La Commissione europea è diventata attivamente responsabile di questo scisma cognitivo

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Varie azioni finanziate dall’Ue sono state dedicate a migliorare l’interazione fra gli sviluppi nucleari e le popolazioni che stavano loro attorno, ad es. Karita; Cowam (finanziato in varie fasi: Cowam, Cowam 2 e Cowam in Practice, tutti i report sono disponibili sul sito Cowam); Argona; Ippa; Pipna, ecc., normalmente coinvolgendo un ampio numero di parti, più o meno organizzate, di tali società civili, partendo dalla loro vicinanza geografica alle infrastrutture nucleari, ed arrivando sino al livello nazionale.

Alcuni hanno pure tentato di coinvolgere organizzazioni internazionali (ad es. nell’ultimo citato progetto Pipna: Ensreg, Eesc, Foratom, Etson, Eurocli, e le maggiori Ngo o federazioni coinvolgenti attori della società civile a livelli Ue come Anccli o Gmf insieme ad iniziative come Aarhus Convention and Nuclear – Acn ed Enef).
Ma nessuno di questi progetti ha tentato di scalfire la disinformazione nei Paesi anti-nucleari, così da contrastare due tendenze divergenti che sono state rilevate da Eurobarometer: «I cittadini nei Paesi che hanno centrali nucleari sono considerabilmente più propensi a sostenere l’energia nucleare che non i cittadini negli altri Paesi (In grassetto nel testo di Eurobarometer). Che esiste un forte legame fra queste due variabili – sostegno all’energia nucleare e presenza di centrali di energia nucleare nel Paese di appartenenza – è chiaramente enfatizzato dal fatto che tutti i Paesi che dimostrano un forte sostegno, sopra la media, per l’energia nucleare hanno in effetti centrali nucleari. Il sostegno più forte viene trovato nella Repubblica Ceca ed in Lituania, ma anche in Ungheria, Bulgaria, Svezia, Finlandia e Slovacchia sei, o più, su dieci intervistati rispondenti sono in favore della produzione di energia da centrali nucleari (…) Il sostegno più basso per l’energia nucleare, d’altra parte, viene chiaramente trovato nei Paesi che non hanno centrali nucleari. La percentuale minima di sostegno viene trovata in Austria, Cipro e Grecia, con circa otto su dieci rispondenti che confermano che sono contrari a questo tipo di energia». (Citato da pagina 6 del Rapporto Eurobarometer)
Col passare degli anni, e dei progetti finanziati da Euratom a loro destinati, le società civili dei Paesi che hanno centrali nucleari aumentano il loro favore verso il nucleare, mentre quelle che non hanno il nucleare aumentano la propria opposizione sia alle centrali nucleari sia ai depositi di scorie radioattive. Questa spaccatura è stata anche riconosciuta nel Rapporto 2010 di Nea, Agenzia energia nucleare Dell’Ocse-Oecd, nel Report su «Atteggiamenti sociali verso l’energia nucleare» e, con la solita divergenza dal nostro gruppo, s’è ampliata dopo l’incidente di Fukushima (Vedere ad es. lo studio in UK).

In alcuni casi questa spaccatura è già cresciuta sino a mettere in discussione, se non già a rischio, l’intera costruzione europea, come ad es. nella causa presso la Corte di Giustizia europea sulla centrale nucleare Ceca di Temelin vicino al confine dell’Austria, che conta su tanto idroelettrico per i suoi otto milioni di abitanti quanto ne abbiamo noi in Italia con sessanta milioni. Però l’idroelettrico non è ampliabile oltre i suoi limiti: il bisogno di allocare una nuova centrale nucleare vicino al confine con un Paese non-nucleare, in quanto potenzialmente e poi effettivamente bisognoso della sua produzione, è strutturale, ma la popolazione dell’altro Paese, se resta anti-nucleare in quanto privo delle informazioni di cui è stato dotato dai progetti Euratom il Paese nucleare e filo-nucleare, può interpretare quest’allocazione come il modo malizioso di dimezzare il territorio nazionale minacciato da un possibile incidente, senza dimezzare i ricavi.
Analogamente, questi rigetti motivati ambientalmente nei Paesi anti-nucleari non vengono di solito comparati con altre scelte ambientalmente negative, come la tipica preferenza di parecchi di questi medesimi Paesi per la motorizzazione privata individuale su gomma, alimentata da idrocarburi, invece del trasporto pubblico su ferro, alimentato da elettricità sostenibile senza emissioni di pericolosi inquinanti e di gas serra, come regolarmente preferito dai Paesi filo-nucleari. Le polveri sottili emanate purtroppo dalla prima delle due scelte modali sono direttamente cancerogene, e pure altamente radioattive.
Come documentato nel convegno «Nuclear Italy. Storia internazionale del nucleare italiano» anche la storia dell’Enel, istituito negli stessi giorni della tragica morte di Mattei, mostra una progressiva «transizione energetica» dalla preferenza per la sorgente nucleare di elettricità (nei progetti precedenti la morte di Mattei), verso le sorgenti fossili, specialmente idrocarburi, preferiti dopo la morte di Mattei. Il quale avrebbe voluto fondere Eni ed Enel in un unico Ene, Ente nazionale energia. Dopo la sua morte le ferrovie italiane cominciarono a «tagliare i rami secchi», le nostre città sradicarono le rotaie dei tram, mentre la Francia e gli altri Paesi pro-nucleari sceglievano proprio quella mobilità collettiva su ferro da elettricità da sorgente nucleare, considerata la più sostenibile anche ambientalmente.
Ho potuto personalmente constatare che, parallelamente, i nostri istituti di Paesi anti-nucleari venivano bene accolti nei progetti europei dedicati a guidare meglio, mantenendo la propria prevalente motorizzazione privata individuale su gomma da petrolio, mentre non venivamo graditi nei progetti dedicati a cambiare la scelta modale nell’altra direzione, della mobilità collettiva su ferro da elettricità da sorgente sostenibile. Ho illustrato questa discriminazione anche come relatore in vari documenti di Osservazioni e Proposte del Cnel. Come risultato di questa scelta modale divergente, basta aprire Google-maps per vedere come le città italiane si sono sviluppate lungo le strade, in forma di polipo, mentre quelle dei Paesi filo-nucleari si sono compattate attorno alle stazioni ferroviarie.
L’efficienza economica ed il livello di vivibilità delle nostre città ne ha molto sofferto: ad es., la media degli spostamenti giornalieri nelle città italiane resta ancorata ai due, mentre in quegli altri Paesi può raggiungere i quattro. I progetti europei Escape hanno documentato le scie di morti inflitte alle nostre città da queste scelte per le sorgenti fossili, di gran lunga le maggiori alternative al nucleare, molto più che le cosiddette, molto eufemisticamente, energie alternative.
La Commissione europea si lava le mani per queste nostre scelte radicalmente scismatiche, come non fossero condizionate dalla nostra esclusione dai progetti da essa assegnati solo ad alcuni altri Paesi.
La Iea (Agenzia internazionale per l’energia), un organismo dell’Ocse con sede in Parigi, ha pubblicato nel 2008 una rassegna della così differenziata politica energetica dell’Ue. A pagina 27 tale rassegna, basata su una visita alla Commissione europea, dichiara che: «Riconoscendo le sensibilità riguardanti alcuni aspetti della politica energetica in alcuni Paesi membri, le azioni Ue di politica energetica hanno sempre rispettato, e continueranno a rispettare, due principi: primo, che gli Stati membri sono ultimativamente responsabili per il loro mix energetico nazionale; e, secondo, che le risorse energetiche indigene sono una risorsa nazionale, non Europea». In effetti, sarebbe difficile cambiare le «sensibilità» di qualunque popolo, anche infra-nazionale come lo Scozzese, che è tentato di staccarsi dal Regno Unito proprio perché considera i propri idrocarburi come «risorse energetiche nazionali». E neppure è questo uno scopo del Trattato Euratom; ma è possibile, ed anche uno scopo dei trattati fondanti la costruzione europea, non aumentare quel tipo di sensibilità circa la capacità di fare scelte «indigene» nelle sorgenti energetiche, contrapposte alle scelte di altri Stati membri. Questi atteggiamenti sociali soggettivi, neppure dopo che siano stati ratificati da democratici referendum, non dovrebbero essere lasciati inclusi sotto il significato di obiettive «risorse energetiche».
Secondo la Commissione, siamo noi italiani ad aver voluto ignorare come sia morto Mattei, siamo noi ad avere lasciato sparire dimenticati tutti quelli che hanno provato ad interessarsene: il giornalista Mauro De Mauro, il giudice Scaglione saltato in aria il giorno prima di depositare quanto De Mauro gli aveva confidato di aver scoperto, poi Pier Paolo Pasolini, massacrato mentre stava mandando a stampa «Petrolio», senza riuscire ad includervi il capitolo «Lampi sull’Eni», ma ufficialmente lo consideriamo ancora massacrato da Pelosi; siamo noi ad aver liquidato il Cnen ed il suo presidente Felice Ippolito, anzi abbiamo premiato con due presidenze della Repubblica (e del Csm) i suoi due accusatori, Giuseppe Saragat e Giovanni Leone; siamo noi ad avere liberamente eletto quei parlamentari che hanno scagionato i propri partiti politici destinatari dei fondi scoperti dai due «scandali dei petroli»; e così via. Quindi la stessa Commissione si sente in dovere di non disturbare queste nostre libere scelte, e dunque di non infliggerci, attraverso la menzionata serie di progetti europei, quelle «conoscenze tecniche» da noi stessi volontariamente rifiutate.
Del resto la Commissione è generosissima con gli italiani, proprio come abbiamo visto nei progetti europei sul guidare meglio, così anche sui progetti miranti al futuribile nucleare da fusione, adottato come fattibile, anzi, prioritario ed urgente, per la prima volta nella sede milanese della Democrazia cristiana, proprio nel periodo fra i due scandali dei petroli, mentre i francesi iniziavano a costruire 50 centrali nucleari da fissione in un solo decennio.

3. Un tentativo italiano di individuare l’origine dello scisma viene boicottato dalla Commissione

La Francia approfitta dello scisma cognitivo sul nucleare per risucchiare le nostre imprese

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In particolare è la Francia a guidare il gruppo di Paesi europei che usano il nucleare per impadronirsi del lavoro italiano. Grazie al suo prezzo dell’energia per le imprese abbassato dal nucleare ad un quinto di quello italiano, la Francia ha risucchiato più delocalizzazioni italiane che qualsiasi altro Paese al mondo, come abbiamo visto in un precedente numero di questa rivista con le due graduatorie comparate: dei prezzi al Kwh e del numero delle delocalizzazioni, rigorosamente corrispondente, sino al mezzo cent.

In quell’articolo, dal rinvio della promessa chiusura della centrale nucleare di Fessenheim, deducevo la malafede sottostante le promesse riduzioni complessive dal 75% al 50 entro il 2015, e poi addirittura al 25%. Avendolo consegnato in redazione a Febbraio, non conoscevo ancora la riconversione al nucleare deliberata dal Senato francese il 3 Marzo, con cui viene cancellato il termine del 2025, senza essere sostituito con alcun altro termine, ed anzi viene aggiunta la costruzione immediata di una nuova centrale a Flamanville. Questa costa alla Francia meno di quanto le paghiamo in un solo anno per l’elettricità che ci vende, mentre con il nuovo abbattimento delle emissioni derivato dalla nuova centrale la Francia si sdebita degli impegni climatici sottoscritti il 24 ottobre 2014, lasciando noi a schiacciare ulteriormente la nostra industria fossil-dipendente e ad aumentare del 40% le nostre inaffidabili e costosissime rinnovabili.
Ancora una volta, un gioco delle tre carte, operato ai nostri danni dall’establishment francese in perfetta attuazione delle interessate indicazioni degli imprenditori nazionali, come vediamo sollecitato nel sito del Governo stesso: «Peser sur le cadre de régulation européen et international dans le sens de nos intérêts. La régulation internationale est un lieu de compétition internationale pour les entreprises. Il est important de mieux intégrer leurs intérêts offensifs comme défensifs en amont des prises de positions françaises dans les enceintes normatives. Ouvrir le Quai d’Orsay aux entreprises en amont des négociations internationales et européennes. Il est primordial pour le ministère des Affaires étrangères de structurer le dialogue avec les entreprises en amont des négociations internationales car la régulation internationale est un enjeu de compétition entre nos économies. Des consultations en amont sont organisées via les organisations professionnelles représentatives et sectorielles».
Grazie a questa loro influenza diretta (en amont, a monte, ripetuto tante volte) sui nuovi accordi europei, gli imprenditori francesi hanno conquistato migliaia delle nostre produzioni, quasi tutta la nostra grande distribuzione (Carrefour, Auchan, Bennet, Billa, Leroimerlin, Leclerc ecc.) ed ormai arrivano ad impadronirsi pure dei nostri gangli vitali. Nel numero del 13 agosto 2015 de «L’Espresso», a pag. 14-16, si riassume come il gruppo francese Vivendi, guidato da Vincent Bolloré, è «diventato l’azionista di comando di Telecom Italia… snodo centrale dei futuri assetti della telefonia nostrana. E molti analisti vedono il gruppo francese, che Oltralpe possiede la pay TV Canal+, pronto a giocare un ruolo da protagonista anche in campo televisivo». Non sarà difficile preconizzare come verrà usata la futura influenza sulle opinioni nostre, dopo che avremo passato in rassegna i due pesi e le due misure con cui sono già stati gestiti i progetti europei relativi alle «conoscenze tecniche» e le derivanti opinioni sul nucleare.

2. La Commissione europea è diventata attivamente responsabile di questo scisma cognitivo

Antropologia e Teologia

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Tra il nomadismo ebraico e l’esperienza itinerante o cammino della chiesa cattolica del Concilio Vaticano II si collocano tanti significati del cammino proprio dell’esperienza umana e religiosa secondo l’interpretazione teologica del mondo e del tempo.

Quando l’ebreo cessa di essere «errante»? quando i suoi passi avverano la promessa che, se anche non indica in modo perentorio territori e tempi della stabilità, muove gli individui secondo la profezia? da nomadi gli Ebrei diventano popolo e nazione, ma non senza passare attraverso l’esodo.
In questo itinerario è inscritto il racconto e l’esperienza sociale, politica e mistica dell’ebraismo. Tale connotazione è molto forte tanto che, nelle diaspore che si sono succedute nel tempo, gli ebrei sono riusciti a mantenere il senso di nazione fino al punto che le esperienze dolorose inflitte loro presso svariate nazioni hanno reso indelebile in loro il marchio dell’esilio: episodio temporaneo eppure pedagogico, quasi azione purificatrice connessa con ogni ritorno, nel senso del contro-esodo. La «terra promessa» non è quindi una metafora, un atteggiamento mistico, un rifugio intellettuale ed emotivo; è, invece, in modo figurativo, il colore della bandiera, il realismo di una lingua, il rito devoto che l’ebreo celebra pur restando dentro le diverse culture in cui è collocato.
Le sue pasque non sono soltanto la celebrazione del ricordo, sono soprattutto l’attualizzazione della liberazione, non solo racconto riconoscente ed ubbidienza al comandamento di Yahweh ma anche rilettura storica di tutte le sofferenze, persecuzioni e liberazioni verso Gerusalemme, monte santo e simbolo dell’Alleanza: il menorah e la stella, simboli dell’alleanza e del regno di David, sono il ricordo di Sion, la stella di attrazione per cui, dall’antica Persia o dalla moderna Polonia, Germania, Russia, ecc., questo popolo attende i suoi contro-esodi, sempre credendo, «contro ogni speranza» sulla falsa riga di Abramo, nel tormento del viaggio purificatore e nel disvelarsi del Dio che parla al popolo, solo che questo si riappropri delle «cetre appese agli alberi» per riprendere l’antico inno a Sion, la città posta sul colle, spazio del sacro Tempio, dimora della Torah e dell’Arca di alleanza.
Il cristiano (vedi l’esperienza religiosa di ogni chiesa, sia essa separata, ortodossa o cattolica) ha motivato dalla Torah la sua interiorizzazione di destinazione utopica, il prolungamento dell’Alleanza veterotestamentaria nella promessa perentoria di Gesù circa la sua seconda venuta (Lc., 17,30; 1Cor., 15,23).
Il cammino cristiano, quindi, si colloca come itinerario tra due grandi momenti: l’esperienza individuale, interiore e quella di popolo. C’è la promessa prima di tutto come comandamento ad intraprendere il viaggio con il suo deserto e dall’altra parte c’è l’insediarsi nello spazio e nel tempo. Al loro interno la prova della fame e della sete fino alla manna (Es., 16, 14-15) e all’acqua sgorgante dalla roccia (Es. 17, 6-7).
La manna che, nel suo etimo ebraico «man-hu», è una domanda emergente dalla sorpresa: «che cos’è?». La storia derivata da questo racconto ha esteso le due parole di domanda alla forma del nome proprio, cosa che noi continuiamo a nominare; ma dentro la parola c’è la sorpresa per il dono del cibo. Come se il racconto dicesse: «e Dio fece trovare «che cos’è» di prima mattina…».
Tra i due esodi, quello ebraico e l’altro dei cristiani, c’è una differenza di fondo. Nel primo c’è l’attesa continua e sofferta per cui le contraddizioni storiche dolorose sono vissute dal popolo nella continuità della Torah e dell’Alleanza. Per il cristiano (non solo il cattolico), invece, Gesù è il Messia che conclude l’antico Patto e riverbera sui credenti la proiezione mistica della Pasqua, non più pasah = passaggio ma Resurrezione. L’Agnello non si consuma come simbolo ma è affermazione della presenza divina, l’acqua non asperge simbolicamente ma è lavacro di affiliazione nel Regno Nuovo, il popolo non è solo il testimone della promessa ma il Corpo mistico che, come Chiesa, si sposa al Figlio dell’uomo. E gli altri elementi imposti al popolo di Abramo, come l’agnello e il pane azzimo, sono per i cristiani simboli convertibili e misteriosi, sostegno alla vita di unione con il Cristo, realizzazione prima ed ultima della promessa.
Potremmo dire che nell’esperienza ebraica si rimane nell’ambito della promessa e al tempo stesso nei vissuti temporali e materiali delle vicende storiche; nel cristianesimo c’è il già-realizzato da cui dipende la riflessione che è teologia. Si esce dall’antropologia significante per entrare nel Logos attivo ed alternativo: nel «Significato» che è «Salvezza in mezzo al suo popolo».
Il cristianesimo riprende tutto il Libro ma lo rivive ora come metafora e simbolo ora come profezia della realtà «nuova» ora come parola vera e propria, Voce di Dio consegnata alla generazione dei figli nuovi, fratelli di Gesù e da Lui anticipati al cospetto del Padre.
Il cristiano quindi si dibatte sempre tra queste due realtà: accogliere la Parola ma rileggerla alla luce della sua continuazione dopo Emmaus. Anche questo un vero e proprio cammino, contrassegnato dal cambiamento del Sabato dei Sabati: «siete gli unici a non sapere quello che è avvenuto a Gerusalemme… e come ciò fosse già anticipato nelle scritture?», dice Gesù ai due compagni di viaggio (Lc. 24, 25-27).
A tutta l’esperienza esistenziale dell’antico popolo il cristiano sa di dovere aggiungere «un di più», non solo di senso, ma di autentica realtà esistenziale e soprannaturale. Così la Pasqua: certamente promessa, annunzio, passaggio, trasformazione è ora resurrezione ed anticipazione del Regno di Dio, ora e qui.
Questa interpretazione è già preambolo teologico. Esso ubbidisce all’iniziativa di interpretare i fatti veterotestamentari alla luce di quelli neotestamentari. Ed è proprio quello che l’ebraismo non accetta, ritenendo spuria l’esaltazione di Gesù da rabbino-maestro in Rivelatore della sua missione messianica come Figlio di Dio.
Sulla croce, patibolo di ignominia, egli esprime il suo ultimo giudizio: «tutto è compiuto», sicché la riflessione postuma si fa interprete proprio dei contenuti di questo «tutto», ne scandaglia le componenti, fino a trasformare in prolungamento biblico gli Atti, le Lettere e la Profezia apocalittica. Questi racconti e appunti del primo tempo della chiesa diventano anch’essi Bibbia. Tutta la produzione successiva sarebbe stata teologia, prima patristica e poi dogmatica, secondo le varie scuole.
Questo itinerario ci sembra illustri le differenze e dimostri la consequenzialità tra il cammino biblico antico e quello post Christum.
Potremmo affermare che il pozzo di Giacobbe non solo simboleggi l’avvio dell’evoluzione neotestamentaria, ma annunzia il «fatto»: Gesù proclama alla donna sbalordita di Samaria la sua messianicità, poiché l’acqua rinnovatrice e dissetante che è Lui, Parola temporalizzata, discriminante tra due testamenti, quella che ora porta a compimento la Promessa avviando il nuovo cammino: simile al primo, poiché basato sull’annunzio e la promessa, differente da esso, però, perché adesso esiste un’anticipazione fondativa del Regno. L’utopia è «cosa nuova». Soltanto un solo ostacolo a questa realizzazione: l’ora non è ancora giunta, quando sarà arrivata, la Parasceve si trasformerà nel Sabato dei Sabati, con la Resurrezione sconosciuta alla Torah e a tutti gli antichi libri biblici ma discriminante della vittoria del «frutto di lei» (Gen., 3, 15) sulla decomposizione del destino dell’uomo.
Il cammino spirituale si è trasformato da racconto in itinerario della persona «chiamata» alla fede e alla comunità costituita in Corpo Mistico, al cui interno l’anello di unificazione e trasformazione resta il Cristo. Dell’antica Legge resistono dei capisaldi indispensabili e comunque non superati dall’esperienza post-resurrezione: Abramo, Samuele e Davide.

Il primo caso. Abramo è la condizione della prova. Il fatto, proposto come circoscritto al rapporto padre-figlio, tocca poi tutta la realtà universale dell’esperienza religiosa e mistica. Il «padre nella fede» si propone come itinerario dell’accostamento di ogni credente al progetto che Dio gli riserva. Qual è la sua portata? L’interrogativo non ha una risposa univoca e definitiva, perché il progetto è individuale anche se la chiesa si proietta in una missione universale.

Nel secondo, Samuele: è la chiamata misteriosa che intercetta una disponibilità mediata dall’interpretazione del maestro profeta; l’eccomi ha una ragione, c’è a monte il riconoscimento di Chi ha chiamato.

Il terzo, il caso di David: è la condizione di una risposta positiva, attraversata dall’esperienza della prevaricazione: il peccato che sta sempre dinnanzi e il Dio che lo dimentica. Il giuoco delle parti, come duplice vicenda dell’umanità tra povertà morale e ricchezza del dono soprannaturale.

Il cammino è quindi esperienza del tutto umana e nell’ambito spirituale è una occasione umana che si colloca nel piano della misericordia e del dono di Dio. Per questo il posto della teologia nella storia del pensiero è il luogo dell’interpretazione di fatti reali e di realtà spirituali altrettanto oggettivi e storici.
Ma ecco che la teologia è sinonimo di teologie, perché suo elemento determinante è l’interpretazione. Questa, poi, è talmente estesa e coinvolgente che da essa sono nate le chiese, sovrabbondanti di esperienze, di tradizioni, accanto alle quali, sovente, si sono coagulati interessi nazionali e scontri anche gravi.
In questo caso, dalla teologia si ritorna all’antropologia e… «dio ci salvi» ai fondamentalismi. Si riapre il cammino, nuovi jalons, altre soste… la pace è rimandata!
Il cammino isolato e privato di ciascun uomo si estende e si moltiplica diventando quello della società e dell’umanità intera. Mentre lo percorriamo si concretizzano esperienze particolari e si definiscono fisionomie di interi popoli. Quello che ci sorprende è poi il fatto che anche pochi uomini, responsabili di stati, possano tracciare sovvertimenti e rideterminare la storia del mondo. Ricomincia l’attesa che altri sorgano a testimoniare e a indicare la metànoia, il cambiamento, la riconversione verso l’itinerario virtuoso che si era interrotto.
Nessuna pace può ritenersi dono assoluto se non quella dello spirito. Ma la pace tra tutti o tra pochi è frutto della volontà educata, raffinata dal senso dell’universalità. Normalmente chi si mette in cammino può prevedere compagni di viaggio; anche l’eremita, che popola di soggetti indefiniti la sua oasi, sceglie il suo peregrinare come cammino non da solitario ma da sentinella di avamposto che sposta ancora più in avanti il protendersi dell’umanità intera verso l’Assoluto. A questo punto la teologia non basta più, la contemplazione ricolloca l’umanità con il sorprendente Altro e l’attesa riprende forma mentre la Promessa riappacifica la storia.
Un monaco buddista, giunto a Camaldoli di Arezzo per confrontarsi con il Monachesimo occidentale cristiano, in un incontro notturno con gli ospiti nell’agosto del 1975, rifletteva: «l’esperienza religiosa secondo le varie credenze è come l’ascesa di una montagna; ciascuno sale dal suo versante e non vede il cammino degli altri; pensa che la verità propria sia l’unica. Ma giunto al culmine, al punto unico del vertice, si accorge che il suo Dio è il Dio unico di tutti gli altri, saliti dai versanti opposti e mai incontrati prima ma tendenti allo stesso Unico vertice».
Poliedricità del cammino religioso! ma non va confuso con le teologie perché queste sono la ricostruzione razionale e l’interpretazione del fatto religioso: lo sposalizio mistico di Caterina da Siena, invece, è la consumazione dell’umano traslato nel mistero arcano che rapisce a sé la caducità del tempo e della carne. L’antropologia chiama la teologia come base di appello alla disincapsulazione e linea di spinta verso la trascendenza.
Se sostando sulla riva del mare, da solo, gridi, tra lo sciacquio della battigia non torna a te la voce, essa si espande nello spazio a dialogare con le creste spumeggianti delle onde; sulla montagna, tra terra e cielo, il tuo grido ritorna e l’eco ti sembra la voce delle altre cime: il tuo grido, però, è sempre tuo, tanto a mare quanto in montagna e la risposta migliore è quella che resta nel silenzio, senza la ripetizione acustica che è dialogo surrogato. Il cammino, in basso o in cima, è tuo, ma nel silenzio la voce prestante dell’Assoluto ti rivela che hai bisogno dei tuoi passi perché al tuo incedere giunga la grande risposta.
Ci sono dei cammini irrazionali e violenti che gruppi sparuti di guerrieri fondamentalisti impongono a credenti di altre religioni: le scimitarre ora sono armi sofisticate prodotte e fornite dall’occidente mercantile, quello stesso contro cui si avventano le tribù sparse a macchie di leopardo, incrementate da occidentali convertiti alla causa dell’espansionismo pseudoislamico. Da quelle regioni proviene questo insorgere di vendetta, dai luoghi dove in passato diverse nazioni occidentali hanno esercitato colonialismo e sfruttamento di risorse.

Ci sarà una nuova Lepanto? In un tempo in cui sembrava scontato che altre deflagrazioni non si sarebbero verificate, ecco emergere il relativo e la necessità di reinventare la pace. A tutti i livelli, tutti siamo chiamati a sincronizzare le nostre menti sulle lunghezze d’onda dell’antropologia che tende alla disincapsulazione e ai primi passi della trascendenza. Il nostro giudizio oggi è questo: non è il principio religioso che alimenta l’odio di religione; sembrerebbe piuttosto che sia l’espansionismo vendicativo l’alimento che nutre l’odio sacrificale. Nerone e Diocleziano = Isis e simili? Non sembra, anche perché dietro gli attentati e le stragi sembra ci siano dei poteri forti. Potrebbe darsi che vecchi e nuovi alleati nello scacchiere mediorientale siano i silenziosi alimentatori di aiuti ed armamenti, quegli stessi che oggi investono sui mercati del capitalismo occidentale, foraggiando sulle imprese che accusano indebolimento e crack finanziario.
Quando questo ed altro sarà palese, allora potremo dare un nome ed una fisionomia compiuta alla bandiera nera che garrisce tra città e deserto.
Il cammino è aperto, appena iniziato: resta molto lavoro di ricerca e di reinterpretazione necessaria per dare senso alle relazioni internazionali contemporanee ed allentare la spinta distruttiva.
Questo viaggiare di barconi alla deriva, questi cimiteri nei fondali del mare detto «Nostrum» sono accusa ed appello: accusa contro il mondo opulento sfruttatore di molte generazioni indigene su quei continenti da cui oggi proviene anche l’appello alla più semplice e complessa delle domande ma altresì al primo ed assoluto diritto, quello alla vita. Possiamo pensare che l’Occidente sia arbitro unico ed ancora indispensabile sia dell’accusa sia dell’appello? Si può pensare che sia la politica degli stati a fondare la società nuova e migliore? Essa è impotente proprio perché responsabile delle anomalie drammatiche: urge l’educazione delle generazioni alla virtù, a quella della giustizia, l’unica che potrà ridare al mare la congeniale destinazione di vita, alla terra e all’aria la perenne funzione di germinazione, all’uomo e alla donna l’assenza di contaminazioni.

Passi possibili del positivo

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Attribuiamo il termine di cammino ai progetti quando applichiamo al loro corso il termine corrispondente latino di iter. La progettazione si sviluppa attraverso fasi che cadenzano un cammino finalizzato e così la successione delle operazioni segue la strategia connessa. Tale cammino deriverebbe dalla visione di ideali oppure da un’ideologia o dalla decisione di volere realizzare la politica e, in questo caso, il progetto ne è parte.

Le tattiche potrebbero essere sottaciute ma le azioni eseguite le riveleranno e sveleranno anche le motivazioni che stanno alla loro origine. Operare secondo un progetto o, prima, lavorare al suo impianto costituisce un affascinante impegno di osservazione e di ricerca che non può mancare a quanti si cimentano nel grande campo dell’educazione e della formazione umana e culturale. Un esempio: i centri di accoglienza e di recupero contro le dipendenze, senza progetto vitale per i singoli utenti, resterebbero distributori di molecole chimiche e grandi assenti nel cambiamento esistenziale. In questi casi abbiamo notato come i momenti di studio e di ricerca necessari per offrire agli utenti l’aiuto di senso sono spesso insufficienti: urge il progetto!
C’è un altro modello di cammino generalizzato che va oltre i confini geografici e le appartenenze etniche; è quello della civiltà. Questa sembra astratta perché trascende le localizzazioni e le patrie. Le conquiste, le scoperte, le invenzioni appartengono al genere umano seppure attribuite ad un genio innovatore. La stampa come la ruota o la radiofonia, il fuoco come la leva o la scissione dell’atomo sono passi di tutti gli uomini e il cammino conseguente è il cammino di tutti, quello che viene chiamato progresso della civiltà.
La capacità del ricordo e la possibilità di confrontare e collegare effetti a cause costituiscono il cammino della storia. La si visita solitamente come sequenza degli avvenimenti e delle trasformazioni ma sarebbe meglio che la si ripercorresse procedendo dagli effetti alle cause attraverso il processo di derivazioni a parte post: la storia a ritroso.
Il suo studio, nell’insegnamento, l’abbiamo intrapreso «a ritroso» iniziando dalle ultime pagine del libro di testo, analizzando i fatti più recenti alla ricerca delle loro cause.
La ricerca, intesa come istorìa, è la storia che amiamo conoscere e che diventa magistra vitæ perché chiarisce il senso dei nessi, le concatenazioni causali, la capacità previsionale degli effetti futuri alla luce dell’esistente. Il cammino della storia è itinerario nel passato ma anche processo verso il futuro che poi è il nostro presente di studio. Ad esempio, per realizzare l’analisi dei nessi nell’osservazione delle rivoluzioni ci illuminano le conseguenze sociali che sono a noi più prossime e che scopriamo derivanti da premesse socio-politiche o dalle condizioni che si sono ripetute nell’arco del tempo e da cui si sono disposti gli uomini al sovvertimento dell’ordine costituito: azioni contro la tirannide o a favore delle dittature. I risorgimenti vari e le trasformazioni statuali sono macchine cingolate che fissano i nuovi parametri sociali la cui origine è il padre e la madre del parto degli avvenimenti a venire. Il 1848 è diventato, per l’Europa, l’anno-simbolo dei rivolgimenti di questo tipo; esso è comprensibile se lo leggiamo anche alla luce di tutti i nazionalismi che sono stati fondati e sono giunti fino a noi; ne tentiamo l’interpretazione mentre ancora fervono scontri in quest’Europa dell’est.
Nell’ambito della scienza il cammino è il crescendo delle conoscenze, frutto diretto dell’osservazione. Senza questa la teorizzazione sui fenomeni sarebbe prossima al fallimento. Diventa scienza la teoria che estende le dinamiche di un fenomeno ad altri eventi possibili e le applica ad altre situazioni similari. Si tratta di sequenze che si riversano sull’umanità e di cui essa ha sempre sete. L’allunaggio è stato frutto di una gara spietata tra due potenze leader nello spazio ma tutto l’uomo, nell’esplorazione dell’universo, stava col fiato sospeso in quella prima tappa oltre il nostro pianeta.
A seguito di quell’avvenimento tanti pubblicisti si domandarono se quei primi passi sulla superficie del nostro satellite avessero decretato la fine della simbologia romantica per i poeti, i sognatori amanti e gli artisti: la luna aveva esaurito la sua attrattiva sentimentale? Ma ciò non aveva niente a che vedere con la scienza!
Nelle sue varie branchie il progresso scientifico si slaccia dal legame con i ricercatori e si estende sino ai confini della terra anche se nella prassi pochi si accaparrano dei benefici economici e del profitto che ne deriva (vedi in medicina, nella tecnologia, ecc.).
Il cammino della filosofia è accidentato e di altro genere: somiglia ad una catena montuosa dalle cento cime e dalle cento valli o al prato fiorito di mille colori. Come ape cercatrice di nettare ti posi su ogni corolla e cerchi, ti nutri, conservi, porti all’arnia, consegni alla comunità ed altri da larve cammineranno verso la vita adulta. Studi le riflessioni e i procedimenti, alleni il pensiero e mediti le argomentazioni, non sosti con i remi in barca, attendi risposte alle domande di senso e al tuo tempo assegni il valore relativo mentre cerchi il ritmo della verità che si svela ed anch’essa appare relativa mentre ascendi la grande montagna.
I cercatori della verità non sono come quelli dell’oro che gareggiano nel collocarsi a monte dello scorrimento dell’acqua o in avamposto nella miniera che a sorpresa ti riserva di rintracciarne una pepita. L’ascesa appartiene a tutti, la verità è di tutti quando si ama la luce e si benedice la fatica dell’ascendere. Il godimento della rivelazione non è l’esclusiva dell’eremita, questi sa che con lui ogni uomo sale, ogni mente vede… nel salmodiare sommesso della sua cella laboriosa o nel deserto sterminato, sa di essere dalla solitudine o dalla clausura voce dell’umanità intera, antenna spinta a captare discorsi ultraterreni, per tutti gli uomini.

La storia della filosofia è il cammino di confronti: dubiti, affermi e disquisisci con altri il senso delle cose e del ragionamento. Ai due grandi interrogativi che cosa è la natura e poi che cosa è l’essere si sono aggiunti tutti gli altri quesiti, come che cosa è la ragione, qual è il senso, come e che cosa interpretare, il tempo, la felicità, il diritto e il dovere, il singolo e lo stato, l’etica e la libertà. È il cammino dei pensieri deboli e forti, tra accidentale ed essenziale, tra formale e materiale, circa l’opportuno e il disvalore. Il cammino singolo si articola in cammini plurimi, per oggetti univoci o analoghi, convergenti o divergenti. Il pensiero e i pensieri, tra chi spera e chi dispera, tra nichilismo e speranza, sono il viaggio tra nulla e Assoluto.
Quanti tipi di cammino! Ancora, quello della lingua. Parli le parole che ti sono state consegnate, strutturi discorsi secondo le regole che ti hanno assegnato: eppure viaggi nell’eloquio che confronti con altre parlate, progredisci nel linguaggio che non è più quello dei tuoi antenati. In Italia declini parole e coniughi verbi non nello stile di Cicerone o di Dante. Adotti sistemi sincopati perché il web ha poche pagine ma molti lettori. In un anno oggi la lingua si trasforma più di quanto sia avvenuto in un secolo e non è necessario essere dei «manzoni» per sciacquare nei fiumi di internet l’eloquio criptato ed essere intesi! Conosciamo i dintorni di questo cammino, sappiamo che è proteso al futuro ed ogni essere parlante è autore, grammatico e retore… e la lingua va!
Gli insegnanti a scuola hanno dinnanzi questa novità: già da piccoli i loro alunni leggono e scrivono con la grammatica tecnologica del web. Maestri ed insegnanti hanno un bel da fare per assegnare al sistema spontaneo la struttura grammaticale e, forse, si attendono ancora pagine protocollo stilate alla vecchia maniera, con traccia assegnata per lo svolgimento composto in linea, a metà colonna a favore delle inevitabili osservazioni e correzioni: la purezza della lingua! Quale e come? La lingua va! Forse su cellulari o su iPad sta crescendo un Esperanto delle nuove generazioni, sconosciuto a Ludwik Lejzer Zamenhof, un sistema comunicativo di linguaggio essenziale non strutturato.

Nella scuola gli alunni vivono la dicotomia tra il dire sincopato veloce della comunicazione in tempo reale e la struttura linguistica dei «compiti» che parlano più al dovere di fornire testi che al bisogno di comunicare pensieri, emozioni e sentimenti.
E poi, c’è il cammino dell’universo. La sua origine è nelle ipotesi. Conosci lo spazio via via e pianti un paletto dopo l’ultimo rilevamento della sonda, del satellite artificiale o della navicella, avamposto del tuo occhio scrutatore; cerchi l’acqua perché essa ha vita e la consente ad altri esseri. Non è un cammino certo. Si tracciano le distanze mentre sorge la domanda sul tempo. Da Galileo, scrutatore dello spazio nel sistema solare, assegniamo nomi a tutte le tappe della conoscenza ora che popoliamo di artifici le orbite terrestri e gli spazi intersiderali. Il cammino umano tra queste tappe è solo l’inizio della perlustrazione dell’indefinito, ricerca non delle pareti come confini ma di orbite delle quali si stilano leggi e si ridisegnano itinerari. Il km è davvero unità di misura terra-terra, ad esso gli astronomi sostituiscono le distanze siderali e le autostrade dello spazio si allargano e si moltiplicano mentre si popolano stazioni spaziali per l’esperimento e la dilatazione delle imprese. Il numero dei km difetta poiché la sequenza dei tanti zeri non offre un nome: si rapporta quell’estensione all’unità dell’«anno luce» perché il calcolo non si perda nell’ignoto. Quanto ci sia di civile e quanto di militare in questo cammino ce lo diranno i conflitti futuri.
Il cammino della pace. I trattati si intrecciano e si intersecano: le politiche si scontrano spesso con il pacifismo. Non di rado i cultori di questo giustificano gli interventi armati in nome della difesa di diritti o per la riappacificazione tra popoli, tribù, etnie.
I proclamatori della non-violenza credono che dalle azioni di guerra non possa sbocciare la pace: l’esemplificazione storica dà loro ragione; ma se c’è un Gandhi c’è anche un Napoleone. I conflitti sono ispirati da interessi, da urgenze per le quali le appropriazioni sono considerate vitali ed irrinunciabili. Le giustificazioni fanno parte delle diplomazie fino al punto che, oggi, gli interventi armati contrastano anche con le decisioni dell’Onu ma questo stesso organismo, fondato per il mantenimento della pace internazionale contro i pericoli di conflitti, procede con forze armate per difesa o interposizione oppure si ferma dinnanzi al veto del solito paese privilegiato.
Le epoche storiche, sui libri e nella didattica, sono scandite dai trattati di pace stipulati dopo conflitti sanguinosi ed anche lunghi. Ma dagli accordi ecco germinare le premesse degli scontri successivi, come è avvenuto tra il primo e il secondo conflitto mondiale o tra questo e l’oggi. Gli autori, frastornati, caratterizzano le epoche o gli evi tra un trattato di pace e quello successivo e Vico ci dice che i fenomeni si ripetono.
Quindi affermare che il cammino della pace è accidentato è un eufemismo. Dall’arcobaleno di Noè alle bandiere contemporanee della pace registriamo il succedersi di altri diluvi, compreso quello di bombe che scandiscono i rapporti tra gli uomini. Dopo la shoah credevamo che l’uomo non sarebbe giunto più a tanto orrore! Quanto è successo fino alle violenze in Africa, in Medio Oriente, in Oriente, nelle Americhe e in numerosissimi luoghi del terrorismo, ci convince che la pace, prima di essere un trattato, è un’educazione; la cosa è dimostrata anche dai tentativi del negazionismo che è figlio del ripudio e del razziamo. Se l’educazione è la soluzione, allora l’immagine del cammino lascia il posto al reale itinerario mentale secondo il quale la terra che occupi, l’aria che respiri, le risorse di cui godi sono patrimonio di tutti fino al punto che tu stesso non sei tuo. Il rapporto tra le politiche dei governi e la mentalità educata è il solo cammino che consentirebbe alla pace di essere durevole e diffusa.

Antropologia e Teologia

Anche l’Antartide si fonde

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I risultati delle ricerca sono stati pubblicati due mesi fa su «Nature Geoscienze». Lo studio è stato portato avanti da un team di scienziati australiani, britannici, francesi e Usa.

Quello che hanno scoperto è che due massicci ghiacciai dell’Antartide, uno a Est e uno a Ovest, si stanno sciogliendo a una velocità superiore alle attese e che ciascuno contiene abbastanza acqua da far aumentare il livello dei mari di 3 metri, oltre sei tra tutti e due. Ora gli scienziati hanno scoperto che al di sotto di questi ghiacciai si stanno insinuando le acque calde dell’Oceano, che hanno aperto al di sotto della superficie marina veri e propri canyon nel ghiaccio. Aperture attraverso le quali l’acqua (più) calda dell’oceano sta sciogliendo il ghiaccio al riparo della vista a una velocità inattesa e finora imprevista.

 

Nature-Geoscience

Fonte: Nature Geoscience

 

Del ghiacciaio a Est si sapeva, ora anche quello a Ovest, il Totten, appare interessato dallo stesso fenomeno, che qualora si completi (ma questa è una tesi tutta da verificare) per alcuni studiosi avrebbe conseguenze enormi, soprattutto sull’emisfero Nord, perché sciogliendosi il ghiaccio determinerebbe anche una ridistribuzione del peso sulla superficie terrestre, cambiandone anche l’assetto gravitazionale (!?). All’aumento medio dovuto allo scioglimento dei ghiacci quindi s’aggiungerebbe quello derivante dal mancato effetto attrattivo della massa di ghiaccio, il che si risolverebbe in un aumento dell’innalzamento delle acque nell’emisfero Nord. Sciogliendosi, la coltre di ghiaccio che ricopre il Polo Sud, raggiungendo in alcuni punti i 500 metri, contribuirebbe all’innalzamento delle acque molto di più dell’analogo fenomeno al Polo Nord, perché il ghiaccio al Sud è appoggiato sul continente e non galleggia sul mare come al Nord, dove sciogliendosi non andrebbe ad influire pesantemente sul livello delle acque.

Artico e Antartide: se uno si riscalda, l’altro si raffredda

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Artico e Antartide «comunicano» fra loro grazie agli oceani: l’analisi delle carote di ghiaccio prelevate ai poli rivela che quando uno dei due si riscalda l’altro diventa più freddo. E’ un fenomeno che si sospettava da tempo e che adesso viene dimostrato per la prima volta grazie allo studio coordinato da Christo Buizert, dell’Università dello stato dell’Oregon e pubblicato su Nature. Recenti analisi degli strati di ghiaccio ai poli avevano rivelato che nel passato sono avvenuti enigmatici e bruschi sbalzi di temperatura: rapidi riscaldamenti dell’Artico seguiti poco dopo da altrettanto rapidi abbassamenti in Antartide.

POLI 2

Grazie a nuovi carotaggi i ricercatori sono riusciti a mettere a confronto i dati provenienti dai due poli e costruire il più preciso «calendario» di questi sbalzi di temperatura degli ultimi 68.000 anni. I dati rivelano che a guidare questa «altalena» è stato in ogni occasione il polo Nord e che i cambi di temperatura hanno influenzato il polo Sud a distanza di circa 200 anni. I tempi e le modalità di questo scambio di temperature, secondo i ricercatori, fanno ipotizzare che a guidare il fenomeno siano le correnti oceaniche che attraversano il pianeta da Nord a Sud.

 

 

POLI 3La scoperta potrebbe aiutare a creare modelli più precisi per prevedere l’evoluzione climatica futura e bisogna distinguere questi cambiamenti climatici del passato da quello che sta avvenendo oggi, a causa delle attività umane. «I bruschi cambiamenti climatici del passato – ha precisato Buizert – erano di portata regionale e causati da cambiamenti su larga scala nella circolazione oceanica. Le variazioni di temperatura e delle precipitazioni che si stanno verificando ora sono globali e causate principalmente da crescenti livelli di anidride carbonica nell’atmosfera terrestre».

I nuovi mezzi di distrazione di massa

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Il prof. Franco Tassi ci ha inviato una sua nota sullo stato della cultura ambientale e sull’assorbimento del Corpo forestale.

Non è in verità la prima ma si comprende la battaglia intrapresa perché sembra impossibile, per chi ha dedicato una vita alla salvaguardia ambientale, vedere demolire principi e beni che sono di tutti. E la delusione è maggiore difronte alla scarsa mobilitazione.
La ragione è semplice: si spostano gli interessi e si fa credere che le soluzioni possono essere altre, salvo a scoprire, anni dopo, che si è perso un bene. Oggi il mezzo di distrazione di massa è, paradossalmente, la comunicazione. Ma non quella che informa, bensì quella che disinforma inoculando il dubbio e la fantasia e perdendo di visto la realtà.
L’Italia è un paese ad alta biodiversità che stiamo erodendo e perdendo e se ne parla sempre meno. I cambiamenti climatici stanno destabilizzando intere aree del pianeta ma c’è chi disinforma accuratamente con controinformazione che fa il gioco degli speculatori e della inettitudine dei nostri governanti. La tecnologia ha fatto passi da gigante e le nuove fonti energetiche sono pulite e pronte ma noi continuiamo a scavare e a trivellare.
I giovani sono assopiti su visioni futuribili parziali che fanno perdere la visione del tutto. Si favoriscono start-up con lo scopo di creare sofisticati sistemi di comunicazione che hanno sempre più lo scopo non di migliorarci la vita ma di distruggere «vecchi» sistemi di benessere ed aumentare di fatto il controllo per creare nuovi bisogni spesso del tutto inutili.
Quando la vera cultura e il vero benessere dovrebbero risiedere nella comprensione, nella valorizzazione e nel godimento di quello che abbiamo.

Giampiero Sammuri, rieletto presidente di Federparchi

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«Orgoglioso e onorato di essere stato eletto per la terza volta Presidente nazionale di Federparchi. È un momento storico di grande importanza per il mondo dei parchi. Nei territori dove l’Italia è protettta, non solo è custodito un patrimonio naturalistico di inestimabile valore, ma l’identità stessa del nostro Paese e anche un asset strategico per rilanciare la nostra economia e creare occupazione nel segno del turismo di qualità, dell’agricoltura legata alle produzioni cicliche, della cultura e delle tradizioni. Concentrerò il mio impegno in questo nuovo mandato, per rafforzare questa missione creando anche nuove alleanze con mondi diversi da quello dei parchi, per apportare nuove idee e nuova linfa vitale».
È quanto afferma Giampiero Sammuri, neorieletto presidente di Federparchi, al termine dell’VIII Congresso nazionale appena conclusosi a Trezzo sull’Adda.

Politica e pedagogia

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Il nostro tempo è fortemente condizionato dai fondamentalismi. Le motivazioni dichiarate esplicitamente, e confermate dagli ultimi episodi terroristici, solo apparentemente possono essere giudicati effetti dell’applicazione radicale di principi religiosi. Si tratta di costruzioni di forme nuove di potere, di ricerca del consenso per flussi occulti di ricchezze e di potere, di accaparramento delle fonti energetiche. Infatti i proseliti dell’Isis, attratti attraverso il web, non possono essere ritenuti seguaci in senso stretto. Non sono portatori di esperienze maturate nella profondità del Corano. Appaiono piuttosto menti esaltate, affascinate dalla possibile realizzazione della violenza attiva. Se così è, prima ancora che sia l’Occidente o il resto del mondo a reagire dovrebbero essere gli islamici stessi a giudicare, isolare e purificare l’interpretazione dell’Islam che, invece, nella stessa storia del Mediterraneo, ha contribuito nel passato ad arricchire lingua, usi, costumi, arte con lungimiranza politica di rispetto delle culture locali.

La storia e il tempo ci daranno ragione, si diceva una volta; oggi possiamo dire che solo l’analisi critica può svelare il vero teatro degli interessi. Ma per sfuggire al fatalismo o non abbandonarsi all’ineluttabilità della prassi è necessario educare e poi dopo educare ancora alla partecipazione come cittadini.
La globalizzazione impone ed alimenta i suoi modelli per regolare i rapporti sociali mentre la finanza e l’economia tradizionale si sono destrutturate in favore dei mercanti che si camuffano dietro la cosiddetta «legge di mercato». Ad esso vengono subordinati la crescita e l’agire degli scambi e questa è la legge, non altro, quella che presiede alla distribuzione dei profitti.
La globalizzazione costituisce l’alibi per i responsabili della cosa pubblica se rinunziano al governo del fenomeno che incide pesantemente sull’andamento dell’economia e sull’assetto della società che amministrano. Da qui l’origine della complessità dell’etica la cui salvaguardia garantirebbe invece la democrazia anche tra gli stati.
Ma «globalizzazione-mercato», al di là della sua dinamica, non esiste come soggetto: l’una effetto del secondo, il secondo causa-effetto della prima, entrambi effetto dell’agire dei mercanti. Essi caratterizzano gli atti e i principi che appartengono al traffico del denaro, ai potentati reticolari che imprimono l’accelerazione al profitto e lasciano per strada come «scorie» le vittime degli obiettivi, dei ritmi e delle regole imposte.

Il nostro stato ha, a suo dichiarato fondamento, il lavoro come espressione delle dignità individuali e sostegno della dignità del vivere, per cui partecipazione e progresso democratico stanno alla base della formazione dei cittadini; quindi esso non può abdicare alla funzione che deve invece estendere a tutte le agenzie formative che, operando, lo rappresentino. Così la pedagogia non resta estranea alla promozione, ne diventa motore propulsore. Essa, come strumento per la salute generale e particolare, ha l’obbligo della ricerca dei criteri educativi in vista dei piani formativi.
Tali criteri potrebbero essere almeno tre:

Individuazione dei deficit democratici. In Italia il potere, in questi ultimi anni, si è manifestato come supremazia. Alcune maggioranze elette hanno preteso superiorità assoluta sulle minoranze ritenute avversarie nocive e nemiche del buon fare, pretendendo la censura nella comunicazione o il suo contenimento a sandwich tra dichiarazioni con la soppressione della satira politica. Si è proclamato per anni il principio delle libertà, non certo di quella degli oppositori. Valore stimato è il successo, raggiunto e celebrato come vittoria su e contro qualcuno. All’angolo del ring politico è stato definito «grande» ogni risultato, ogni dichiarazione, ogni iniziativa del leader vincente. L’«asso prende tutto» ha così ridimensionato il contrasto relegandolo nell’area del conflitto perenne. Il bilanciamento degli organi istituzionali si è tentato di ridurlo a settori di seconda categoria, il libero pensiero è stato qualificato come tradimento verso chi il potere aveva elargito e concesso.

Interventi di restauro democratico. La concezione della democrazia merita il contrasto lungo la linea di difesa delle forme alternative. Prima di tutto si tratta di rivedere la concezione del potere: reinventarlo come servizio; il potere legislativo e quello esecutivo, infatti, sono su delega dei cittadini, nell’espressione della loro maggioranza e nel rispetto delle minoranze a cui va riconosciuto il pieno diritto della libertà. Il servizio modifica gli atteggiamenti e le iniziative del potere stesso poiché rimane indiscusso il valore della libertà democratica. Il potere risulta più democratico se promuove e difende la libertà delle minoranze, rimediando i valori che fossero stati relegati ai limiti se l’autorità si coniuga con l’autorevolezza e contro il dispotismo. La pacificazione è il risultato di questa dinamica del riconoscimento e i contrasti non tracimano in conflitti e non si articolano in disordini.

La pedagogia in azione. Qui nasce il ruolo indispensabile della pedagogia perché la realizzazione della democrazia o la sua compiutezza pretendono l’educazione ai suoi valori. Sono almeno cinque gli obiettivi che la formazione integrale delle donne e degli uomini come cittadini uguali deve conseguire: sarà che la politica governi i diritti e i doveri in simbiosi e nell’etica della partecipazione attiva.
   1. accogliere ed ascoltare
   2. dare spazio ed autonomia alle diversità
   3. la leadership come dinamica del riconoscimento e non come autoaffermazione di supremazia
   4. proporzione del diritto-dovere secondo i bisogni e la necessità di promozione
   5. superamento dei conflitti in pace agita.

L’educazione alla reciprocità è la premessa pedagogica fondante perché la reciprocità non è un principio ma una situazione contestuale del riconoscimento del valore dell’altro; da essa derivano realizzazioni di sussidiarietà e solidarietà verso la condivisione e il rispetto della giustizia distributiva.
In Italia, la nostra democrazia è ancora adolescente, pretende a scuola la disciplina e il rigore, ma nel sociale la politica accaparra diritti e privilegi, elargisce indennità e sfugge alla tassazione, delocalizza ed elargisce mazzette. Si sono promosse riforme della giustizia sul piano del condono, mentre si depenalizzavano i falsi in bilancio e si riducevano i tempi di prescrizione del reato!
A partire dalla scuola informare ed educare alla politica significa proteggere la democrazia, consentirle di crescere e di compiersi. Infatti le tante ore nei tanti mesi e tanti anni sono tempi e luoghi privilegiati per la conoscenza dei valori democratici, mentre la convivenza è accompagnata ed animata, sorretta ed illuminata dall’intervento degli adulti consapevoli: che cosa di meglio, di strutturabile, di scientifico e di pratico potremmo desiderare?

L’informazione sulla democrazia, ricondotta ad una sola disciplina, marginale per tempi e contenuti, non esime di risultare invece proficua e produttiva se progettata all’interno della convergenza di tutte le discipline, con progetto trasversale ed interdisciplinare, come sono di fatto gli obiettivi della socializzazione. La formazione è allineata, quanto ad importanza, al proverbiale «saper leggere e far di conto»; eppure molti aspetti della nostra libertà democratica sono stati guadagnati da una moltitudine partigiana di semianalfabeti o poco istruiti! Ogni insegnamento, appartenente a qualsiasi disciplina, è esercizio teorico e pratico della performance democratica in un insieme di menti disposte all’apprendimento, di psicologie aperte alla relazione e al rispetto reciproco.
In una concezione di scuola della prassi democratica l’équipe docente è la punta di diamante della ricerca e della progettazione democratica sull’etica di vissuti associati.
La storia del pensiero pedagogico ci illumina sul persistere, nel tempo, di confini dettati all’istruzione e alla formazione perché la funzione civile risulti funzionale al sistema. Le spinte illuministiche e rivoluzionarie dal fine settecento in poi hanno portato a riconsiderare il machiavellismo della politica di funzione finalizzato alla salvaguardia del potere costituito. Non sono venute meno del tutto le spinte ideologiche a giustificazione del potere assoluto secondo l’idea hegeliana né quelle della prassi rivoluzionaria per l’impostazione del potere del proletariato nate dalla stessa costola dell’hegelismo.
Tali premesse, all’apparenza filosofiche e nella realtà strategiche, hanno segnato anche gli eventi dolorosi del novecento. Oggi si è convinti che alcune democrazie occidentali siano mature e compiute ma in esse c’è ancora necessità di Gandhi e di Luther King come voci profetiche di progetti salvifici contro la violenza. In Italia stessa, a distanza di tempo dalla dittatura fascista, non abbia superato il timore del terrorismo, non abbiamo debellato la ramificazione delle mafie e la loro incidenza violenta. L’avvelenamento dei pozzi della politica è la traduzione e lo sdoganamento di operazioni mafiose sul territorio per l’inquinamento sistemico della macchina amministrativa. L’inquinamento dei rapporti e la strumentalizzazione dei ruoli e dei servizi potrebbe offrire spazio all’affermarsi di maggioranze assolutistiche: abbiamo superato del tutto il Piano di Rinascita?
La storia ci insegna che la violenza anche solo verbale finisce per armare la mano degli ignoranti e dei prevaricatori: le menti e la massa alla «renzo», capace di favorire l’ascensione pseudodemocratica al potere.
Strategia occulta ed anche palese dei marcatori di cambiamento involutivo è quella di dividere, isolare, arginare il libero pensiero, bloccare i movimenti dei lavoratori e la loro organizzazione, unitamente al controllo di potere sulla magistratura e sulla sua azione di argine contro il malaffare organizzato.
La pedagogia delinea le finalità e le motivazioni dell’educazione diffusiva del diritto ed essa si situa a difesa delle convivenze libere; da qui alla gestione delle imprese come declinazione della giustizia il passo è possibile. Se la Resistenza ha consegnato alla nostra recente storia la lettura sofferta della libertà riconquistata, la scuola ha il dovere di alimentare la rilettura dei valori costituenti, perché dalla comprensione ed esercizio dei primi 12 articoli della Costituzione passa nella società il persistere della convivenza civile e il riconoscimento della politica rigeneratrice, capace di arginare la degenerazione.

Conclusione

Come sposare libertà e democrazia contro le forme fondamentaliste dei disegni politici? Non ci sfiora almeno il dubbio che la corsa agli armamenti, la bramosia del possesso delle fonti energetiche, l’accaparramento delle zone di influenza, l’egemonia sugli scacchieri strategici siano l’anima dei colonialismi moderni, delle iniziative vendicative?
Ieri Lepanto, oggi Ucraina, Siria, Bagdad, Gerusalemme, Libia, Tunisia…: solo apparentemente all’insegna delle fedi e dei libri sacri; un’interpretazione della pace per ridisegnare confini e poteri.
L’anima della crisi, come detto, è già nella democrazia che in sé cova i germi della segregazione delle minoranze in nome della maggioranza.
La riflessione sui limiti e i pericoli nella democrazia è però il sale della sua salvaguarda e della sua perfettibilità.

Attorno ai criteri della vita associata

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La prassi politica ha come obiettivo generale l’amministrazione della cosa pubblica nella molteplicità delle azioni di governo attraverso i servizi centrali e periferici preposti in favore del bene privato e pubblico partecipato: consolidare le garanzie, proporzionare l’equilibrio distributivo, risanare i deficit, promuovere gli utili tra rischio e ricchezza, salvaguardare la qualità e la giustizia, colmare i bisogni primari, difendere i diritti dei meno abbienti, rimuovere gli ostacoli per la realizzazione dell’integralità delle persone e delle comunità; tutto questo soprattutto in tempo di congiunture sfavorevoli, contro le speculazioni, affinché il profitto non prevarichi e sia fatta salva la qualità della vita, anello debole della catena nella società democratica.

In tale scenario si giuoca il confronto tra destra e sinistra storiche. Il loro obiettivo è la soddisfazione dell’equilibrio sociale. I due poli risultano strutturalmente diversi a seconda che danno precedenza al privilegio o al diritto di equità; è la loro differenza storica ed ideologica. Ma spesso, nella prassi, le forme competono con modelli «contaminati» pur di raggiungere una realpolitik e risolvere problemi di maggioranze esigue, deboli e dalla tenuta incerta.
C’è una seconda fascia di problemi a cui sia la destra sia la sinistra devono offrire la loro soluzione: non in ossequio all’ideologia ispiratrice, ma ai bisogni della vita associata conclamati ed urgenti, con risposte trasparenti verso la richiesta di diritto dei governati. Il modello programmatico di società risponde ad assunti indicati dalla teoria ideologica, ma di fatto spesso questi restano confinati nel pretesto da cui invece si origina la possibile proporzione per raggiungere i benefici promessi in campagna elettorale.
L’ortoprassi, a questo punto, si ricollega non a pregiudizi teorici (definibili come ideologia) ma alle cause delle congiunture, ora di sistema, ora indotte, provocate da circostanze critiche che solitamente derivano da profitti non sempre dichiarati che non resistono ad analisi scientifiche e rigorose sui difetti di trasmissione dei beni e dei consumi.
La risposta non può esaurirsi in interventi tampone ma nell’iniziativa educativa che lo stato deve intraprendere perché attraverso il suo contratto formativo sia restituita legalità contro la prevaricazione.
Per esempio, il contrasto alle mafie e al crimine organizzato non è solo respiro profondo delle singole istituzioni, ma è obbligo dello stato essere in grado di estendere il contrasto su tutto il territorio e trovare anche alleanze estere per aggredire la sopraffazione, ridurre alla nullità il crimine, fondare l’azione riabilitativa delle democrazia ferita.

La sua azione pedagogica parte dalla prevenzione e si fa strada sino ai comportamenti della vita associata perché laddove si nutre il difetto là sia commisurata la libertà affinché la vita dei singoli e della comunità prosperi secondo scopo nel progresso e contro la noia del vivere.
Le riabilitazioni sembrano, oggi, più frutto dell’iniziativa di formatori illuminati che di politiche vere e proprie valide per tutto il territorio nazionale.
Le istituzioni di ogni territorio, dal livello comunale a quello regionale, sarebbero strumenti di osservazione ufficiale e specifica dei bisogni dei singoli cittadini e delle comunità locali. Le istituzioni stesse sono i detentori del servizio sociale con i loro compiti giurisdizionali a salvaguardia dei diritti, delle libertà e dei rapporti in genere; le istituzioni religiose locali con la loro penetrazione personalizzata cautelano l’eticità dei comportamenti; le libere associazioni nutrono l’impiego del tempo libero e alimentano gli interessi culturali e il benessere in genere; finalmente le scuole, sia pubbliche sia private, sono luoghi della promozione ed evoluzione individuale, culturale e sociale di tutti i cittadini. Se tutte queste istituzioni fossero a rete il supporto raggiungerebbe ogni cittadino come singolo e come comunità e verrebbe più organico intercettare i bisogni, arginare i deficit e le prevaricazioni attraverso la politica della prevenzione. La prevenzione, infatti, nel suo primigenio significato etimologico (lat. præventio), significa proprio riconoscimento del diritto. Il termine latino giuridicamente si riferiva al caso in cui nel conflitto di più diritti, proprio per principio di prevenzione, si dava la preferenza a quello sorto per primo. Quindi prevenire, come dovere dell’istituzione, significa riconoscere i diritti anche di coloro che delinquono: sono proprio loro, a cui si riconosce il diritto, che dovranno essere soggetti attenzionati perché la debolezza non sia radice della sopraffazione. Ma, a fronte di reati diffusi, commessi da soggetti sempre più giovani, non si registra l’incremento e neanche una minima fondazione della rete di interventi specialistici specifici, curati ed incrementati dagli Enti Locali.

Questi sono i tre interrogativi propedeutici ad una riforma degli organismi preposti all’educazione, al suo rinnovamento e alla prevenzione:
1. chi aggiorna e cura la formazione dei responsabili della rieducazione?
2. chi studia ed analizza i fenomeni del degrado e dei deficit per proporre piani di intervento nei settori?
3. chi coordina gli operatori della salute per l’attuazione del piano di prevenzione e riabilitazione?
Spazio e progetto formativi sono indispensabili perché i cittadini di un territorio siano confermati in una situazione ecologica globale.
La nostra scuola superiore di secondo grado licenzia studenti «maturi»: si presuppone che siano cittadini consci della loro responsabilità civile. Ma essi conoscono il funzionamento dello stato, l’esercizio della democrazia e della partecipazione alle scelte politiche, ne conoscono fisionomia e responsabilità? Basta assistere ad un esame di stato per misurare il grave deficit formativo dei giovani maturandi in conoscenze sulla contemporaneità socio-politica!

Lo studio della storia presenta tutte le situazioni in cui i governi hanno represso le voci del contrasto, hanno censurato il dissenso critico: il potere nutre la paura che il suo indebolimento derivi dalla funzione critica della cultura. Anche in Italia si è corso questo pericolo, non molto tempo fa, e si spinse addirittura con delle circolari a sollecitare l’indicazione degli insegnanti che avessero esplicitato a scuola delle critiche verso la gestione della cosa pubblica, una sorta di reato di vilipendio! Tale forma di vera censura non ebbe molto seguito, del tutto irrazionale e lesiva della libertà democratica e della libera docenza. Ma se non è la scuola chi deve informare e formare perché ogni cittadino sia consapevole su quello che si verifica nel paese e sui gangli di trasmissione delle contraddizioni sociali e delle debolezze confluenti nella disuguaglianza e verso l’asfissia della democrazia?

La proposta dello studio della storia a ritroso, nelle ultime classi soprattutto, ci ha dato l’opportunità di rileggere l’attualità in forma critica, disponeva alla risalita lungo l’itinerario dall’effetto a causa, risultando evidente la dinamica degli interessi e dei poteri quali coefficienti determinanti del condizionamento socio-politico del Paese e del mondo intero; mentre per tutta la durata dell’anno scolastico si esercitava la lettura critica degli avvenimenti nazionali ed internazionali, necessitanti una disamina ragionata e confrontata.1

 

1 Cfr. Francesco Sofia, Utopia e didattica della Storia, in «Nuova Secondaria», 10 (1996), pp. 58s

La funzione utopica della politica

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Alla radice della problematica contemporanea, in un momento di transizione come quello attuale, riflettere sullo stato e sul diritto non è cosa da poco. Perché? La dialettica odierna si incastona in uno scenario del tutto nuovo a partire dalla crisi irachena da cui è emersa in modo fortemente assertivo la contrapposizione tra l’Islam e il mondo occidentale.

La radicalizzazione dello scontro quanto possiede in sé di religioso e quanto di interesse strategico sulle fonti energetiche? Sembra che il dispiegarsi del ventaglio tra questi due poli camuffi interessi, strategie, collateralismi e, finalmente, l’espressione armata del dissenso. Si tratta, oggi, a pochi anni dall’esplodere del contro o pro Saddam, di una forma di internazionalizzazione dei conflitti che ha la caratteristica di andare oltre i confini geografici e gli schieramenti politici: il dissenso armato serpeggia, si camuffa, sorge qua e là mentre le sue spore sembrano spinte in tutte le direzioni e in tutti gli humus possibili da un vento inarrestabile che ora viene definito terrorismo ora sionismo ora antisionismo, ora guerra santa, ora difesa della democrazia, protezione dei perseguitati, ripristino della pace: tutto sorretto e contraddistinto da forze armate in allerta, in azione con distruzioni per rappresaglia e con il ricatto dell’impiego atomico. Alle porte di tutto questo ecco apparire ed espandersi l’Isis, con un web che fa proseliti ed annovera nei ranghi menti disturbate di giovani, uomini e donne, che esaltano il coltello e lo sgozzamento …. Se non è questa una guerra mondiale inventiamoci come definirla.

Tra la concezione della moralità personale, secondo l’assunto kantiano della categoria dell’universalità quale unica radice del principio morale, e il senso dell’Etica in generale si collocano le varie teorie storiche come il «divenire» dialettico hegeliano, il modello di Hobbes, quello di Rousseau, di Marx per i quali la fondazione del diritto si anniderebbe nell’evolversi stesso della storia o della persona o del proletariato. La fondazione dello Stato è condizionata dalla risoluzione della problematica giuridica: il diritto prima o dopo? È evidente che se il modello statale derivasse dall’assolutismo religioso si rilancerebbe la politica come crociata, il diritto e il bene comune come figli dell’Assoluto che si sarebbe rivelato alla Ragione o qua o là, sul Sinai o a La Mecca!

Mi permetto a questo punto un’indicazione. Nella storia del pensiero italiano, in piena transizione socio-politica della seconda metà dell’800, quando le regioni italiane si consegnavano con la spinta delle armi o dei plebisciti al nascente Regno d’Italia, Giovanni Bovio (Trani 1837 – Napoli 1903) spostava la sua riflessione sul nuovo soggetto politico, il popolo1. Riflessione importante che nasceva in contesto meridionale mentre il Mezzogiorno veniva consegnato ai Savoia rassicurando il latifondo ed impegnando il territorio militarmente contro il brigantaggio. Se il concetto della dialettica si era spostato dalla discussione idealista pura al materialismo storico in cui le classi e la loro conflittualità spiegavano l’origine dello stato e del diritto, Bovio riportava la discussione sul popolo: il governato poteva trasformarsi in propulsore della politica e del rinnovamento del diritto. Ma bisognava superare la concezione strategica verticistica della forza e dell’astuzia, concezione laica di Machiavelli, e ciò sarebbe stato possibile, secondo il pensiero del Bovio, con una rinnovata impostazione democratica: «il criterio di reciprocità» per cui lo stato era garante della «proporzionalità» tra cittadino e Diritto.

Il filosofo e politico italiano, a proposito del rapporto tra religione, politica e diritto, scriveva: «qualunque altra forma di tradizione rivelata, o chiesa di Roma, o anglicana, o tedesca, o gallicana, o di questa e quella religione orientale, tutte hanno l’istesso fondo tragico, contenuto di ogni religione, ostile sempre al supremo disegno della storia, alla libertà della quale si adempie la essenza dell’uomo».2
Le religioni, infatti, somigliano alle forme monarchiche civili per un elemento: la successione. Sembrerebbe cosa estranea alla questione, invece è coefficiente essenziale della tradizione che spesso, nelle religioni, prende il sopravvento sulla dottrina o sul dogma. Si tratta del peso mondano che propende verso interventi materiali interpretati alla luce della dottrina che, ritenuta ispirata, pretende di dettare i comportamenti politici, disegnati come modelli etici della storia. Secondo Bovio la successione rende asfittico anche il voto plebiscitario che trasforma la democrazia in autocrazia.3
La reciprocità, invece, produce democrazia perché mette in relazione la persona con la società e con l’universalità che sono l’anima del Diritto: «Lo Stato non può equilibrarsi – scrive Bovio – senza proporzionarsi, né proporzionarsi senza riprodurre in sé le contrarie forze della vita nazionale e la loro sintesi».4

Dalla reciprocità Bovio fa derivare alcuni assunti politici che, oggi, suonano come intuizioni profetiche sul mantenimento della democrazia liberata dai pericoli della deriva. Sono otto coefficienti che numeriamo in successione per opportunità espositiva ma essi sono contemporanei e tra di loro combinati per la salute dello stato democratico:

1. La connessione tra individuale e pubblico è necessaria. Per cui «si relazionano equilibrio economico e vincolo civile … rompendo le caste, allargando il voto e rendendolo rivocabile, alitando nella faccia di ciascuno l’anima civitatis».5

2. L’ecosistema realizza il valore oggettivo del diritto. La «comunanza» è per Bovio l’unica opportunità che arricchisce l’ambiente (parchi e buona aria) fino al diritto al lavoro che per tutti deve essere igienico, misurato, umano perché il rispetto del lavoratore è rispetto stesso della Natura6; ci sono delle responsabilità per la realizzazione di questi caratteri: «Coloro che per natura del loro mestiere hanno interesse a mantenere frammentaria la mente, l’individuo in disparte dal cittadino, la scienza divulsa dalla fede, l’uomo separato da se stesso, non devono assumere uffici didattici».7

3. La libertà è relazione e comunicazione. La partecipazione al bene comune implica la libertà di espressione: «L’integrità mentale – scrive Bovio – deve svolgersi sino all’intera libertà della parola, come discussione orale e stampa. Estendendosi la libertà della parola quanto la libertà del pensiero, ne seguita che come, fuori della logica, non ci può essere una legislazione speciale del pensiero, così, oltre la pubblica opinione, non ci può essere una legislazione speciale per la stampa. L’intimità di stima non menoma la libertà della pubblica discussione e della stampa, ma consente l’una e l’altra sino alla “actio popularis”, la quale, nella vita pubblica, è ordinata a contemperare il potere con la responsabilità».8

4. L’utopia politica è possibile. Dice Bovio: l’uomo «vive nel passato e nell’avvenire, di memoria e speranza, di tradizione e presentimento, l’uomo è l’animale utopista: se religioso, tra l’utopia del paradiso perduto e del paradiso acquistabile; se razionalista, tra l’utopia della caverna e quella della parità umana».9

5. Il voto non può essere definitivo. È la sua revocabilità che consente il controllo della sovranità. Ciò favorisce e salva la libertà contro il potere autonomo ed oligarchico. La responsabilità, infatti, «genera la revocabilità del mandato».10 Un voto che sia espresso dagli uomini e dalle donne, fin dai 18 anni: una sorta di «corretto costume dell’ambiente ed equilibro sociale tra i sessi».11 Tutto ciò detto in quegli anni!

6. La municipalità esprime la nuova politica amministrativa. Una visione alternativa dell’amministrazione comunale: «Il municipio è signore nel suo circuito territoriale, perché ne conosce i bisogni, dei quali alcuni sono tradizionali altri nuovi, alcuni fondati sulla base dei secoli che non si distrugge in un giorno, altri nascenti dalle necessità di ogni giorno, di ogni ora». Il decentramento qualificherebbe la natura dello Stato non più inframmettente, perché «in codesta inframmessa è il primo carattere della tirannide».12

7. È da realizzare la federalità. Non solo quella tra i municipi che consenta il mutuo aiuto e il vicendevole sostegno come consorzio, ma la cooperazione internazionale, «la “cosmopolis”, dove il diritto delle genti non sia un desiderio impotente, ma trovi tutte quelle determinazioni e guarentigie che accompagnano ogni altra manifestazione del diritto, dall’individuo sino alla nazione».13

8. La prevenzione qualifica il Diritto. La prevenzione deve precedere la sanzione; perché «ogni repressione è assurda se non sia preceduta da prevenzione, la quale non è penale ma essenzialmente civile».14 Il filosofo pugliese auspica il superamento della legislazione penale contro i reati: «le pene enormi vannosi cancellando come la penalità, rispetto al crescere della ragion civile, si viene attenuando. Scaduta la pena di morte, altre pene gravi saranno abolite: più si studia l’origine dei reati e più i codici penali volgono mitezza».15 Il codice umano dovrà essere sovranazionale: «Ecco, senza dubbio, una grande utopia, ma con tutti i caratteri della possibilità e della necessità. Bisogna che il sentimento dell’umanità si volga in atto e l’idea diventi fatto».16

Queste sono la caratteristiche a cui deve rispondere una moderna politica democratica. Il comunismo è superato, pensava Bovio, perché favorirebbe la catena reattiva contro la vera reciprocità che sola esalta il lavoratore a cui appartiene la capacità di contrattare le prestazioni, perché «il lavoro è missione e natura, ed è insieme dovere e diritto, o, a dir correttamente, obbligo e pretensione ».17 L’associazione tra i lavoratori umanizza il lavoro: «per modificare il lavoro – scrive – sì rispetto alla natura e alla durata, come rispetto agli effetti e alla retribuzione, per mutarlo di bestiale e macchinale in umano, bisogna toglierlo alla presente condizione monastica (= individuale) e renderlo sociale … il catechismo dell’operaio si assolve in pochi precetti: equazione tra pretensione ed obbligo; tra prodotto e attività produttiva; lavoro associato».18

 

1 Cfr. G. Bovio, Filosofia del diritto, Napoli 1885. – Già deputato del Regno nel 1876, fu confondatore del Partito Repubblicano Italiano nel maggio del 1897 a Firenze. Per una riflessione sul pensiero del filosofo: cfr. F. Sofia, La fondazione del diritto e l’istanza utopica nella Filosofia del Diritto di G. Bovio,in «Sapienza. Rivista di Filosofia e Teologia», 54(2001), pp. 193-200.
2 G. Bovio, Filosofia, cit., p. 51.
3 Cfr. Op. cit., pp. 161ss.
4 Op. cit., p. 365.
5 Op. cit., p. 39.
6 Op. cit., p. 209.
7 Op. cit. , p. 232.
8 Op. cit., p. 236.
9 G. Bovio, Disegno d’una storia del diritto in Italia, Roma 1895, p.116.
10 G. Bovio, Filosofia, cit. p. 349.
11 Op. cit., p. 341.
12 Op. cit., p. 351.
13 Op. cit., p. 187.
14 Op. cit., p. 206.
15 Op. cit. p. 388.
16 Op. cit. p. 394.
17 Op. cit., p. 297.
18 Op. cit.,p. 298.

Prassi e ortoprassi

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La politica è assoluta e relativa insieme. Quando la gestione del potere è assoluta questo carattere è vanto delle istituzioni che si appellano a valori costituzionali civili ed è pretesa delle altre che presiedono il mondo religioso.

La gestione del potere, però, deve essere relativa. Cioè la sua impostazione accoglie progetti e programmi del mondo possibile, accoglie il compromesso perché riconosce il potere come espressione non di autorità ma di servizio per il bene comune.
Tra i vari modelli oggi polemicamente dibattuti tra i partiti ed i conseguenti governi c’è proprio quello della concertazione. Il termine nasce in ambito musicale e, in modo figurato, si estende alle trattative contrattuali nel rapporto dialettico tra governi e parti sociali, sempre che resistano i criteri democratici nella gestione della convivenza civile.
Qui il dubbio: se la politica pretende di limitare le libertà individuali non verranno meno i coefficienti razionali ed etici dell’«orto-prassi»?
Il modello sociale a cui una comunità si ispira non può concentrarsi solo sull’esistente: il futuro è incluso nella sua prospettiva perché la tensione al meglio è connaturale al bene comune. Ora, c’è differenza tra futuro utopico, o modello del bene, e futuro come pura programmazione economica. Un esempio, la scuola: essa serve ad avere la classe dirigente specializzata e produttiva come custode del potere o è finalizzata a realizzare per la totalità dei cittadini l’arricchimento dei saperi?

Lo stato che sceglie fra questi due traguardi è uno stato escludente e la sua politica sarà inevitabilmente conseguente. In Italia si fa fatica a realizzare una concezione del merito che non conduca alla mera meritocrazia, per la quale il merito non è il riconoscimento del valore ma la base per l’assegnazione del potere. Una siffatta democrazia crea le basi per il suo assottigliamento e la conseguente degenerazione.
Facciamo fatica a riconoscere nelle democrazie occidentali l’orto-prassi. Dalle nostre parti anche i partiti democratici e riformisti additano nelle società inglese e americana la democrazia compiuta. In quei paesi, però, vige ancora la contraddizione tra classi, a fatica si riconosce il diritto fondamentale alla salute, lo spazio alle minoranze, l’accoglienza delle altre etnie, si concede il possesso indiscriminato delle armi, si consumano brogli elettorali, violenze eclatanti anche da parte delle polizie, interventi armati verso altri stati, misteri insoluti di complotti. Non sarebbe il caso di parlare di oligarchie più che di democrazie? Il conflitto di interessi resiste e caratterizza molte scelte dei governi, il danaro pubblico è accaparrato ad uso e consumo dei furbi detentori del potere, l’esercizio delle preferenze è controllato dalle segreterie dei partiti che diventano cooperative di interessi forti.

La degenerazione politica, in Italia, è sicuramente provocata da almeno due radici: la prima di sistema e la seconda di tradizione.
     

a- Il sistema

Nel passaggio storico italiano dal ventennio fascista alla Repubblica si sono sommati questi elementi: tradizione monarchica, fenomeno fascista, ideali post-risorgimentali, valori repubblicani cattolici e laici. La pace sociale a cui diedero il via i «padri costituenti» risultò di larga mediazione, ritenuta saggia dalle parti per altro in contrasto ideologico e successivamente minacciata per la commistione di idealità alternative e tra di loro escludenti, anche per il riciclaggio di molti esponenti transitati dall’esperienza fascista alla nuova repubblica.
Nel nuovo assetto si collocarono ideali repubblicani accanto ad interessi post-monarchici, post-fascisti, poteri più o meno forti, anche occulti, con interferenze di potenze straniere sull’organizzazione delle forme di governo: presenza comunista sì o no, socialista sì o no, fino alla P2, all’uccisione di Moro, al brigatismo dai due colori, ai depistaggi di stato, alle mafie e politica conniventi … dallo sbarco in Sicilia e da Portella delle Ginestre e via avanti ancora con le pressioni esterne non proclamate, serpeggianti, divenute esse stesse politica e prassi; le nostre strade, le istituzioni e i luoghi di lavoro sono diventati spesso luogo della violenza e del lutto.
C’è il ragionevole convincimento che la consegna di Mussolini agli Alleati era dettata dalla pretesa di gestire la fase post-bellica e la nascita del nuovo stato in modo assai diverso dal modello statale che la lotta partigiana invece si accingeva a realizzare a metà degli anni Quaranta. Un paradosso, piazza Loreto ebbe un insperato effetto: la condanna del dittatore paradossalmente si trasformò nel sacrificio propiziatorio perché la novità italiana si affrancasse da nuove e possibili sudditanze decise altrove. I compromessi di Yalta circa l’influenza internazionale delle grandi potenze hanno provocato dinamiche, prima occulte e poi conclamate, con altre divisioni e guerre fredde … in attesa che i novelli guerrafondai riprendessero a gestire la fragile pace.

Nel nuovo assetto del sistema italiano si incluse il Concordato tra Stato e Chiesa, con molte discussioni, è vero, ma in modo acritico perché la concertazione, nata sul piano di interessi, di risarcimenti e di privilegi (a suo tempo convenienti alle due parti, Vaticano e Mussolini), lo inseriva nella nuova Costituzione senza che si fossero modificati gli interessi che ne avevano ispirato l’origine.
Sicché, quando la laicità della nuova cosa pubblica si affermò da lì ebbero origine le influenze di «oltre-Tevere» sulla politica italiana, determinandosi una nuova forma di cesaropapismo, nuove pretese vaticane in nome della libertà religiosa e della tradizione cattolica (che il Regno governato da massoni non aveva riconosciuto e Mussolini invece aveva accolto per lucrare consensi). Storicamente è più esatto parlare di «pretese vaticane» e non papali poiché la curia è stata sempre determinante a prescindere, al di là del pensiero dei pontifici.

Il compromesso ha avuto nel tempo un grande peso: De Gasperi allontana i comunisti dal suo governo per pressioni americane, più che per avversione alle sinistre; aveva affermato i valori cattolici in chiave laica non per cedimento compromissorio laicista favorevole alla cultura marxista. Il progetto politico omaggia il vaticano e successivamente si rinnova tale accordo con dei ritocchi, portati avanti con alterne vicende e discussioni soprattutto dopo il concilio Vaticano II, fino alla definizione dell’84 dal governo Craxi. In tutti gli anni che ci separavano dall’entrata in vigore della Costituzione, è saliente il fatto che il Pci avesse scelto sempre il tono basso e la ricerca del mantenimento della pace religiosa, anche contro le impennate del Psi e nonostante la scomunica di Pio XII dei comunisti.

Oggi, ecco ancora spazio di alcuni partiti alle indicazioni vaticane sui temi sensibili ed etici, per godere dello scambio in fase elettorale (solo in Italia, infatti, le indicazioni vaticane e dell’episcopato hanno influenza, cosa che non succede fuori dall’Italia). Una chiesa che ritira la sua approvazione all’insegnante di religione cattolica, perché è separato, applica lo stesso metro di giudizio verso il politico dalla condotta riprovevole? casi in cui la Chiesa applica il criterio della prudenza e della discrezione verso i potenti e quello della condanna e riprovazione verso i suoi affiliati. Abbiamo sentito dire da autorevoli esponenti che «… certa condotta va contestualizzata, ecc…». Ma la storia, con il tempo, fa giustizia: anche quando si condannò la sottrazione dello Stato Pontificio al papato poi, nel tempo, se ne considerò l’opportunità per il bene stesso della Chiesa.

b- La tradizione

La posizione assunta da Romano Prodi, durante il suo governo in Italia, con la quale difendeva l’«essere adulto» del credente rispetto alla laicità della politica, ci introduce nello scenario contemporaneo dell’affermazione della tradizione che si intreccia con la struttura. La degenerazione della politica la si può constatare ora nei comportamenti dei politici, ora nel clientelismo degli elettori, ora nell’iter legislativo, ora nell’applicazione della giustizia, ora nella confessione religiosa. C’è infatti, in Italia, un aspetto fondamentalista latente che tenta di assolutizzare le posizioni ritenendo il proprio credo come prassi necessaria anche per le minoranze. Così è stato nel caso di dover legiferare per escludere i pericoli e il malaffare clandestino dall’interruzione delle gravidanze, con una legge apposita, così è stato nel caso del divorzio, così è ora per le unioni di fatto, le inseminazioni, ecc. gli uni usano l’universalità della chiesa e il valore dogmatico della sua morale, gli altri il valore delle posizioni dei non-credenti a cui va riconosciuto il diritto di dissociarsi dal credo cattolico e dalla sua ricaduta sulla prassi.

La tradizione e l’appello ad essa viaggiano con o contro l’interpretazione politica. Un esempio per tutti: l’affermazione delle radici cristiane della civiltà dell’Italia e dell’Europa. Il riconoscersi dentro un filone di tipo religioso come si concilia con le politiche? Forse che tale radice ha impedito il colonialismo italiano? o forse le leggi razziali contro gli ebrei o forse i respingimenti degli immigrati e il loro contenimento nei centri di emarginazione? Ragion di Stato e radice cristiana, due lati di una medaglia che volge la sua faccia al momento opportuno: ti esento dall’Imu, ma intervengo nelle guerre. La tradizione ha un peso relativo, essa viene declinata secondo la convenienza che solitamente è interna (politica governativa) ed esterna (alleanze e opportunità di inserimento nelle economie dei paesi in rivolta).
Radici cristiane quando il piano migratorio italiano, degli anni Cinquanta e Sessanta, determinò «una emigrazione individuale e di massa verso i paesi dell’Europa settentrionale tale che potesse produrre un rientro di 250 milioni di dollari oro annui» come decretò il piano di sviluppo economico del tempo, sulla spinta segreta del Dipartimento di Stato americano? Ciò è documentato dalla pubblicazione degli atti americani prima secretati1.
La notizia sollevò grande stupore tra i partecipanti quando, negli anni 1979 e 1980, io stesso comunicai la novità di queste rivelazioni nei due Convegni dei Missionari Cattolici in Germania, svolti a Norimberga e a Francoforte: stupore proprio tra coloro che erano impegnati nell’assistenza agli emigrati italiani! La famiglia, la tradizione cristiana italiana, l’abbandono del territorio e dell’agricoltura … forse che coincidevano con le radici cristiane? O si trattava di rifondare in Germania un baluardo sicuro socio-politico contro l’espansionismo sovietico? E ciò era frutto del credo religioso o dell’opportunismo internazionale dettato dai rapporti di forza nello scacchiere? Lo stesso Ugo La Malfa giudicò quel piano improvvido, quando, nella sua famosa Nota Aggiuntiva affermava: «rimaneva procrastinata e spesso elusa la soluzione dei problemi di quelle zone, di quei settori e quei gruppi sociali che risultavano ai margini del mercato».2

La degenerazione della politica si camuffa di ragioni sociali ed etiche che sono accomodamenti, nella prassi, dell’utilità e del predominio. Platone (Repubblica, 562b) aveva individuato all’interno della democrazia le radici della subalternità e quindi della tirannide. Noi riteniamo che i movimenti e il volontariato siano delle buone iniziative per il controllo dal basso contro la degenerazione. Non basta la critica e l’accusa che il web facilita ed amplifica: esso getta le basi del populismo e della gratuità contro il diritto e la pace sociale. È una forma indiretta di mettere il cappello su qualche cosa e la tentazione è quella di assumere in un progetto di medio termine queste forme per assicurarsi nuova egemonia. Dice un politico attuale: anche Gesù Cristo fu condannato per assenso democratico. I persuasori occulti ci sono sempre, importante è individuarli ed arginarli per il bene comune vero ed assoluto. Se c’è chi produce la degenerazione ci sia chi la individua, la smaschera per restituire alla cosa pubblica la fattezza del bello e dell’armonia. Come l’amicizia e l’amore vanno coltivati e curati, così anche la democrazia va alimentata dalla percezione che libertà è rispetto dell’altrui libertà e che la giustizia ne sia l’anima come lo è, a dire di Tommaso d’Aquino, della felicità irrealizzabile senza la giustizia (Summa Teologica, I-II, 59,5).
La degenerazione è dietro l’angolo perché la politica è una gestione in evoluzione o in involuzione. Se la democrazia non può essere imposta ed esportata, la politica coerente richiederebbe che i governi si dissocino da imprese neocolonialiste. Ma sostanzialmente i diamanti, l’oro, il carbone, il rame, il petrolio, l’uranio sono le variabili assolute delle politiche e degli affari internazionali: come si situano le chiese? La storia religiosa di esse è ricca di indicazioni contraddittorie eppure influenti sulla realtà della prassi.
Nel momento stesso in cui sei presente sul mio territorio non per turismo ed amicizia ma per esigenze di scacchiere, per controbilanciare influenze conflittuali, allora c’è una perenne Yalta e, dietro l’angolo, un possibile «pizzino» tracciato a matita che ogni novello Churchill propone, tra le portate dei pranzi di lavoro, al commensale antagonista Stalin per la nuova spartizione delle regioni di influenza e di inconfessato vicendevole controllo (è storicamente documentato che così avvenne durante un pranzo a Yalta).

L’alleanza diventa così restringimento di sovranità, coinvolgimento contro qualcuno. La democrazia interna viene subordinata al cosiddetto rispetto delle alleanze: nel nome e per conto della partecipazione alla Nato i partiti nelle nazioni occidentali non hanno forse subordinato i loro programmi al sì/no non dico degli alleati ma soprattutto degli Usa, come maggiori esponenti del «treaty» e non è per contrasto a ciò che nacque il «Patto di Varsavia»?
Dopo epoche di grandi scontri, nonostante i cittadini abbiano un grande senso della riconquistata pace interna, restano sotto traccia i semi di future conflittualità. Parole in libertà spesso alimentano opposizioni ispirate non dalla visione del senso diverso della democrazia, ma dell’«odio» di parte. Nonostante la grande tragedia di metà novecento gruppi, bandiere, simboli, sedi, scontri, vendette mutuano da simboli e fantasmi del passato nuove vigorie di affermazione politica.
Il segreto ovatta simili giacenze, camuffa nelle tifoserie degli stadi la convergenza violenta di attaccabrighe o piani segreti sovversivi auspicando colpi di potere, come la P2, Gladio e simili. Sappiamo, comprendiamo ma, all’occorrenza, sminuiamo il peso sociale di certe dichiarazioni: appello ai fucili pronti, rivoluzione violenta, compera di parlamentari; la non-cultura si fa proposta politica e intanto l’aggressione verbale mistificata fa proseliti tra gli scontenti; i qualunquisti e i nuovi Masaniello vorrebbero fare di ogni grido di popolo un Alberto da Giussano. Solo che questa volta il Barbarossa di turno è il vicino. Si entra nella terrificante contraddizione di dichiarare Roma ladrona ma ci si siede al suo desco opulento per pompare di potere il reinvestimento contro le altrui posizioni! Giornali teorizzano lo scontro e il progetto ed hanno accesso alle tribune e l’onore della citazione nelle testate: democrazia vuole che non si censuri! tranne a riservare censura verso e contro coloro che, senza potere, non suonano musica alle orecchie del tribuno di turno.

La magistratura che interviene e sanziona per legge? ecco: magistratura di parte, politicizzata, condannata alla gogna, perché quello che tu vuoi e dici in libertà e senza rispetto diventa automaticamente libertà di espressione politica nell’esercizio del proprio ruolo parlamentare!
Siamo in Italia in un momento di transizione? Storicamente sono stati i critici e gli analisti di sociologia e politica ad assegnare un ordine numerale alle repubbliche (prima, seconda, terza… repubblica): in Italia il primo capopopolo assegna date ed avvenimenti per consegnare ai proseliti il passaggio numerico; forse in Italia c’è ancora la prima repubblica, la seconda non c’è mai stata e quello che succede è la degenerazione della prima se i cambiamenti sono stati collaterali non all’evoluzione della politica ma al malaffare che, da Mani pulite in poi, non ha conosciuto sosta, anzi, si scopre che è diffuso in ogni settore della gestione amministrativa dello Stato (parlamento, regioni, province, comuni, circoscrizioni e, poi, enti pubblici e privati, banche, consorzi e cooperative, partiti ed associazioni affiliate, ecc.).
In Italia la degenerazione è difficile da stimare in estensione temporale e in consistenza. L’impegno del cittadino è quello di riprendersi il mandato e la deliberazione, la preferenza e la pienezza del voto che una banda di pochi, in una baita montana d’Alpe, ha sottratto «democraticamente» al popolo tutto e che un parlamento non riesce ancora a modificare secondo un sentire visibile, compatto e democraticamente certo.

Ma siamo in un tempo dalle velocissime involuzioni, mentre la povertà e la disoccupazione diventano terreno di foraggio per predicatori satanici!
Riprendiamoci Atene, ma quella della partecipazione e non quella degli ostracismi, quella di Pericle che diceva, nel suo discorso (461 a. C.):
Utilizziamo infatti un ordinamento politico che non imita le leggi dei popoli confinanti, dal momento che, anzi, siamo noi ad essere d’esempio per qualcuno, più che imitare gli altri. E di nome, per il fatto che non si governa nell’interesse di pochi ma di molti, è chiamato democrazia; per quanto riguarda le leggi per dirimere le controversie private, è presente per tutti lo stesso trattamento; per quanto poi riguarda la dignità, ciascuno viene preferito per le cariche pubbliche a seconda del campo in cui sia stimato, non tanto per appartenenza ad un ceto sociale, quanto per valore; e per quanto riguarda poi la povertà, se qualcuno può apportare un beneficio alla città, non viene impedito dall’oscurità della sua condizione.

(riferito da: Tucidite, La guerra del Peloponneso, II, n. 37)

Siamo stupiti delle valutazioni di Pericle, tuttavia dobbiamo riconoscere che ad Atene non c’era una forma veramente democratica del potere, anche se oggi additiamo in quella città l’origine dell’esercizio saggio del governo.

 

1Il Dipartimento di Stato americano nel 1975 rende noto il piano prima segreto di accordi tra Usa e Italia. Gaetano Volpe, fondatore della Filef (Fed. Italiana Lavoratori Emigrati e Famiglie) ne dà notizia durante la Conferenza Nazionale dell’Emigrazione a Roma (24 febbraio – 1° marzo 1975).

2Ministero del Bilancio, Problemi e prospettive dello sviluppo dell’economia italiana. Nota presentata al Parlamento il 22 maggio 1962, Premessa, 2. È passata con il nome di Nota Aggiuntiva.

L’essenza della politica

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Quali sono le componenti della democrazia perché non degeneri? Solo quelle che sono essenziali perché essa sia reale e che siano concorrenti affinché risulti compiuta. Le fondamentali sono almeno quattro.

Visibilità e trasparenza. Niente riserve mentali né progetti sottesi. Ciò che è democratico deve essere socialmente visibile e sarà tale se sarà trasparente. La visibilità di cui parliamo non si riferisce all’apparenza ed alla superficie della prassi ma a tutto il suo spessore e a tutto il suo processo. Per questo il Piano di Rinascita della P2 fu un progetto antidemocratico: non solo perché ispirato da principi autoritari e discriminatori ma anche perché era occulto, nelle sue finalità, nei suoi adepti e, soprattutto, perché concepito come progetto «contro». Da qui la condanna sia del Piano sia dei suoi affiliati.
Medietà. Se le ragioni dell’appartenenza variano tra i soggetti, la comunanza che le concerta si realizza attraverso la pratica della mediazione. Le differenze sono il sale della democrazia e la loro cristallizzazione la mortifica impedendo il suo compimento. L’interscambio e la complementarietà fondano l’assetto democratico di un popolo e ne assicurano i caratteri di nazione. In democrazia il medium non consiste nella rinunzia reciproca tra le parti a dei diritti riconosciuti, ma nella tensione «oltre» i rispettivi interessi: un appuntamento con le novità verso modelli che trascendono la caducità e realizzano gli ideali della convivenza pacificata.

Pacificazione. Gli andamenti sociali si articolano attraverso l’intreccio tra regressione ed avanzamento che non sempre sono omogenei. Ora si producono benefici e, al tempo stesso, degrado; ora si registrano incrementi e contemporaneamente deficit. Spesso la dialettica si trasforma in conflitto tra i singoli, tra le classi, tra i popoli con l’effetto che essa ci riconsegna un vincente e tutti gli altri soccombenti. La pacificazione è azione dinamica permanente, da assicurare e difendere contro gli sbarramenti e le stratificazioni degli assetti sociali standard ossidati. Solo così una contestazione sui diritti, attraverso le lotte sindacali, può essere vantata come partecipazione democratica.

Tensione utopica. La politica è sicuramente il «governo della realtà» ma a condizione che giustizia e libertà ne siano coefficienti fondamentali. È evidente che l’una e l’altra siano costruzioni dinamiche. Il tendere ad esse ci fa stimare i livelli raggiunti come obiettivi insufficienti e la proiezione dell’agire verso l’utopia come modello perfettibile, dai traguardi desiderabili, proprio perché raggiungibili.

In America Latina la Teologia della liberazione ispirò la tensione alla speranza della città dell’uomo verso beni più distribuiti, con i poveri affrancati, le ingiustizie arginate, il dispotismo rifiutato. La comunità ecclesiale non avrebbe dovuto sottrarsi alla lotta per la trasformazione del potere: l’azione ecclesiale avrebbe così realizzato l’annuncio e l’evento «pasquale». Non si era mai registrato nella storia delle comunità, escluso quelle proto-cristiane delle domus, che esperienze di base dichiarassero politicamente corretta la tensione al «non-ancora» e indicassero l’utopia come realizzazione possibile della convivenza democratica, anima del cambiamento del potere chiamato a conversione. Nella realtà latino-americana della Teologia della liberazione si era tentata un’ubbidienza all’evangelo secondo la discriminante della «scelta dei poveri» ma il restante della Chiesa locale bussava alle porte dell’istituzione centrale perché il papato intervenisse rifiutando quella prassi religiosa.
L’aver giudicato mons. Romero allineato con la Teologia della liberazione ha procurato il blocco dell’iter processuale della sua beatificazione. L’interpretazione dell’ortodossia aveva preso il sopravvento ma, nel caso, il potere religioso non si affrancava dalla sua dipendenza da quello civile; interpretava il messaggio evangelico «illibato» ma lo lasciava colluso con Cesare. Oggi la svolta di Papa Francesco: l’ultima e decisiva forma di interpretazione favorevole, questa volta, al riconoscimento del martirio eroico del vescovo.
Nel caso di Tommaso Campanella, l’istituzione ufficiale intervenne per sancire il blocco di quel pensiero utopico.

Ma l’utopia è più il frutto del non-luogo e della speranza che della gerarchizzazione istituzionale; ciò non toglie che essa si radichi nella stessa città dell’uomo per dare a questa la traiettoria alternativa della giustizia e ai cittadini la possibilità del riscatto dalle ingiustizie. La chiesa che non ha la pretesa del monopolio religioso in un territorio riconosce che i cristiani utopici sono parrocchiani in senso greco: paroikòi cioè stranieri, senza presunzione di proprietà territoriale.
La relatività nel processo ecclesiologico, secondo noi, risulta proprio dal fatto che non è il dogma ad essere in discussione (e quindi non si tratta di eresie) ma di lettura della prassi, eseguita secondo un’interpretazione; ma questa è tutta figlia del linguaggio, del giudizio storico sugli avvenimenti e sulle strutture politiche: non è in discussione il tempio ma le bancarelle, non l’adorazione ma l’economia dei cocci. Gli integralisti, anche cattolici, trasferiscono sul dogma, di cui si sentono osservanti depositari, l’interpretazione del dato socio-politico. Quasi gli attribuiscono la fisionomia dell’assolutezza, mentre i lottatori del diritto diffuso e riconosciuto gli attribuiscono la relatività, sia come progetto sia come costruzione sociale. Lo spostamento dell’assicella di livello tra prassi e trascendenza è relativo; non nel senso che possa esserci baratto tra materialità e spiritualità, tra sociologia e vangelo ma che la prassi è evangelica se si ispira al messaggio di Gesù. Il messaggio resta tale anche se la prassi è mutevole? L’integralismo e il fondamentalismo sono riduzionisti: o così o sei fuori!

Nella circostanza sud-americana si riproponeva la dialettica tra Francesco d’Assisi con la sua madonna povertà e il papato fregiato di potere e di splendore regali, tra profezia e istituzione ufficiale. In tutta la storia del profetismo (non solo ebraico) il profeta non è stato quasi mai esponente gerarchico dell’istituzione; Gesù di Nazareth fu il «figlio dell’uomo» e non un membro del sinedrio o un rabbino ufficiale.
Se Papa Pacelli condannò il movimento e gli esponenti dell’esperienza francese dei Preti-operai (anni 50) Giovanni XXIII li riabilita e promuove come consultori del Concilio i due teologi domenicani Congar e Chenu, che erano stati i teorici di quell’esperienza. Era in giuoco il dogma o l’interpretazione?1
La querelle successiva tra Vaticano e Giovanni Franzoni (l’ex abate benedettino), tra alcuni vescovi italiani ed Ernesto Balducci, tra don Mazzi dell’Isolotto di Firenze e il Vaticano è sull’ortodossia o sull’interpretazione? Siamo propensi a credere che si tratti proprio di quest’ultima, ma se colui che interpreta ha il potere l’altro perde peso specifico: solo col tempo la verità si decanterà e riconsegnerà alla profezia la sua valenza!
L’interpretazione nell’istituzione giuoca questo ruolo: essa assegna la soglia differenziale, l’indice che demarca la variazione tra progresso e regresso, rispetto dell’ortodossia o scostamento da essa; ma se pretende di fissare l’univocità delle prassi possibili in nome del vangelo, allora essa giuoca a seconda delle convenienze per la salvaguardia del potere, in nome della famosa «prudenza».

 

1 La teologia dei «segni dei tempi» (Mt., 16.3) ebbe i due frati come teorici. Il trattato di base di Marie-Dominique Chenu (1895-1990), Le Saulchoir: Une ècole de la thèologie, Paris 1937. Di Yves Congar (1904-1995), l’opera significativa: Per una Teologia del Laicato, Brescia 1966 (tr. da: Jalons pour une Théologie du Laicat, Ed. du Cerf, Paris 1953). Il periodo di condanna per entrambi fu dal 1954 al 1956; poi esperti al Concilio Vaticano II nella fase preparatoria e per tutta la sua durata dal 1962 al 1965.

Alla radice del dissidio

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Molti casi della storia ci propongono variazioni in cui il contrasto tra il processo positivo e quello degenerativo è meno drastico tanto da sfuggire all’attenzione. Sono casi in cui la modifica del giudizio si è determinata in tempi lunghi; i modelli rifiutati, attraverso l’uso e i costumi trasformati, si sono imposti confermandosi come stati genuini.

Questo fenomeno si è verificato più volte nella storia della Chiesa cattolica, nei casi di passaggio dalla condanna alla riabilitazione di un pensiero o di un’esperienza. Nel lungo periodo il fenomeno è stato rivisitato e a suo favore ha giuocato un ruolo determinante la critica anche aspra sia interna sia esterna all’esperienza religiosa: vedi i casi di Giovanna d’Arco, Savonarola, Galileo, Giordano Bruno, Lutero, come dei preti-operai. Nonostante alcune condanne abbiano procurato scissioni con gravi conseguenze sociali, politiche e religiose, la rivalutazione ha capovolto il giudizio. In questo filone si è inserita la richiesta papale di perdono per le implicazioni della Chiesa nella triste «tratta dei neri».
Questi episodi ci dimostrano la stretta connessione tra politica e degenerazione. Alla luce dei cambiamenti gli atti di condanna sono da ascrivere più alle variabili della cultura e dell’interpretazione, alle convenienze, alla concezione del potere, al mantenimento della supremazia oppure all’ortodossia relativa al dogma? Si tratta di arte del governo, di per se stessa incline al relativo, al mutamento, alla degenerazione o alla modifica degli stessi principi religiosi?
Il cambiamento, che nella ricerca e nelle scienze è la variabile strutturale sia dell’evoluzione dei fenomeni sottoposti ad analisi sia del progresso della scienza, in politica è la legge di proporzione tra i bisogni emergenti e il futuro programmabile. Quando le religioni avocano a se stesse il giudizio di valore sul governo civile allora il problema diventa complesso, soprattutto perché è provocato dalla relatività della politica che può essere in contrasto con l’interpretazione assoluta dell’ortodossia.
Nella struttura istituzionalizzata di tipo politico-religioso la degenerazione si annida tra i gangli degli scambi e delle relazioni tra due situazioni forti: l’una del potere globale sulle relazioni e gli scambi, l’altra del criterio di giudizio sull’etica dei comportamenti. Quando queste due situazioni appartengono ad entità diverse queste mirano, generalmente, a dichiararsi indipendenti e sovrane rispetto alle due sfere di influenza ma nella prassi i cittadini risultano obbligati a portare in sintesi i due aspetti. Nel vivere civile hanno potere di indagine e di governo gli organismi di controllo e di bilanciamento: poteri politico e religioso intervengono nelle dinamiche con l’interpretazione ed è questa che giudica, suggerisce o impone atti, gesti, delibere che appartengono più al relativo che non all’ortodossia stabile. La Chiesa cattolica quando muta giudizio di solito non tocca il dogma ma gli elementi di interpretazione che hanno provocato il dissidio, soprattutto per i casi che non si riferiscono ad eresie esplicite o scissioni dogmatiche dichiarate.
Invece negli stati a struttura islamica integralista il fondamentalismo giunge ad imporre comportamenti rigorosamente dettati dall’interpretazione coranica che, a dire degli islamici moderati, non sempre è fedele al dettato autentico del testo sacro.
Machiavelli è stato l’interprete della conservazione del potere per il quale «la golpe e il lione» (forza ed astuzia) sono garanti fedeli irrinunciabili. Niente di più relativo della politica, come si può constatare storicamente attraverso le fasi illuministica, romantica, positivistica ed utilitaristica. Il potere è stato concepito come assunto assoluto dello Spirito o come frutto del contratto sociale o altro.
La soluzione contro la degenerazione in politica sembra risiedere nella democrazia. Eppure, le circostanze e le sue variabili ci convincono che questa, allo stato «puro», non esiste. Non solo. Se la democrazia ha valenza in campo sociologico, nelle chiese conta meno dell’interpretazione dell’ortodossia che non è mai lasciata alla valutazione dei singoli perché il governo della comunità è teocratico ed assoluto.
L’etimologia ci consegna il termine «democrazia» come ideale e massimo rispetto delle persone, delle loro opinioni e delle loro libertà. Ma nella prassi la democrazia non esiste allo stato puro ma come «aggettivo attribuito»: partito democratico, repubblica democratica, stato democratico, gestione democratica, costituzione democratica, magistratura democratica, istituto democratico, elezioni democratiche, scelta democratica, scuola democratica, coscienza democratica, partecipazione democratica, vita democratica, visione, piattaforma, educazione democratiche, ecc.
L’attribuzione aggettivale invece è più coerente quando si riferisce all’entità stessa della democrazia: democrazia cristiana, democrazia socialista, democrazia liberale, democrazia proletaria, ecc. Tuttavia nel momento stesso in cui la si qualifica aggettivandola le viene negata la valenza universale ed assoluta, senza la quale la democrazia si riduce ad un modello limitato dalle sue stesse sovrastrutture che mortificano la prassi. Presa come discriminante politica la democrazia non è democrazia! distinguendoti, già diventi alternativo e quindi emargini: è il problema delle minoranze e del voto a maggioranza, sancito a garanzia della democrazia! Un governo non è democratico solo perché si autodefinisce tale, ma quando governa nell’interesse del popolo tutto. E questo avviene solo se i governanti realizzano la giustizia generale e particolare, la libertà sociale ed individuale, la pace concreta ed universale, la valorizzazione «alla pari» delle minoranze; solo in questo caso l’assunto secondo cui in democrazia vale la maggioranza ci salva dalla dittatura e dal fascismo che emarginano le minoranze rendendole subalterne o cancellandole in modo violento.
Non abbiamo forse registrato, nel secolo scorso, che l’instaurazione del nazifascismo si è realizzata per via democratica?

L’esogramma

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Quasi un manifesto pedagogico della scuola, in sei punti come poli nevralgici della formazione, binario su cui ripensare la struttura, perché questa sia di servizio e di promozione secondo leggi di riferimento e nel rispetto del diritto fondato.

 

I. Il flusso apprenditivo deve proporzionarsi alla disposizione organica. La ricerca sulla funzionalità organica si era concentrata e sviluppata per la cura e il superamento delle patologie. Oggi, invece, facciamo tesoro delle conoscenze per alimentare i processi comuni dell’apprendere con l’impiego delle stesse energie naturali e contaminando la varietà e complessità dei linguaggi capaci di alimentare una stragrande quantità di cellule cerebrali. La conoscenza del nostro potenziale mentale dispone la didattica all’interazione tra le zone della corteccia con risultati maggiori, migliori e dalla memorizzazione a lungo termine. Ad esempio, quanto è utile per l’autismo o per la dislessia è conveniente che sia applicato alla «normale» dotazione della funzionalità apprenditiva. La sinergia e la contaminazione tra i linguaggi significa sinergia e potenziale maggiorato tra i neuroni; così la didattica riceverà insperati aiuti proprio dalla menti dei soggetti stessi. Arricchire di strumenti tecnologici ad alto potenziale visivo, sonoro e dinamico deve essere obiettivo dell’impiego di fondi indispensabili.

II. La dinamica cerebrale detta i ritmi apprenditivi. Questo elemento determina l’oggettività nel processo dell’apprendere. La cosiddetta «urgenza dei programmi scolastici e della loro scadenza» non può fissare in modo tassativo i comportamenti scolastici. I percorsi non possono essere scanditi in modo estrinseco alle reali disposizioni del gruppo-classe. La centralità dell’alunno ha come ricaduta non l’universalizzazione degli step ma la loro collocazione in nome di un’ortoprassi declinata secondo bisogni e disposizioni reali. Il criterio ispiratore sarà dunque quello non della puntualità ma della positività, del benessere e del successo derivante. Il resto è conseguenza e corollario.

III. La valutazione si applica a percorsi oggettivi e non a standard estrinseci. È aperto il dibattito nella scuola italiana sul modello valutativo Invalsi. Le posizioni al riguardo sono due: a)- quanti ritengono che il sistema sia scientifico e strategicamente indispensabile per l’individuazione delle «buone scuole». Oggettività e strategie sarebbe prodotte dalla sua applicazione su tutto il territorio nazionale e per la sua somministrazione contemporanea ai vari segmenti scolastici. Gli indici di valore fornirebbero allo stato la possibilità di individuare anche il merito in base a cui somministrare badget premianti. b)- i suoi critici oppongono a questo criterio un giudizio di assoluta ragionevolezza. Come si può, infatti, somministrare un modello standard a processi differenziati? Non soltanto perché differenti possono essere i potenziali distribuiti su scala nazionale, ma perché la diversità può registrarsi tra corpi diversi insistenti sullo stesso territorio. Se in autonomia i percorsi possono subire variazioni allora risulta fuorviante obbligare alla somministrazione di un unico tipo di strumento valutativo. Anche la diversità delle culture, dell’impiego della lingua, delle tradizioni ambientali variegate sono contenitori necessariamente differenti tra regioni, città e centri abitati a differente dislocazione altimetrica (pianura, montagna, città, villaggi, ecc.); un esempio per tutti: se mi obblighi ad una classe costituita da 20 alunni tra i quali 3 sono diversamente abili senza/o con parziale sostegno, come puoi obbligare ad una valutazione standard uguale a quella somministrata ad una classe numericamente uguale ma costituita da alunni di normali capacità, positivamente predisposti, motivati, sollecitati da un ambiente ricco di stimoli? Inoltre, da anni si è ormai accolto il principio scientifico che la valutazione è un atto proprio e dinamico relativo al reale percorso fatto, spalmato su tutto il processo e non fissato solo al momento terminale di un’unità o di un modulo. Come ritenere scientifico, dunque, il risultato di una somministrazione universale?

IV. Le conoscenze, a scuola, mirano alla crescita culturale integrale della persona. Pertanto è riduttivo finalizzarle allo sbocco lavorativo, come un espediente dell’apprendistato. Il rapporto tra la scuola e l’applicazione nei settori non può diventare, con la prospettiva occupazionale, il miraggio: la formazione culturale, varia e completa, ha come finalità la crescita globale, l’acquisizione del senso critico, l’affinamento delle destinazioni creative dell’ingegno. In un periodo di crisi generale dell’occupazione giovanile attenzione a non barattare promesse sicurezze con il consenso!

V. Senza benessere mentale non c’è l’apprendere. La mente libera dalle paure, dalle suggestioni, dall’insicurezza è veramente disponibile alla scoperta, alla ricerca, alla conoscenza e alla costruzione del bagaglio mnemonico. L’equilibrio personale è un elemento indispensabile della maturazione della persona: se la scuola non è il luogo ed il tempo della terapia è anche vero che essa esercita un’azione di per sé curativa, perché nutre il pensiero positivo, allena la capacità dialettica, dispone alla partecipazione e alla responsabilizzazione, induce alla motivazione e quindi al successo.

VI. Il percorso formativo nella scuola raggiunge la pienezza della sua realizzazione se risponde ai criteri di «progetto oggettivo». Impostato nel rispetto dell’equilibrio mentale e del benessere, secondo le disposizioni possibili individuali e nel rispetto dei ritmi soggettivi possibili con l’impiego dei linguaggi multipli, esso colloca le persone in una situazione di reciprocità apprenditiva, corroborata dalla asimmetricità tra facilitatori dell’apprendere e soggetti affidati.

Tutti questi coefficienti, declinati nel tempo abbastanza lungo trascorso dai piccoli/giovani a scuola, offriranno risultati positivi se gli operatori rispetteranno il valore-indice, quello della continuità. La visione unitaria dell’essere permette alla scuola di procedere senza sbalzi e senza procurare traumi, nella consapevole fiducia che gli utenti possono prestare ai formatori.
Questa realizzazione del cammino tra le conoscenze attua nel docente la disposizione mentale a condurre per mano gli alunni che risulteranno ben disposti ad assecondare l’impresa, seppure faticosa, gioiosamente soddisfacente.
Gli insegnanti, facilitatori e formatori, sono la personificazione dello Stato e l’occasione della realizzazione dei primi articoli della nostra Costituzione: libertà, partecipazione, dignità, uguaglianza, democrazia, pace.

Assoluto e relativo

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Prima di indicare l’articolazione di un esogramma, come manifesto dell’impianto oggettivo della formazione nella scuola, approfondiamo il principio teorico enunciato riflettendo sulla distinzione «assoluto-relativo» in educazione.

Discutiamo della conseguenza della ricerca di eticità nelle dinamiche della prassi in cui i soggetti della scuola sono coinvolti: individuazione ed analisi dei coefficienti che presiedono l’agire eticamente equilibrato e non solo pragmaticamente favorevole.
La distinzione tra i due termini apre scenari suggestivi su ciò che è favorevole e al tempo stesso può essere equilibrato; così i termini potranno risultare non contraddittori ma complementari.
Tutto sta nello scoprire il senso di «favore»: cioè «a favore di chi … a favore di che cosa?». L’equilibrio non è dato da scelte «mediane» (in medio stat virtus!); poiché la medietà non è detto che risulti come scelta tra due posizioni equidistanti ed opposte. A prova, ci sono casi in cui la scelta estrema è da ritenere virtuosa eppure non di equilibrio tra due estremi opposti, nel cui caso il rimanere equidistanti significherebbe codardia e viltà (vedi il caso della mancata difesa del debole soccombente).
Il «relativo» dispone a confrontare, soppesare, scegliere, attuare e sopportare le conseguenze delle scelte derivanti. La sua portata meglio si coglie, in ambito educativo, se si accolgono alcuni presupposti:

a. rendere sistemica l’evoluzione. L’evoluzione, di per sé, è trasformazione e cambiamento. Dare accoglimento a questo aspetto nella dinamica scolastica produce la convinzione che le azioni didattiche intraprese non sono declinabili secondo obiettivi standard livellati in modo uniforme a prescindere dalla storia particolareggiata dei soggetti interessati.

b. la modifica relativa conferma l’assoluto. Elemento consustanziale all’evoluzione è la modifica. Essa indica il movimento impresso non secondo la successione di posizioni nel tempo e nello spazio ma secondo la dinamica dello stato mentale nel quale si verificano acquisizioni, varietà di sensazioni, produzione di sentimenti accomunati dalle emozioni. La modifica del sentire si trasferisce all’essere che palesa il cambiamento e la variazione dello stato soggettivo per il quale il modificare è proprio dell’essere.

c. la scuola buona è quella che riconduce il valore assoluto non alla struttura ma al relativo oggettivo. La bontà si apprezza per l’attenzione assoluta all’aspetto evolutivo dei soggetti perché la scuola è degli utenti-fulcro e per ciò stesso è pubblica, necessariamente laica sia che la struttura appartenga alla proprietà dello stato o a quella di un ente privato. È la funzione che rende «civile» il servizio che appartiene ai soggetti e non i soggetti alla struttura. Con uno slogan: la scuola non può dire «i miei alunni», sono questi invece che possono dire «la nostra scuola». La differenza tra privato e pubblico è quindi strumentale, perché la stessa funzione educativa e formativa, appartenendo agli utenti, si qualifica quale atto pubblico. L’essere paritaria la scuola va ben oltre la struttura e la sua appartenenza, confessionale che sia: tutte le scuole sono paritarie, anche se non tutte sono statali, perché statale è la funzione del servizio civile per la promozione dei soggetti affidati.

 

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L’oggettività formativa

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La proposta della «buona scuola», pubblicizzata in questi ultimi giorni, ci sembra insufficiente e fuorviante perché enfatizza la struttura e mortifica di conseguenza la formazione e perché i suoi derivati imprigionano le dinamiche educative e formative, riportando il sistema al centralismo di potere e così restituendo all’autonomia più l’autoritarismo a servizio della gestione e meno l’autorevolezza del progetto e l’oggettività della sua fondazione, con conseguente settorialità e parcellizzazione dei lavoratori in none dell’efficienza autarchica: caratteri questi che sviliscono l’oggettività e i diritti costituzionali.

Nel mondo complesso della scuola la domanda di senso, appello-base dei piccoli e giovani cittadini, troverà collocazione se i risultati e le indicazioni delle scienze della formazione e della ricerca scientifica sull’apprendere disegneranno i processi formativi e riconosceranno ai formatori-insegnanti il ruolo scientifico, tecnico ed etico che nutre la mediazione tra le persone e i saperi.
Il principio teorico su cui può basarsi il progetto-scuola deve necessariamente sfuggire alla gabbia strutturale che di per sé resiste ed è rigida contro il mutare delle esigenze sociali e dei bisogni formativi fino al punto da costituirsi come impedimento alla soddisfazione delle necessità formative che ci obbligano invece a riconoscere flessibilità per la promozione delle persone le cui esigenze vitali sono meglio accolte dagli operatori della conoscenza e meno dalla meccanicità della struttura istituzionalizzata.

Il problema

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La Scuola, in Italia, attraverso le riforme necessarie dettate dall’evoluzione scientifica deve collocarsi nella prospettiva di questo principio. Il problema sorge quando la fisionomia governativa assume connotazioni particolari proprie delle maggioranze parlamentari che la esprimono. Già la salvaguardia del principio enunciato è un assunto politico; ma sono le politiche contingenti proprie delle maggioranze che, allineate sul proprio programma, spesso designano percorsi o alimentano strutturazioni che rispondono non al principio costituzionale ma al disegno partitico di riferimento. E così il diritto affermato si declina secondo particolarità dettate dall’utilità e dalla ricerca del consenso.

Dobbiamo riconoscere che la fisionomia del sistema scolastico italiano si è trasformata da modello gentileniano in modello democratico attraverso l’azione dei partiti e delle parti sociali, con incidenza forte della sinistra a favore del modello di massa contro il conservatorismo e il rimpianto romantico della scuola elitaria.
Il passo dalla struttura ai contenuti disciplinari è corto; la sclerosi strutturale ha provocato vuoti legislativi e degenerazioni per cui spesso, nella storia del sistema italiano, il sindacato attraverso i contratti nazionali ha supplito alle mancanze legislative e dopo i governi hanno disconosciuto le rivendicazioni degli operatori della conoscenza provocando il conflitto e le contrapposizioni. Ne è uscita sacrificata l’oggettività della scienza formativa, depauperata dalla morsa risoluta del sistema.
Le politiche, quindi, dovranno cedere il passo alla politica ampia della formazione, fondata non sulla fisionomia dei partiti ma sulle scienze della formazione, dell’educazione e della didattica con cui si può uscire dalle ambiguità e rientrare nel diritto delle persone da formare.

La gestione del recupero delle risorse

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La trasformazione delle biomasse in fonti di energia è un processo complesso anche per la necessità di gestire la formazione di eventuali prodotti secondari tossici e nocivi. Le conoscenze e le tecnologie, già oggi disponibili per questi prodotti di origine naturale, rendono però sicure ed affidabili molte di questa trasformazione. Possiamo, così, non sprecare le risorse che sono ancora contenute nelle biomasse che, in gran parte, ancora oggi, non vengono recuperate. Queste trasformazioni sono vantaggiose, ma non sono la soluzione universale e definitiva del problema «rifiuti». Infatti, non solo non è sempre possibile estendere questa pratica di recupero a ogni tipo di residuo di lavorazione, ma è necessario, poi, anche continuare a ricercare nuovi processi specifici, efficaci, sostenibili e flessibili per rispondere ai cambiamenti, sempre in atto, nella realtà fisica degli ambienti non solo di quelli ricostruiti dall’uomo, ma anche di quelli naturali.

Una lettura deterministica delle cose di questo mondo, implica una riduzione della complessità dei fenomeni. È, questa, una lettura che, pur se non accede a verità e soluzioni assolute, può offrire, nei limiti di una sua applicazione (come già avviene nella ricerca scientifica sperimentale), soluzioni efficaci per la migliore gestione possibile dei problemi ad essa connessi. Vi sono, infatti, situazioni che non possiamo non prendere in carico, pur nella loro incompiutezza, perché, se lasciate a se stesse, invaderebbero prepotentemente i nostri luoghi, fisici e mentali, e paralizzerebbero ogni nostra attività. Le letture deterministiche non contengono e non possono offrire soluzioni assolute e tantomeno possono diventare elementi fondanti di teorie capaci di prevedere o decidere l’andamento articolato di fenomeni complessi (come sono gli equilibri naturali). Sono, però, finestre che permettono di formulare ipotesi per iniziare un dialogo che può aiutarci, pur con approssimazioni, a valutare dati di fatto essenziali per porre rimedio, in quei momenti nei quali è urgente dare risposte anche se non sono disponibili, contemporaneamente, esperienze pregresse, da mettere in cantiere, che possano offrire immediate e provate soluzioni.
Una lettura deterministica è, quindi, solo un primo approccio a una realtà che deve essere, poi, arricchita di riflessioni, confronti, condivisioni di valutazioni, rielaborazioni, prove e di cambiamenti che vengono sviluppati e insieme, fanno progredire le nostre capacità di autonomia, le relazioni, le consapevolezze e quel senso di responsabilità e discernimento, essenziale per dare buone qualità alle nostre scelte e decisioni. Senza velleitarismi e rivendicazioni sul meglio che si può sempre fare, potremmo, allora, cominciare, già, con l’eliminare dai cicli produttivi, tutti i materiali che, a valle della loro produzione e della loro vita merceologica, non sono riciclabili (almeno sospendendo quei consumi superflui, se non proprio distruttivi, che incidono pesantemente sugli equilibri naturali, fino a diventare insostenibili per le nostre condizioni di vita).
Dovremmo, ancora, seguendo un percorso consapevole (di condivisione delle diversità), partire dai bisogni, dalla gestione delle emergenze (quelle dovute a calamità naturali, ma con tutta l’attenzione a non confondere, con queste, quelle inventate, per l’occasione, per qualche lucroso business). Dovremmo, poi, definire e facilitare la produzione di beni e servizi riciclabili (aggiornando percorsi e strategie di massimo recupero dei materiali usati).
Dovremmo, infine, prendere anche atto che i consumi superflui, sono una complicata e deviante anomalia, nel divenire delle cose, perché non rispondono, come avviene nella complessità dei fenomeni naturali, a finalità di tenuta di equilibri vitali. I consumi superflui, infatti, agiscono come colpi di ariete che deformano relazioni e condivisioni naturali, fino ad aprire devastanti brecce di spreco di risorse a favore di vantaggi esclusivi, individuali o di gruppo, finalizzati a favorire chi li sostiene e a danno di tutti gli altri: una pratica, quindi, che nega quelle diversità spontanee, essenziali anche per garantire condizioni di equilibrio sociale.
In questo tipo di impegni abbiamo molto (della nostra creatività, delle nostre capacità operative e sinergiche) da spendere per superare ostacoli e insidie e conseguire risultati efficaci di migliore qualità del sistema vitale che ci accoglie. L’uso delle risorse senza limiti non è solo un inutile spreco, ma è anche un’ingiustificabile violenza contro quegli stessi equilibri che danno continuità ai nostri fenomeni vitali. C’è da chiedersi cosa mai possa immaginare di realizzare chi impone quelle distruttive gare, senza senso, che sanno solo produrre vittorie individuali e sconfitte globali (in natura il successo di un elemento di una specie non comporta la sconfitta di tutti gli altri elementi della stessa specie e neanche il successo di una specie comporta la sconfitta di tutte le altre specie). Senza il contributo costante di tutti, ogni successo non potrebbe avvenire mai e, comunque, non avrebbe un futuro: pur se qualcuno è vincente oggi, non lo potrà essere per sempre e soprattutto, se lo dovesse essere, impedirà, con la sua sterile e imbalsamata presenza di vincitore, l’espressione di tutte le altre opportunità che, nel divenire della realtà, sono risorse e opportunità vitali uniche.
Oggi, proprio sul possesso e sull’ostentazione del superfluo è stato costruito, invece, tutto un modello di economia globale del mercato libero dei consumi. Tutta una struttura socio-economica che propone mistificanti richiami rituali alla democrazia, ai diritti umani, alle pari opportunità, fino, addirittura, a rivendicare, con ipocriti appelli, la libertà per i popoli (in realtà, quelli ancora da inglobare nel mercato libero dei consumi e che offrono anche buone opportunità per fare profitti sul basso costo del lavoro e sulle risorse, del loro territorio, da sfruttare). Dunque, una struttura economico-finanziaria, di tipo neoliberista (che priva le comunità umane dell’accesso alle alternative di una propria evoluzione socio-culturale), nella quale lavoro, relazioni, tempo libero, sono bloccati dall’alienazione di un vivere preordinato e senza senso, che viene pagato, dai cittadini, con l’obbligo sacrificale della propria vita (per lasciarsi consumare come se fossero una merce a totale disposizione del sistema).
Una sottomissione, questa, che oggi rende lenta e faticosa ogni nostra volontà di affrancamento dai vincoli, senza senso, di una competizione che richiama impropri valori morali, per premiare economie vincenti, prive di riferimenti etici, ma campioni nella produzione o consumo di beni. Sono, queste, le stesse economie che, con prepotenze finanziarie, impongono, poi, un simmetrico insuccesso ad altri, preordinando, così, inventate colpe per un’economia perdente, e condannando moralmente, come fosse un peccato, questa sua condizione, proprio da loro artificiosamente procurata. Una condanna che facilmente, domani, potrà essere estesa, se funzionale ad interessi particolari, anche a chi si veste in modo irrituale, a chi non ha il fisico per vivere una vita di successo, o a chi appartiene ad una razza (oggi non più nazionale, ma globalmente trasversale) di esseri inferiori perché manifestamente incapaci di brigare per un profitto (questo, invece, legittimato dal poterlo fare, dall’averlo fatto e dal venerato principio del «pecunia non olet»).
Le consapevolezze critiche, le sinergie e le capacità di assumere e condividere le responsabilità delle scelte, pur se toccano solo a noi e non ad altri, sembrano non esercitabili in un mondo che, una volta per tutte le altre e unilateralmente, ci ha «sollevato» dal loro peso e dalla libertà di poter assumere decisioni autonome o condivise. Le nostre risorse personali, pur se in questa situazione vengono abbondantemente neutralizzate, continuano, però, ad essere a nostra disposizione e in particolar modo lo sono, in modo potenzialmente elevato, se potessimo solo scoprire il piacere e il benessere procurato da un cambiamento generato dalla condivisione della diversità costruita sui nostri patrimoni di esperienze, conoscenze e senso delle cose.
Una condizione che libera dalle oppressioni dell’attuale realtà interpretata dal pensiero unico imposto da un geometrico, perbenistico e umiliante senso comune delle cose (privo di relazioni e creatività da condividere), incapace di comprendere il senso umano del progresso. Un progresso che non può essere confuso con lo sviluppo delle tecnologie, dei loro mercati e dei poteri che ne vengono alimentati, ma che si esprime creando relazioni fra le aspirazioni umane più diverse e più profonde. Un progresso senza idealismi e ideologie, ma che apre la nostra mente alla comprensione e alla capacità di affrontare le difficoltà, al sapersi «incontrare»: un’arte, questa, che dà senso e piacere al vivere, con consapevolezza, la nostra condizione umana.

Riflessione sull’attuale stato delle cose

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I riferimenti fin qui richiamati riguardano fatti macroscopici già abbastanza noti o che sono, comunque, facilmente comprensibili. Dovremmo invece impegnarci di più se volessimo capire perché (pur vivendo con ansia e preoccupazione, il problema dei rifiuti) ci fermiamo mentalmente, oggi, a prendere solo passivamente atto delle drammatiche situazioni (per la salute e l’ambiente) che si vengono a creare nei nostri territori. Eppure i danni generati da queste fonti di inquinamento li paghiamo noi, sia in termini economici sia di salute e di benessere psicofisico. Tutti vorremmo poterci sentire ben accolti dai paesaggi e coinvolti per offrire un nostro contributo, in favore del progresso umano. Tutti, come comunità e in prima persona, sentiamo, nelle nostre aspirazioni più profonde, il desiderio di trovare i modi per collaborare alla tenuta degli equilibri vitali, in sintonia con i fenomeni naturali, fonti di energie vitali e di senso del nostro esistere.

Finiamo, invece, con l’impegnarci a cercare sempre nuove soluzioni tecnologiche, per risolvere i problemi creati da altre precedenti tecnologie, alimentando un vortice di sprechi e di dispersione di energie. Finiamo, così, col trascurare l’origine del degrado e l’urgenza di intervenire sul livello crescente dei consumi che lo produce. Lasciamo che tutto degradi nella direzione di un sempre più inarrestabile aumento di entropia, necessario per alimentare una folle e insensata crescita dei consumi che, come la caduta in un precipizio senza fondo, diventa un fenomeno irreversibile.
Forse dovremmo cominciare ad analizzare i problemi andando alla loro origine per riflettere e mettere alla prova alternative e continuare in un percorso di ricerca/verifica/intervento che ci liberi dalla sottomissione passiva all’attuale modello di mercato (tutto orientato verso la crescita dei consumi e dei profitti). C’è forse un’urgenza e non solo la necessità di attivare un dialogo, dinamico e operativo, sui nostri bisogni e sulle nostre aspirazioni più profonde: una prospettiva, questa, che non può essere surrogata da ricette uniche e rese immediatamente esecutive prima ancora che sia stata esercitata la nostra capacità di riflessione.
La riflessione è una qualità, propria della nostra natura umana, indispensabile per acquisire consapevolezze e autonomia necessarie per la nostra partecipazione, attiva e responsabile, con la mente e con le opere, al divenire vitale degli equilibri naturali. Dunque, riflettere per trovare quell’autonomia, originalità e diversità, nell’uso delle risorse, che sono proprie dell’uomo, dell’essere se stesso, ma non fuori dal mondo. Riflettere per entrare in sintonia con gli altri fenomeni naturali (dagli equilibri del mondo animale, a quelli del mondo vegetale, a quelli anche del mondo inorganico) e per disporre di quelle opportunità che le sinergie, fra i fenomeni naturali e le capacità di pensiero operativo della mente umana, possono procurare per dare qualità al progresso.
C’è un modo di guardare al futuro che è in linea con l’evoluzione creativa e vitale che orienta il mondo naturale e che suggerisce un progresso originale, autonomo, collaborativo e specifico per quella natura umana che qualifica la nostra esistenza. Riflettere per mettere a disposizione, cioè, la nostra partecipazione consapevole alla creazione delle opportunità vitali che animano la complessità, degli equilibri dinamici del divenire delle cose, e per rendere fertile il contributo delle comunità umane alla vitalità di tutto il sistema naturale.
Riflettere è anche il modo per cercare relazioni vitali con un altrove (di qualsiasi orientamento, anche se non siamo nella condizione di poter accertare o negare, i suoi riferimenti in modo esaustivo) che è affidato alla nostra autonomia e libertà di definire, praticare e assumere le responsabilità di personali scelte e visioni delle cose. Riflettere e tornare a riflettere, non una volta per sempre, ma in ogni momento della nostra vita, per definire segni significativi di umana pienezza e dare senso alle nostre intenzioni e opere (frutti sempre da verificare, rinnovare e modificare, con nostre continue ricerche, per rimanere connessi con il divenire delle cose del mondo). Riflettere per costruire e qualificare quel valore aggiunto, di progresso umano, che la nostra intelligenza può generare e che è nelle attese di futuro che cerchiamo di proiettare nei luoghi che ci accolgono, che mettono a disposizione della nostra intelligenza le loro risorse e che sono sempre aperti ad accettare una nostra solidale creatività.