacità di Brown e del suo staff di


proporre temi complessi con una rara mistura di interdisciplinarietà, serietà e divulgazione. Cercai subito un editore italiano disposto a pubblicare il rapporto annuale ma ci riuscii solo nel 1988 e, da allora, ho il grandissimo piacere di far parte di questa avventura intellettuale sia come amico di Lester Brown, Chris Flavin, Hilary French e di altri membri del Worldwatch, sia come curatore dell’edizione italiana dello State e di altre opere dell’Istituto.
Dal 1998 in questa avventura è coinvolta Edizioni Ambiente, ormai divenuta un punto di riferimento ineludibile di pubblicazioni autorevoli e documentate sulle problematiche della sostenibilità.

Dal 1984 a oggi la situazione ambientale non può definirsi complessivamente migliorata; ma, senza dubbio, grazie anche a opere come lo State si è andata diffondendo un’innovativa cultura della sostenibilità che ha reso possibile anche le due grandi conferenze delle Nazioni Unite: quella sull’ambiente e lo sviluppo di Rio de Janeiro (1992) e quella sullo sviluppo sostenibile a Johannesburg (2002).
Questa nuova cultura, che si nutre profondamente di interdisciplinarietà e di complessità, ci mette a confronto con i limiti della nostra stessa conoscenza, con l’urgenza della consapevolezza di vivere entro i limiti dei sistemi naturali ? da noi purtroppo abbondantemente ignorati ? tenendo sempre conto dell’importanza dell’adattabilità e dell’apprendimento dei nostri sistemi sociali ed economici nella loro relazione con quelli naturali.
Lo spirito che da sempre anima il lavoro del Worldwatch si può riscontrare in tanti scritti di Lester Brown e di tanti altri studiosi che hanno contribuito nel profondo a creare la cultura innovativa della sostenibilità. Nelle conclusioni del già citato volume Il 29° giorno, Brown (1978) scriveva: «La principale dinamica che ha plasmato la società dopo gli inizi della Rivoluzione Industriale è stata l’etica della crescita. Se la crescita materiale come l’abbiamo conosciuta finora non può continuare a tempo indefinito, una nuova etica ? l’etica dell’adattamento ? è destinata a sostituirla. […] Il fatto che la crescita fisica o materiale come l’abbiamo conosciuta nelle società industriali possa non continuare più a lungo non dovrebbe preoccuparci o spaventarci più di quanto l’ingresso nella maturità possa spaventare un adolescente. […] Un mutamento nella natura della crescita potrebbe essere una fortuna, non un disastro. I mutamenti incombenti permetteranno ogni dimensione dell’esistenza umana: stili di vita, modelli di proprietà della terra, strutture economiche, dimensioni della famiglia, relazioni internazionali e sistema scolastico. Un sistema economico costretto a creare continuamente nuovi bisogni materiali attraverso la pubblicità e poi nuovi prodotti per soddisfare quei bisogni non è sostenibile. I suoi giorni sono contati. Il mutamento sarà obbligatorio o volontario: alcuni mutamenti verranno guidati dal mercato, altri saranno il risultato di norme, altri ancora saranno realizzati mediante mutamenti volontari nel comportamento. La scelta fondamentale sarà fra semplicità volontaria e austerità imposta».

Le società odierne si trovano nella necessità estrema di dare risposte concrete a una complessiva situazione di crisi esistente nei rapporti tra i sistemi da noi stessi creati (sociali, economici, tecnologici) e quelli naturali. Queste risposte sono urgenti e indilazionabili.
Non è più possibile andare


avanti come se nulla fosse, adottando il cosiddetto approccio BAU («Business As Usual») come purtroppo si ama fare, evitando di avviare invece politiche innovative e coraggiose che le conoscenze scientifiche e tecnologiche attuali ci consentirebbero, e capaci di futuro, come la cultura della sostenibilità richiederebbe.
Gli atti dell’amministrazione statunitense di George Bush appaiono un tipico esempio di come si affrontano i problemi con una visione BAU. E questo spirito ha abbondantemente pervaso i lavori del Summit Mondiale delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile di Johannesburg dello scorso 2002 che, certamente, non possiamo indicare come la risposta adeguata alla sfida esistente.

Johannesburg 2002: il summit mondiale sullo sviluppo sostenibile

Alla fine del 2001, il Segretario Generale dell’ONU ha reso noto un rapporto dedicato allo stato di attuazione di quanto deciso a Rio de Janeiro nel grande Earth Summit del 1992: il rapporto ammetteva chiaramente l’esistenza di un gap nell’applicazione di quanto deciso al Summit della Terra, sottolineando il perdurare di un approccio frammentario allo sviluppo sostenibile (United Nations, 2001). Infatti politiche e programmi (sia a livello nazionale che internazionale) hanno generalmente fallito il raggiungimento dell’integrazione tra aspetti economici e ambientali. Inoltre non vi sono stati mutamenti significativi negli insostenibili livelli di produzione e consumo dei nostri sistemi economici, che stanno conducendo i sistemi di supporto della vita a sempre più alti livelli di pericolo. Il Rapporto afferma con chiarezza: «Sebbene i mutamenti richiesti per modificare i pattern di consumo e produzione delle nostre società non siano facili da applicare, questo cambiamento è imperativo». Il Rapporto ricorda inoltre che mancano politiche e approcci coerenti nelle aree della finanza, del commercio, degli investimenti, della tecnologia e quindi dello sviluppo sostenibile.

Si tratta ovviamente di una mancanza ancor più grave in un’epoca di globalizzazione economica, finanziaria e commerciale come l’attuale.
Le politiche su questi problemi non possono restare compartimentalizzate e i governi non possono continuare a essere diretti sulla base di considerazioni di breve periodo, dimenticando l’importanza della visione a lungo termine legata all’utilizzo sostenibile delle risorse naturali. Ancora il Rapporto mette in evidenza la scarsezza delle risorse finanziarie necessarie a implementare quanto deciso a Rio, nonché lo stallo del trasferimento delle tecnologie. La crescita del debito dei paesi poveri (passato dai 1.843 miliardi di dollari del 1992 agli oltre 2.500 miliardi di dollari attuali) ha chiuso ulteriormente le potenziali opzioni per lo sviluppo sostenibile di questi paesi, mentre il crescente flusso degli investimenti privati è troppo ?volatile? e diretto solo a pochi paesi e a pochi settori.
Come giustamente ha ricordato Hilary French (a capo del «Global Governance Project» del Worldwatch) nello State of the World 2002, il testo definitivo dell’accordo stipulato nel contesto dell’Uruguay Round ? che ha dato il via alla nascita dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) nel 1995 ? conta oltre 26.000 pagine, dedicate soprattutto alla specificazione di tariffe e servizi, e copre un imponente insieme di temi (dall’agricoltura alla proprietà intellettuale sino agli investimenti e ai servizi), mentre, al confronto, l’Agenda 21


(il risultato della conferenza di Rio de Janeiro), con le sue 273 pagine sembra una sintetica esortazione ad agire. I negoziatori dell’Uruguay Round non hanno fatto grandi sforzi per incorporare i generici e declamatori impegni di Rio nelle loro decisioni mentre, al contrario, molti provvedimenti disposti in seno al WTO contraddicono lo spirito ? e in alcuni casi la lettera stessa ? degli accordi di Rio (French, 2002).

Il summit di Johannesburg ha avuto luogo quasi un anno dopo i tragici fatti dell’11 settembre 2001, che hanno sconvolto tante certezze, hanno messo totalmente in discussione il concetto di sicurezza dei paesi ricchi e hanno riaperto una profonda riflessione sull’iniquità economica e sociale del mondo odierno. Il Global Environment Outlook 2000 (UNEP, 2000), afferma chiaramente che la crescente povertà della maggioranza degli abitanti del pianeta e l’eccessivo livello dei consumi da parte di una minoranza costituiscono le due maggiori cause di degrado ambientale; l’attuale andamento è insostenibile e posporre ogni azione non può più essere considerata un’opzione possibile.

I dieci anni da Rio de Janeiro a Johannesburg

Qualche elemento di riflessione relativo agli ultimi dieci anni, da Rio a Johannesburg (Bologna, 2002):
1. A più di dieci anni dallo sfacelo dell’impero sovietico, il cambiamento di più vasta portata che ha avuto luogo nell’ultimo decennio è senza dubbio l’ascesa dell’economia transnazionale. Come ricorda Wolfgang Sachs, il commercio ha guidato l’economia globale in una direzione che la porta sempre più in rotta di collisione con i sistemi naturali. Il WTO è il simbolo dell’incondizionato accesso al libero commercio, divenuto il leit motiv dell’élite globale degli anni Novanta, e che ha preso il posto di democrazia e sostenibilità. Marrakesh (Conferenza delle parti sui cambiamenti climatici, nov 2001) ha di fatto messo al margine Rio; l’ambizione inespressa del WTO di trasformare le diverse civilizzazioni in un’unica società del mercato globale è diventata, in tutto il mondo, la vera Agenda 21 (Sachs, 2002). Questa consapevolezza ci deve portare ad agire con forza per avviare processi fortemente correttivi del sistema economico e politico mondiale che possano, finalmente, concretizzare sostenibilità ambientale e giustizia sociale.
2. La conoscenza scientifica circa le dinamiche del cambiamento nei sistemi naturali e circa il ruolo del cambiamento dovuto all’intervento umano è ? pur con gli ovvi dubbi e incertezze che caratterizzano l’analisi dei cosiddetti sistemi adattativi complessi (Gell-Mann, 1996; Waldrop, 1996; Buchanan, 2001) ? certamente più avanzata che nel passato e fa uso di numerosi strumenti innovativi, come i satelliti per l’osservazione attenta e sempre più sofisticata dell’evoluzione degli ecosistemi e del nostro impatto su di essi, o i sempre più complessi e sofisticati modelli di circolazione globale dell’atmosfera. Quanto acquisito nell’ambito dei programmi internazionali di ricerca, come il Global Change Programme, e quanto sintetizzato negli assessment del sistema Nazioni Unite, deve divenire un punto di riferimento ineludibile per l’avvio di politiche concrete da parte dei governi di tutto il mondo.
3. Gli avanzamenti teorici e pratici sul concetto di sostenibilità devono costituire la base per evitare le grandi


confusioni che fino a oggi si sono prodotte sullo sviluppo sostenibile. Le politiche di sostenibilità devono avere un approccio chiaro, pur nella inevitabile flessibilità ed evoluzione (Daly, 2001; Gunderson e Holling, 2002). Devono perciò dotarsi di alcuni elementi fondamentali, che peraltro si ritrovano in alcuni strumenti già oggi in discussione, quali il Protocollo di Kyoto: la ricerca della ?riduzione? dell’impatto, l’obiettivo di raggiungere un target, l’indicazione del tempo entro cui raggiungere il target stesso e l’applicazione di sistemi di monitoraggio e di penalizzazione nel caso l’obiettivo non venga raggiunto. Tutto ciò con la massima attenzione agli importanti meccanismi di adattamento e di apprendimento, fondamentali nelle politiche di sostenibilità (Folke et al., 2002). Non esistono ricette precostituite e universali per applicare politiche di sostenibilità.
I governi dovrebbero lavorare alacremente per comprendere l’importanza della relazione «un essere umano = una quota di natura», nel rispetto del principio di equità, affinché ? pur nelle incertezze conoscitive in cui ci troviamo ? si possa indicare la quota di risorse naturali potenzialmente utilizzabile a livello individuale (senza intaccare le capacità autorigenerative dei sistemi naturali), ma anche la quantità di rifiuti potenzialmente accettabili da parte degli ecosistemi (senza comprometterne la capacità di assimilazione).

Di fronte a queste grandi sfide, la risposta politica e economica è assolutamente inadeguata; Johannesburg ne è stata una drammatica conferma e diventa francamente paradossale constatare come l’inadeguatezza sembra aumentare in modo proporzionale alle maggiori conoscenze scientifiche e alle maggiori chiarezze sul concetto di sostenibilità.
La dichiarazione conclusiva del Millennium Summit delle Nazioni Unite nel settembre 2000 ha elencato i sei valori fondamentali ritenuti essenziali per le relazioni internazionali nel nuovo secolo e cioè libertà, uguaglianza, solidarietà, tolleranza, rispetto dell’ambiente e condivisione delle responsabilità nei confronti dei popoli e del pianeta. Tutti valori straordinariamente importanti e significativi, che sembrano drammaticamente annullati nei fatti dalle politiche internazionali, a cominciare da quella delle grandi istituzioni finanziarie internazionali: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e Organizzazione Mondiale del Commercio.

Le vere priorità dei paesi di tutto il mondo continuano ad essere la crescita economica e la libera circolazione di merci e di denaro. Nell’edizione originale del suo classico Steady-State Economics, del 1977, il grande bioeconomista Herman Daly scrive: «In verità, la crescita economica è l’obiettivo più universalmente accettato nel mondo. Capitalisti, comunisti, fascisti e socialisti vogliono tutti la crescita economica e si sforzano di renderla massima. Il sistema che cresce al tasso più alto è considerato il migliore. Il fascino della crescita è che su di essa si fonda la potenza della nazione e rappresenta un’alternativa alla ridistribuzione come mezzo per combattere la povertà… Se si intendesse aiutare seriamente il povero, si dovrebbe fronteggiare il problema morale della ridistribuzione e cessare di nasconderlo dietro la crescita globale». (Daly, 1981).
In realtà, al grande Summit Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile di Johannesburg i «potenti» della Terra hanno fallito nel prendere impegni concreti per ridurre gli insostenibili modelli di produzione e consumo che stanno impoverendo i sistemi naturali e le persone che vivono sul nostro pianeta.
L’opinione


pubblica mondiale chiedeva alla politica un impegno serio: indicare finalmente target precisi di riferimento, tempi entro cui raggiungerli e chiarezza sui mezzi da utilizzare per raggiungerli.

Al Summit hanno partecipato 22.000 delegati provenienti da governi (con un centinaio di capi di stato e di governo), agenzie intergovernative, organizzazioni non governative, settore privato, società civile e comunità scientifica.
Il Summit ha negoziato e poi adottato due documenti: il piano di implementazione e la Dichiarazione di Johannesburg sullo sviluppo sostenibile. Inoltre ha presentato circa 220 iniziative di partnership tra settore pubblico, privato e società civile in cui si annunciano impegni per progetti concreti di sviluppo sostenibile con una cifra complessiva valutabile in 235 milioni di dollari (cifra certamente molto modesta se pensiamo, come già ricordato sopra, che i paesi poveri hanno un debito che supera i 2.500 miliardi di dollari e che la media dell’assistenza pubblica allo sviluppo dei paesi industrializzati è pari allo 0,22% del PIL (l’Italia ha lo 0,13% e gli Stati Uniti solo lo 0,10%). Un risultato certamente scarso rispetto alle sfide drammatiche e evidenti che sono sotto gli occhi di tutti, ma che ci invita a intensificare gli sforzi per essere più incisivi nell’immediato futuro.

Le ricerche sul cambiamento globale

Ha scritto lo storico John McNeill (2002), della Georgetown University, nella sua lucida analisi della storia dell’ambiente del XX secolo: «È probabile che asteroidi e vulcani, al pari di altri agenti astronomici e terrestri, abbiano prodotto cambiamenti ambientali più radicali di quelli cui abbiamo assistito nella nostra epoca. È la prima volta, nella storia dell’umanità, che abbiamo modificato gli ecosistemi in maniera così profonda, su tale scala e con tale rapidità. È una delle rare epoche della storia della Terra in cui si è assistito a cambiamenti di tale portata e intensità […]. Inconsapevolmente il genere umano ha sottoposto la Terra a un esperimento non controllato di dimensioni gigantesche. Penso che, con il passare del tempo, questo si rivelerà l’aspetto più importante della storia del XX secolo: più della seconda guerra mondiale, dell’avvento del comunismo, dell’alfabetizzazione di massa, della diffusione della democrazia, della progressiva emancipazione delle donne».
Il noto scienziato Paul Crutzen (premio Nobel per la chimica 1995, insieme a Sherwood Rowland e Mario Molina per le ricerche sugli effetti dei clorofluorocarburi sulla fascia di ozono nella stratosfera), ha proposto di definire «Antropocene» il periodo geologico iniziato nella seconda metà del Settecento (quindi dall’avvio della Rivoluzione industriale), a riconoscimento del ruolo centrale che la specie umana riveste nella straordinaria modificazione dei sistemi naturali (Crutzen, 2002).
Il periodo che stiamo vivendo viene definito dai geologi Olocene e il suo inizio è indicato a partire dai 10.000-11.000 anni fa, cioè da quando la specie umana ha avviato la Rivoluzione Neolitica.
Con l’autorevole proposta di Crutzen ? già accolta positivamente da molti scienziati ? il mondo scientifico riconosce definitivamente il ruolo fondamentale dell’intervento umano sul pianeta. La massa di dati, conoscenze e informazioni che abbiamo ormai acquisito sui pesanti effetti che l’intervento umano ha prodotto ai sistemi naturali


è enorme. Da tempo la comunità scientifica ha cercato di avviare iniziative internazionali per comprendere meglio la «fisiologia» dei sistemi naturali, le loro dinamiche evolutive e, d’altra parte, il ruolo del nostro intervento e le conseguenze dei nostri impatti.
L’autorevole International Council for Science (ICSU), che costituisce la federazione indipendente delle unioni scientifiche internazionali, ha avviato dal 1986 un vastissimo progetto internazionale coordinato di ricerche su questi problemi, l’«International Geosphere Biosphere Programme» (IGBP), detto più comunemente «Global Change Project» (IGBP, 1990, IGBP, 2001, Steffen et al., 2002), che è senza alcun dubbio il più autorevole sforzo di ricerca internazionale su questi problemi.
L’IGBP è stato poi affiancato dal programma «Human Dimensions of Global Change», che si occupa in particolare della dimensione umana dei cambiamenti globali, nonché dal programma «Diversitas» (dedicato allo studio della biodiversità del pianeta e degli effetti dell’intervento umano su di essa) e dal «World Climate Programme» dedicato alla migliore conoscenza del sistema climatico e del nostro impatto su di esso.
La mole di autorevoli pubblicazioni prodotte nell’ambito di questi e di altri programmi nati nell’ambito di organismi internazionali è veramente ingente e le conclusioni raggiunte sino ad ora non fanno che confermare le parole di McNeill.
È quindi francamente singolare assistere a tentativi tendenti a sminuire e a cercare di contestare questa ingente massa di dati, come è avvenuto nel volume di Lomborg (Lomborg, 2001), che è stato giustamente «distrutto» dalle recensioni delle più autorevoli riviste scientifiche mondiali (come «Science», «Nature», «Scientific American») e definito «scientificamente disonesto e contrario agli standard della buona pratica scientifica» dal Comitato Danese sulla Disonestà Scientifica, costituito da autorevoli scienziati.
D’altra parte lo stesso Lomborg afferma chiaramente nel suo libro di non essere un esperto di problemi ambientali e ovviamente non cita mai l’IGBP. Stupisce pertanto il grande clamore avuto da questa pubblicazione che non fa altro che portare acqua ai fautori dello scenario BAU.

Sostenibilità, capacità di futuro

Ancora oggi, tutte le volte che si utilizza il termine «sviluppo sostenibile» si fa una gran confusione, spesso volutamente, altre volte per mancata conoscenza.
Gli avanzamenti teorici e operativi di tante discipline, alcune delle quali specificatamente dedicate ad approfondire i temi della sostenibilità (come avviene per l’economia ecologica, l’Ecological Economics), non consentono più di essere troppo generici e vaghi nel trattare tali problemi, pur nella consapevolezza di tutti i limiti, incertezze e complessità di queste tematiche.

Gli avanzamenti sin qui acquisiti a livello dei migliori centri di ricerca interdisciplinari internazionali si riferiscono inevitabilmente all’analisi dei sistemi complessi adattativi, alle loro dinamiche, alle loro interpretazioni. Oggi possiamo parlare di una vera Sustainability Science, la scienza della sostenibilità.
Proprio nel 2002 sono venute a mancare due figure straordinarie nelle scienze ambientali, i fratelli Eugene e Howard Odum (il primo nato nel 1913 e il secondo nel 1924), che nella loro lunga carriera accademica ci hanno fornito approfondimenti scientifici, analisi e chiavi di lettura di grandissimo valore per comprendere il funzionamento dei sistemi naturali e delle loro relazioni con i sistemi umani.


I fratelli Odum sono stati grandi protagonisti delle scienze ecologiche, hanno brillantemente analizzato le realtà ambientali intese come sistemi e sono stati veri pionieri di molti concetti e approcci che oggi sono diventati centrali nella Sustainability Science (vedasi, ad esempio, Odum, 1973 e Odum, 1994).
Infatti, da molte intuizioni dei fratelli Odum e di altri si è andato formando il concetto di sistema adattativo complesso, che deve molto a studiosi quali John Holland e Stuart Kauffman (che si sono poi riuniti nel famoso Istituto di Santa Fe ? New Mexico ? che studia proprio i sistemi adattativi complessi). I sistemi adattativi complessi sono sistemi in grado di acquisire informazioni sull’ambiente che li circonda e sulle proprie interazioni con l’ambiente stesso. Sia i sistemi naturali, che quelli sociali ed economici sono sistemi adattativi complessi.
La teoria dei sistemi adattativi complessi propone una visione del mondo estremamente dinamica, flessibile, e appunto adattativa. Per comprendere appieno le sfide con le quali l’umanità deve confrontarsi sono necessari nuovi strumenti di analisi, in via di sviluppo negli ultimi decenni che influenzano le scienze naturali e quelle umane, economiche e sociali. In particolare, la teoria e la prassi dell’analisi dei sistemi adattativi complessi forniscono strumenti fondamentali per la comprensione dei cambiamenti globali, della storia, dell’intervento umano, delle valutazioni delle aree a rischio, dei legami tra sistemi ecologici, sociali ed economici, e sono in grado di indirizzare politiche innovative per il futuro. Queste analisi sono alla base del fecondo lavoro della Resilience Alliance, un consorzio di istituti e gruppi scientifici di ricerca autorevoli e interdisciplinari ? focalizzato sulla sostenibilità ? che ha predisposto un interessante documento per il Summit di Johannesburg (Folke et al., 2002).
Valutare e analizzare la sostenibilità richiede quindi nuovi modi di pensare. Le precedenti visioni della natura e della società come sistemi vicini all’equilibrio sono stati rimpiazzati da visioni dinamiche, che enfatizzano le complesse relazioni non lineari, i continui mutamenti, la flessibilità, l’adattabilità, l’apprendimento, e che si confrontano con le discontinuità e le incertezze di shock sinergici (vedasi, ad esempio, Botkin, 1990, Berkes, Colding e Folke, 2002).
Pertanto una sfida fondamentale, in questo contesto, è quella di costruire conoscenza e capacità di apprendimento e adattamento nelle istituzioni e nelle strutture che devono gestire localmente, regionalmente, nazionalmente e globalmente gli ecosistemi, per cercare di mantenere la resilienza dei sistemi naturali e umani e di abbassare al minimo il livello di vulnerabilità dei sistemi stessi.
La Sustainability Science ha prodotto approfondite analisi sull’utilizzo di nuovi indicatori per misurare la ricchezza, il benessere e la sostenibilità complessiva dei sistemi naturali e di quelli umani (su questo fronte esiste ormai una letteratura sterminata).

Il concetto ecologico di resilienza è stato pionieristicamente introdotto dall’ecologo Crawford Holling sin dai primi anni Settanta (Holling, 1973, Holling, 1996). Esso definisce la capacità dei sistemi naturali di assorbire gli shock mantenendo le proprie funzioni, capacità che viene misurata dal grado di disturbo che un sistema naturale può assorbire prima che il sistema stesso cambi la sua struttura, mutando variabili e


processi che ne controllano il comportamento. Gli ecosistemi, ricorda Holling, hanno più di uno stato di equilibrio e dopo una perturbazione spesso ripristinano un equilibrio differente dal precedente.
Il sistema ecologico o sociale diventa vulnerabile quando esso perde le sue capacità di resilienza, cioè supera la soglia di mutamenti assorbibili. In un sistema resiliente, il cambiamento ha la potenzialità di creare opportunità di sviluppo, novità e innovazione. In un sistema vulnerabile persino piccoli cambiamenti possono risultare devastanti. Meno resiliente è il sistema, minore è la capacità delle istituzioni e delle società di adattarsi e di affrontare i cambiamenti.
Questo è, in grandissima sintesi, il messaggio centrale che ci proviene dalla Sustainability Science, questo è il messaggio che, implicitamente, da vent’anni ci fornisce lo «State of the World» con le sue analisi interdisciplinari, questa è la sfida alla cultura politica internazionale che appare ancora incapace di futuro.

La Carta europea dell’acqua

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A Strasburgo, il 6 maggio 1968, il Consiglio dei ministri della Comunità europea approvò un documento che suppone una dichiarazione di principi sull’acqua. Questi sono i principi basilari.

1) Non c’è vita senz’acqua. L’acqua è un bene prezioso, indispensabile a tutte le attività umane.
2) Le disponibilità d’acqua dolce non sono inesauribili. E’ indispensabile preservarle, controllarle e se possibile accrescerle.
3) Alterare le qualità dell’acqua significa nuocere alla vita dell’uomo e degli altri esseri viventi che da essa dipendono.
4) La qualità dell’acqua deve essere tale da soddisfare le esigenze della utilizzazioni previste; ma deve specialmente soddisfare le esigenze della salute pubblica.
5) Quando l’acqua, dopo essere stata utilizzata, viene restituita al suo ambiente naturale, non deve compromettere i possibili usi, tanto pubblici che privati, che di quest’ambiente potranno essere fatti.
6) La conservazione di un manto vegetale, di preferenza forestale, è essenziale per la salvaguardia delle risorse idriche.
7) Le risorse idriche devono formare oggetto di un inventario.
8) La buona gestione dell’acqua deve formare oggetto di un piano stabilito dalle autorità competenti.
9) La salvaguardia dell’acqua implica un notevole sforzo di ricerca scientifica, di formazione di specialisti e di formazione del pubblico.
10) L’acqua è un patrimonio comune il cui valore deve essere riconosciuto da tutti. Ciascuno ha il dovere di economizzarla e di utilizzarla con cura.
11) La gestione delle risorse idriche deve essere inquadrata nel bacino naturale, piuttosto che entro frontiere amministrative e politiche.
12) L’acqua non ha frontiere. Essa è una risorsa comune che necessita di una cooperazione internazionale.

Evolution de la végétation apres incendie

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( Cnrs, Centre d’Ecologie Fonctionelle et Evolutive – Montpellier )

A Strasburgo, il 6 maggio 1968, il Consiglio dei ministri della Comunità europea approvò un documento che suppone una dichiarazione di principi sull’acqua. Questi sono i principi basilari.

1) Non c’è vita senz’acqua. L’acqua è un bene prezioso, indispensabile a tutte le attività umane.
2) Le disponibilità d’acqua dolce non sono inesauribili. E’ indispensabile preservarle, controllarle e se possibile accrescerle.
3) Alterare le qualità dell’acqua significa nuocere alla vita dell’uomo e degli altri esseri viventi che da essa dipendono.
4) La qualità dell’acqua deve essere tale da soddisfare le esigenze della utilizzazioni previste; ma deve specialmente soddisfare le esigenze della salute pubblica.
5) Quando l’acqua, dopo essere stata utilizzata, viene restituita al suo ambiente naturale, non deve compromettere i possibili usi, tanto pubblici che privati, che di quest’ambiente potranno essere fatti.
6) La conservazione di un manto vegetale, di preferenza forestale, è essenziale per la salvaguardia delle risorse idriche.
7) Le risorse idriche devono formare oggetto di un inventario.
8) La buona gestione dell’acqua deve formare oggetto di un piano stabilito dalle autorità competenti.
9) La salvaguardia dell’acqua implica un notevole sforzo di ricerca scientifica, di formazione di specialisti e di formazione del pubblico.
10) L’acqua è un patrimonio comune il cui valore deve essere riconosciuto da tutti. Ciascuno ha il dovere di economizzarla e di utilizzarla con cura.
11) La gestione delle risorse idriche deve essere inquadrata nel bacino naturale, piuttosto che entro frontiere amministrative e politiche.
12) L’acqua non ha frontiere. Essa è una risorsa comune che necessita di una cooperazione internazionale. L’incendie ayant éliminé toute la végétation épigée, un nouvel équilibre va se mettre en place au cours de la cicatrisation. Toutes les études, quelles aient été effectuées de façon diachronique (méthode directe sur des parcelles permanentes) ou synchronique (méthode indirecte par comparaison de sites), concordent vers un même résultat: les communautés se reconstituent identiques à celles qui préexistaient aux feux. La reconstitution des zones brûlées s’effectue à la fois floristiquement et structuralement.
Au cours des années après le feu, la richesse floristique suit un modèle très général. Il y a peu d’espèces pendant le première année; ce sont principalement des espèces qui se régénèrent végétativement. Puis cette richesse floristique atteint son maximum deux à trois ans après l’incendie, ensuite diminue, pour finalement tendre à se stabiliser à partir de la cinquième année. La richesse floristique paraît être liée aux types de communautés: forêts, garrigues ou pelouses. Bien souvent, et plus particulièrement au cours des premières années de la recolonisation, la richesse floristique des zones incendiées est supérieure à celles non brûlées. Par la suite elle ne paraît pas être très différente de celle qui est observée dans les communautés plus mûres.
Ce sont les espèces qui composaient les communautés avant le feu qui réapparaissent parmi les premières et se maintiennent par la suite. Le maximum de richesse floristique (au cours de la deuxième et troisième années) est dû à la présence d’espèces exogènes (étrangères aux communautés), surtout des annuelles ou des bisannuelles (particulièrement abondantes dans les zones sur substrats siliceux ou les communautés ayant un couvert peu dense). Ces plantes se surimposent à celles de la communauté, tentant de s’installer pour occuper l’espace vide laissé par le feu, puis disparaissent, éliminées par la compétition réalisée par les espèces endogènes (appartenant aux communautés) réoccupant leur espace. Il n’y a pas succession dans le sens où les espèces, ou les communautés, se remplacent successivement les unes aux autres, mais retour vers les communautés initiales métastables. Ce phénomène est appelé «autosuccession». Le retour vers un stade identique à celui qui existait avant le feu est rapide; dans certains cas, 100% des espèces présentes 10 à 12 plus tard sont déjà présentes cinq ans après l’incendie.
Le feu ne serait donc pas un facteur de banalisation à court terme des communautés incendiées. Il semble que la composition de chacune des communautés garde ses caractères originaux, sans doute liés à l’état de la végétation qui préexistait au feu.
Assez rapidement après un incendie, la végétation réapparaît et recouvre la surface du sol. Quelquefois, 15 jours après le feu, commencent à apparaître les premiers rejets; puis, progressivement, la végétation deviendra de plus en plus dense et de plus en plus complexe, entraînant une multiplicité des strates. Selon que les communautés sont dominées par de végétaux ligneux ou par des végétaux herbacés, elles présenteront des types d’accroissement horizontal (recouvrement du sol) différents.
Dans toutes les communautés, l’accroissement vertical se traduit par un transfert du matériel végétal des strates basses vers les strates hautes au fur et à


mesure qu’elles avancent en âge. Ansi, dans les peuplements forestiers, progressivement, l’importance de la phytomasse, au début localisée au niveau des strates basses (0-50 cm), diminue, tandis que celle des strates hautes (2 à 4 m) augmente.
Il est évident que l’évolution de la végétation méditerranéenne après feu suit un modèle dit de la «composition floristique initiale»; c’est-à-dire que les espèces étaient présentes avant le feu et réapparaissent immédiatement après.
Le phénomène de cicatrisation est caractérisé par trois phases: a) une phase de recolonisation (réoccupation de l’espace), b) une phase de compétition (entre espèces pour reconstituer l’ancien état), c) une phase de stabilisation (lorsque l’équilibre métastable comparable à l’état initial est atteint).
Les végétaux qui participent à la recolonisation des espaces incendiés peuvent être groupés en trois grandes catégories: 1) les végétaux vivaces qui peuvent se régénérer à la fois par des rejets et des semences; 2) des végétaux vivaces qui ne peuvent se régénérer que par semences; 3) les végétaux annuels ou bisannuels qui ne se régénèrent que par semences. Seulement entre 6 et 10% des végétaux pérennes de la région méditerranéenne ne peuvent se reproduire que par semences après le feu (semenciers obligatoires).
Ansi, la plupart des végétaux pérennes ont la possibilité d’émettre des rejets. Grace à cette possibilité, ils colonisent rapidement le terrain, et par leur concurrence empêchent des espèces pionnières étrangères aux peuplements d’occuper l’espace brûlé.
C’est donc l’adaptation des végétaux pérennes à resister au passage du feu qui détermine préférentiellement la reconstitution des phytocénoses.
Le feu ne modifie pas profondément les communautés végétales actuellement en place dans la région méditerranéenne.
Les phytocénoses actuelles ne peuvent être expliquées qu’en tenant compte de leur passé historique: abattage des forêts, pâturage, feux, mise en culture (actions bien souvent répétées); et de l’intervalle de temps qui existe entre chaque feu successif. Il faut alors parler de «cycles de feu» qui maintiendraient certaines communautés à des stades métastables et empêcheraient toute évolution ultérieure vers des phytocénoses plus mûres et plus proches d’un équilibre avec les seules conditions climatiques.
Les espèces végétales qui composent les écosystèmes actuellement présents dans le Bassin méditerranéen possèdent des caractères de résistance au feu.
La végétation et la flore actuelles de la région méditerranéenne sont le résultat d’actions anciennes au cours desquelles les végétaux on utilisé des mécanismes de survie pour surmonter l’effet répété du feu. Habitués à cette perturbation périodique et liés aux communautés végétales qui sont leurs habitats, les animaux vivant actuellement dans cette région sont capables, eux aussi, de survivre et persister après les incendies.

El fuego prescrito como instrumento de la prevencion de incendios forestales

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Las acumulaciones de combustibles forestales y el peligro de incendios en los países mediterráneos europeos