Emigrazione e nuove motivazioni

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La flessibilità, imposta recentemente dalla competizione nell’ambito dei processi produttivi, ha favorito, già a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, una mobilità della forza lavoro che, pur se per impieghi e con meccanismi profondamente diversi, richiama la mobilità dei braccianti dei secoli passati. Con altre e più qualificate competenze, quote sempre più significative di addetti al lavoro intellettuale si spostano nel mondo per vendere le proprie abilità nel campo della ricerca, della tecnologia, della finanza. Il meccanismo non è più quello del lavoro stagionale, ma quello delle convenienze che creano e distruggono lavoro inseguendo, con un cammino senza ritorno nei luoghi della propria origine, migliori opportunità di profitto che possono essere offerte, nei diversi territori, dalla disponibilità di risorse, dal basso costo del lavoro umano, da agevolazioni fiscali.

Oggi anche le migrazioni, dai paesi economicamente più sottosviluppati (rifugiati politici compresi), sono spinte dal desiderio di realizzarsi economicamente e da una ricerca di benessere e sicurezza sociale, più che da attese di risposte umanitarie a bisogni essenziali. I migranti, che arrivano nei paesi ad economia più avanzata, sono tenuti, infatti, in attenta considerazione dagli interessati a favorire la loro integrazione come masse di nuovi consumatori. Nelle economie che aderiscono al libero mercato dei consumi, accogliere nuovi cittadini da inserire nella catena produzione-consumo, è un sicuro vantaggio per l’ampliamento dei mercati e per i maggiori profitti che ne possono derivare, non certo però per una buona gestione delle risorse naturali.
Il bracciante delle passate epoche, non mirava ad un progresso umano, ma cercava solo il pane da mangiare. Oggi, invece, il lavoratore, che usa la propria intelligenza per procurarsi quello stesso pane, riceve anche il conforto della «libertà» di accesso a consumi senza limiti ed è, così, molto probabile che finisca nei meccanismi compulsivi del voler possedere ogni cosa (prima ancora o addirittura senza sentirne un bisogno). In questo scenario anche lui, alla fine, non sarà interessato a ricercare un progresso umano.
È dunque probabile che l’uomo si troverà, almeno nel prossimo immediato futuro, a dover fare sempre più cammino, ma per finalità e obiettivi diversi da quelli che possono offrire risposte in accordo con le sue aspirazioni più profonde.
Oggi, però, tutti siamo sicuramente nella condizione di poterci affrancare da comportamenti, solo istintivi, di adeguamento ai gratificanti ma distruttivi meccanismi di un consumo fine a se stesso. Diversamente dagli uomini del passato, possiamo, infatti, mettere a frutto le nostre conoscenze e capacità relazionali, per trasformare in progresso umano uno sviluppo economico che è, ancora, senz’anima se non è proprio anche usato per una nostra ingiustificabile condanna.
Nei processi naturali si manifestano sinergie vitali, essenziali per mettere in equilibrio la disponibilità di risorse ambientali, individuali e collettive, per ogni specie vivente. Anche l’uomo può manifestare queste qualità e sintonie vitali già presenti negli altri processi naturali. Dunque, una riflessione e una maggiore attenzione, a valutare il senso della nostra missione sulla Terra, e una cura, delle relazioni umane, finalizzata alla costruzione di sinergie, potrebbero essere elementi essenziali di progresso della qualità del nostro esistere.

 

Giovanna Da Molin, Professore Ordinario di Demografia Storica e Sociale, Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia, Comunicazione; Università degli Studi di Bari «Aldo Moro»

Due tendenze determinate dal matrimonio

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Proprio sulla scorta del diverso andamento percentuale dei matrimoni tra giovani provenienti da altri paesi e giovani nativi del luogo, si evidenziano comportamenti diversi fra le zone di forte immigrazione e quelle «chiuse» o di emigrazione. Nonostante l’ampia casistica di situazioni particolari e le molteplici diversità sia geografiche, sia economico-sociali che contraddistinguono le province pugliesi, paiono evidenziabili, anche se in maniera volutamente semplificata, due andamenti di fondo. Le diverse realtà sembrano riconducibili a due tendenze.

– La prima tendenza, ad elevata mobilità al matrimonio, accomuna la «città», le zone del latifondo a coltivazione estensiva, i porti, le zone paludose. È il tipico comportamento delle zone di immigrazione.
– La seconda tendenza, a bassa mobilità al matrimonio, accomuna le zone di collina e a coltura diversificata, le zone relativamente prospere o tali almeno da garantire un certo sostentamento, se non il benessere, agli abitanti dei centri isolati e tagliati fuori, per la loro posizione geografica, da importanti vie di comunicazione. È questo il comportamento delle zone chiuse all’immigrazione e che in alcuni casi si trasformano in bacini di emigrazione.
Di particolare interesse sono i casi ad alta mobilità al matrimonio. In questa tendenza, rientra senza dubbio la città o il grosso centro come polo di attrazione del circondario. Foggia come Taranto, benché la tipologia della città fosse diversa, così come l’economia e i rapporti di produzione (città interna e legata al sistema estensivo-pastorale la prima, marittima e commerciale la seconda), avevano in comune una forte mobilità, una grossa presenza di forestieri che celebravano le nozze in città.
La città sosteneva la propria densità di popolazione, manteneva in attivo il saldo nati-morti e registrava un ritmo di accrescimento grazie al flusso immigratorio dalla campagna.
Con tassi di mortalità notevoli (per le cattive condizioni igieniche) e un indice di affollamento elevato (che consentiva la rapida diffusione delle epidemie), l’eccedenza delle nascite, necessaria a controbilanciare il deficit delle città, doveva per forza di cose provenire dalle zone rurali e da territori più o meno lontani, in dipendenza dalle possibilità di lavoro che il grosso centro poteva offrire e in dipendenza dalle condizioni di vita delle zone di provenienza.
Nelle «zone del grano», è il caso di Foggia, ma anche di San Severo, Orsara, Castelvecchio, la mobilità era alta. Le forti aliquote di forestieri indicano certo la necessità di sopperire allo spopolamento della Capitanata, ma quello che risulta interessante sono i meccanismi con cui avveniva lo stanziamento di una parte di quei salariati stagionali che alimentavano la corrente immigratoria. Nella demografia di Capitanata aveva un peso sostanziale il desiderio dell’uomo forestiero di scegliersi la moglie nella zona in cui l’offerta di lavoro era più alta.
Proprio per evitare «un involontario ed impuro celibato. Questo barbaro costume che ha reso più rare le nozze», i giovani immigrati cercavano di trasformare l’immigrazione stagionale in definitiva. Quello che contava nel determinare lo scarto d’età al matrimonio non era tanto che si trattasse di migrazioni stagionali o definitive, ma che i forestieri maschi fossero giovani e potenzialmente alla ricerca di moglie. Lo squilibrio uomini-donne in Capitanata era massimo nel momento in cui gli uomini della nuova generazione dovevano pensare a sposarsi, ne risultava un accesso al matrimonio estremamente facile per le donne. Grosse erano le percentuali di matrimoni tra forestieri celibi e donne residenti nubili, ma una volta rotto l’equilibrio maschi-femmine nella popolazione residente, per la massiccia presenza maschile, una volta esaurita la compagine delle nubili in età matrimoniale, l’immigrato attingeva tra le vedove. E numerose erano le vedove foggiane che si risposavano con celibi stranieri e molto più giovani d’età.
In determinate circostanze l’attrazione rappresentata da una donna, non più giovane, magari vedova, ma proprietaria di terre, poteva superare anche le aspirazioni di tipo per così dire romantico, e che avesse già figli non era importante visto che potenzialmente costituivano forza-lavoro. Comunque il giovane immigrato poteva riflettere sul fatto che una donna di 30 o 40 anni gli avrebbe dato meno figli da mantenere di una diciottenne, il che era importante in una popolazione che come contraccezione al più usava il coitus interruptus e che tra i mezzi adottati per ridurre la natalità elencava l’aborto e l’infanticidio.
Nascere donna voleva dire, in alcune zone della Capitanata, avere con sicurezza il destino di sposarsi e risposarsi; nella pianificazione familiare dei giovani immigrati era troppo importante e ricercata la figura femminile. È comunque da sottolineare, come caratteristica portante della Capitanata, che nella struttura della popolazione ben pochi erano i celibi e le nubili; il celibato domestico era pressoché inesistente e la vita media degli uomini era bassa.
Perché gli equilibri demografici tra zone rurali e agglomerati urbani potessero mantenersi inalterati, si verificava un flusso migratorio dagli altipiani e dalle zone povere oltre che verso la città, anche verso le zone paludose. Nel periodo preindustriale, ma in Puglia fino a tempi molto recenti, esistevano zone rurali poco salubri, erano le zone paludose prive di un sistema di drenaggio e dove diffusissima era la malaria. Vaste zone della Capitanata, come Varano, Carpino, Ischitella e Zapponeta, ancora all’Unità, non erano bonificate.

– Emigrazione e nuove motivazioni

 

Giovanna Da Molin, Professore Ordinario di Demografia Storica e Sociale, Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia, Comunicazione; Università degli Studi di Bari «Aldo Moro»

La migrazione come conservazione

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Prima della dissoluzione della struttura rurale e del nascere del capitalismo i caratteri della mobilità erano particolari. Si parla di forte mobilità ma ciò che differenzia l’emigrazione attuale da quella di «ancien régime» è il ritorno.

Le assenze degli uomini nella popolazione «ancien régime» erano periodiche e avevano come carattere fondamentale un legame con la comunità di origine: lo scopo delle migrazioni era conservativo, si mirava alla sopravvivenza e a conservare le precedenti condizioni di vita, non a cambiarle.
La città preindustriale non fissava che in parte la popolazione e «si gonfiava e si sgonfiava come un polmone», tanto che anche i dati ricavati dagli stati d’anime rappresentano, in alcuni casi, solo indirettamente la realtà urbana. È il caso di Torino, come zona di attrazione di un vasto circondario, ma è anche il caso di Foggia, che a fine Settecento contava 17.000 abitanti, ma «esclusi i forestieri che in certi tempi dell’anno montano a più altre migliaia per essere la città l’emporio della negoziazione». Poiché, in gran parte, la mortalità era più alta della natalità e poiché, anche quando questo non avveniva, l’eccesso delle nascite sulle morti non era sufficiente per soddisfare la crescente domanda di manodopera, le città continuavano ad attrarre un numero crescente di abitanti delle campagne.
Pare quasi che il diverso rapporto tra le campagne e i grossi centri pugliesi nel Settecento passi dal matrimonio e che l’equilibrio demografico tra la città e le zone rurali sia regolato dalle alleanze matrimoniali e dalle combinazioni tra sposi forestieri e residenti al momento del sì.

– Due tendenze determinate dal matrimonio

 

Giovanna Da Molin, Professore Ordinario di Demografia Storica e Sociale, Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia, Comunicazione; Università degli Studi di Bari «Aldo Moro»

Le donne e la famiglia

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Nel Settecento la mobilità stagionale interessava poco la compagine femminile pugliese. Le correnti migratorie dei salariati stagionali che investivano le masserie e i grossi centri del Tavoliere erano pressoché esclusivamente maschili, con la conseguenza che «le mogli de’ faticatori delle masserie di Puglia non sogliono essere compagne delle noiose fatiche campestri de’ mariti ma si lasciano abbandonate nelle Città, dove divengono inerte, oziose e dissolute con sommo pregiudizio del costume e della necessaria educazione de’ figli, che per lo più crescono, senza religione, e senza l’amore della fatica».

Le epidemie

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Le convenzioni per l’assunzione dei salariati avvenivano nei mesi invernali (dicembre-gennaio) sia per garantire la forza lavoro, sia per evitare eventuali aumenti di salario nel periodo della raccolta. Nella pratica i contratti di lavoro si realizzavano attraverso forme di intermediazione: dal «curatolo», intermediario del massaro, che prendeva contatti con gli «antenieri» cioè con i capisquadra della manodopera che a loro volta reclutavano gli stagionali. La richiesta di salariati era tale che gli imprenditori arrivavano al punto di anticipare il denaro ai mediatori pur di legarli a sé per l’epoca del raccolto.

Immigrazione e «ripopolamento»

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I meccanismi di sviluppo della Capitanata, luogo classico dell’incetta mercantile del grano, per l’approvvigionamento di Napoli, risultano particolari. Grande estensione (più di 3.000 miglia quadrate ma bassa densità di abitanti, circa 30 ab. per Km2 intorno al 1770), ancora a fine Settecento si presentava, per diversi aspetti, in condizioni di arretratezza: all’aumento di popolazione non aveva fatto riscontro una crescita complessiva dei modi di produzione e delle strutture sociali. La caratteristica saliente era l’uniformità della produzione agricola costituita quasi ovunque da monocoltura cerealicola e da coltivazioni estensive. Oltre che dall’incidenza della feudalità, comune del resto a gran parte del Regno, la situazione era aggravata dal sistema del Tavoliere. La distesa pianeggiante del Tavoliere era stata in parte destinata fin dal secolo XV alla transumanza, a pascolo perpetuo degli armenti che, nel periodo invernale, scendevano dagli Abruzzi creando un altro rilevante fenomeno di mobilità.

Il sistema agricolo, estensivo e pastorale, e la particolare struttura delle masserie determinò la tendenza della popolazione a raccogliersi in grossi centri, infatti in 33 luoghi, di cui 12 posti nel Tavoliere, si concentrò più del 70% della popolazione. In particolare furono Foggia, San Severo e Cerignola a svilupparsi in maniera vertiginosa nel corso del Settecento, mentre enorme fu lo spopolamento del Tavoliere. Condizione vitale per il suo «ripopolamento» fu il fattore immigratorio senza il quale gran parte della Capitanata sarebbe ancora oggi un deserto.
I grossi centri del Tavoliere e dei primi contrafforti appenninici erano, nel corso del Settecento, zona di massiccia immigrazione di pastori e di braccianti stagionali legati al ciclo di lavorazione del grano. All’endemica scarsezza di braccia, durante le fasi congiunturali dei lavori dei campi, si poneva rimedio con il reclutamento da altre zone che, per la loro organizzazione produttiva, potevano rappresentare bacini di emigrazione. Questo era il caso, ad esempio, della fascia costiera della Terra di Bari contrassegnata da una parossistica parcellizzazione fondiaria (tale da non garantire l’autosufficienza economica al proprietario del piccolo appezzamento di terra) e caratterizzata inoltre da una marcata specializzazione colturale, al cui interno predominavano oliveti ed oliveti misti a mandorleti, colture complementari al periodo di maturazione dei cereali del Tavoliere. L’esteso gruppo di proprietari (i cui fazzoletti di terra potevano costituire solo un reddito integrativo di altre fonti di guadagno) e i contadini privi di terra alimentavano la corrente migratoria verso le masserie del Tavoliere, aziende agricole quasi esclusivamente cerealicole a carattere mercantile che rivestivano grande rilievo nella generale struttura economica del Mezzogiorno. Nell’apparato produttivo della Capitanata l’utilizzo di manodopera avventizia forestiera era determinante e aveva toccato punte ingenti già a fine Cinquecento.

– Le epidemie

 

Giovanna Da Molin, Professore Ordinario di Demografia Storica e Sociale, Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia, Comunicazione; Università degli Studi di Bari «Aldo Moro»

Le correnti migratorie preunitarie

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Si sa poco, specie per il Settecento, degli emigranti meridionali. È dunque interessante tentare di aprire uno spiraglio su questa realtà demografica ma soprattutto umana, per avere, in particolare, un’idea della mobilità della popolazione rurale, dei salariati, dei contadini pugliesi e delle loro condizioni di vita.

Connesso ad altre fonti, l’utilizzo precipuo dei registri parrocchiali ed in particolare di quelli di matrimonio, permette di evidenziare alcune peculiarità delle correnti migratorie preunitarie.
Le tre suddivisioni amministrative della Puglia tra fine Seicento e primo Ottocento (Capitanata al nord, Terra di Bari al centro e Terra d’Otranto al sud) corrispondevano, in sostanza, a fondamentali distinzioni economiche, sociali e culturali. Quasi tre «storie» contraddistinguevano le tre province. A rendersene conto erano, già nel Settecento, quanti avevano tentato una prima descrizione del Regno di Napoli. Anche le descrizioni lasciate dai viaggiatori di quei tempi aiutano a individuare elementi che, secondo sensibilità diverse, caratterizzavano, in un modo o nell’altro, aree economicamente, oltre che amministrativamente, tra loro differenti. Ma sarebbe riduttiva un’analisi dell’andamento demografico e della mobilità che le consideri distinte al punto da ritenerle quasi mondi a sé e separati.
Dall’esame dei paesi di provenienza degli sposi, desumibili dagli atti di matrimonio, è evidenziabile, per larga parte del Settecento, un diverso comportamento del bracciantato agricolo passando da una provincia all’altra. Delle tre province pugliesi quelle che sembrano legate più strettamente fra loro sono la Capitanata e la Terra di Bari. La prima come zona di immigrazione, la seconda come zona di espansione migratoria bracciantile. In Terra d’Otranto, pur presente una piccola aliquota percentuale di emigrazione verso la Capitanata, la corrente immigratoria pare compensarsi con quella emigratoria.
In Capitanata i centri di afflusso erano quelli di forte produzione cerealicola: San Severo, Foggia, Cerignola, Ascoli Satriano, Lucera, ecc.; la massa migrante vi si spostava al tempo dei lavori di semina, di mietitura e trebbiatura.
In Terra di Bari i centri di immigrazione erano, in linea di massima, quelli dell’alta Murgia barese (Spinazzola, Gravina, ecc.) zone a produzione granaria estensiva. La provincia barese riversava il sovrappiù di popolazione attiva sottoccupata nelle province contermini di Capitanata e Basilicata.
In Terra d’Otranto la zona di maggiore immigrazione era il Brindisino per la zappatura delle vigne. Nei paesi in cui era prevalente la coltura dell’ulivo i maggiori flussi di immigrazione, provenienti dalla parte meridionale della provincia, coincidevano con il tempo del raccolto, mentre la parte settentrionale della stessa costituiva una sacca di emigrazione di stagionali (mietitori e trebbiatori) in partenza per la Capitanata e la Calabria. I dati disponibili per il 1820, danno un’idea del fenomeno che avvalora e continua quanto già detto per il trend settecentesco.
La Capitanata, in particolare, si evidenziava come zona di grossa immigrazione, fatto che, peraltro, è documentato ancora all’Unità d’Italia. La Terra d’Otranto registrava una forte mobilità, i salariati partivano e arrivavano continuamente.
È bene ribadire che si trattava di migrazioni interne, infatti, almeno fino ai primi del Novecento, le emigrazioni estere e transoceaniche dalla Puglia, non avevano un peso rilevante rispetto a quelle di breve raggio.

– Immigrazione e «ripopolamento»

 

Giovanna Da Molin, Professore Ordinario di Demografia Storica e Sociale, Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia, Comunicazione; Università degli Studi di Bari «Aldo Moro»

Quando si vietò l’emigrazione degli abruzzesi nel Lazio

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Le migrazioni nelle province napoletane tra Seicento e Ottocento avevano una caratteristica costante, erano cioè fondamentalmente movimenti interni, pur non mancando altri spostamenti e specialmente verso lo Stato della Chiesa. In realtà, i flussi che si erano instaurati, verso questo stato confinante, preoccupavano non poco gli economisti del Regno di Napoli. Con una prammatica del 10 aprile 1766, infatti, era stata vietata specificatamente, ma con poco successo, l’emigrazione degli abruzzesi nel Lazio. Verso la fine del Settecento la corrente di emigranti stagionali che dall’Abruzzo, regione in forte espansione demografica, si riversava nella campagna romana era calcolata intorno a 17.400 uomini, il cui lavoro faceva affluire nel Regno napoletano una massa monetaria di circa 180.000 ducati l’anno.

Pesante era la critica dei riformatori settecenteschi alla politica economica del governo napoletano, alle mancate bonifiche nel Regno, alla forte pressione fiscale, che appariva tanto più grave in quanto il governo, proprio nelle zone dove più intensa era l’emigrazione non svolgeva altra funzione oltre quella di percepire le tasse. In Abruzzo, i rappresentanti del governo attendevano che gli emigrati rientrassero coi loro guadagni per sottoporli al pagamento delle imposte.

– Le correnti migratorie preunitarie

 

Giovanna Da Molin, Professore Ordinario di Demografia Storica e Sociale, Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia, Comunicazione; Università degli Studi di Bari «Aldo Moro»

La Puglia fra Seicento e Settecento

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La Puglia, ancora oggi è attraversata da braccianti agricoli, assunti a giornata, che si spostano, anche di molte decine di chilometri, per andare a lavorare nei campi. Nel passato i flussi partivano da distanze ancora più grandi e c’era chi percorreva il territorio regionale andando da un estremo all’altro. Un trasferimento che comportava faticose e a volte anche tremende condizioni di viaggio. Oggi molti migranti, provenienti da diverse zone del mondo economicamente sottosviluppato, percorrono, con un elevato rischio di morte, grandi distanze per arrivare in Italia e poi continuano a camminare per andare a lavorare nei campi ai quali vengono destinati.

In Puglia, fra Seicento e Settecento, i braccianti (figli o capofamiglia) trascorrevano intere stagioni lontano dalla loro casa e, nelle zone più malsane come quelle della Capitanata, erano in molti a morire per infezioni di ogni tipo. Attraverso la documentazione di origine religiosa e di origine civile (raccolta in Archivi ecclesiastici, di Stato o privati, come registrazioni di battesimo e di sepoltura, atti di matrimonio…) è possibile ricostruire una storia dei braccianti pugliesi, di quelli che andavano verso Nord, in Capitanata, per raccogliere il grano e di quelli che andavano invece verso Sud per la zappatura delle vigne nel Salento.
Fra fine Seicento e primo Ottocento si può rilevare un’accentuata instabilità della popolazione agricola in tutto il Regno di Napoli. Il carattere saltuario del lavoro bracciantile, costringeva i lavoratori a giornata ad accorrere nelle zone nelle quali l’impiego della loro opera poteva essere assicurato per un più lungo periodo di tempo. Nelle fasi di punta del raccolto e della lavorazione dei prodotti più diffusi (grano, olio e vino, che costituivano una risorsa alimentare fondamentale per tutto il Regno), la manodopera nelle zone di maggiore produzione era insufficiente e non pochi territori ne restavano sprovvisti con gravi conseguenze. Quindi correnti di salariati, braccianti, pastori e, in parte molto limitata, di artigiani, percorrevano in lungo e in largo ampi spazi per vendere il proprio lavoro.
In ognuna delle fasi storiche fra 600 e 800, i movimenti migratori attraversavano «come un filo rosso» la storia moderna delle province meridionali presentandosi con caratteristiche anche diverse (sia per gli aspetti economici dei flussi di individui che di volta in volta si spostavano, sia per le problematiche sociali sorte intorno ad essi).

– Quando si vietò l’emigrazione degli abruzzesi nel Lazio

 

Giovanna Da Molin, Professore Ordinario di Demografia Storica e Sociale, Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia, Comunicazione; Università degli Studi di Bari «Aldo Moro»

Save the Children: i leader hanno mancato ai loro impegni per i bambini su migrazione, nutrizione ed educazione

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Save the Children è profondamente delusa da un vertice in cui i leader del G7, pur riunendosi in un luogo simbolico come la Sicilia, cuore del flusso migratorio del Mar Mediterraneo, non sono riusciti ad impegnarsi su una visione comune sul tema della migrazione. L’Organizzazione internazionale dedicata dal 1919 a salvare i bambini in pericolo e a promuoverne i diritti, accoglie con favore invece il riconoscimento da parte dei leader della necessità di proteggere i più vulnerabili tra i migranti, tra cui adolescenti, bambini e minori non accompagnati. Ma ancora una volta l’attenzione si sposta sui temi della sicurezza e del controllo delle frontiere, pregiudicando fortemente il primo dovere dei leader del G7 che è quello di proteggere i bambini dalla violenza, dagli abusi e dallo sfruttamento, incluso il traffico dei minori. I minori migranti hanno esigenze comuni e affrontano sfide comuni. L’opportunità persa del G7 significa che a pagarne il prezzo saranno 28 milioni di bambini che sono stati costretti a lasciare la propria casa, fuggendo dalla guerra e dalle violenze,

«I leader G7 hanno fallito prima di tutto nei confronti dei bambini. Non sono stati all’altezza delle aspettative sia sulla migrazione che sull’educazione, la sicurezza alimentare e la nutrizione. Questo vertice finisce oggi lasciandosi alle spalle milioni di bambini vulnerabili. Siamo delusi perché i leader hanno semplicemente riaffermato principi esistenti senza assumere nuovi impegni», denuncia Egizia Petroccione, portavoce di Save the Children al G7.
I leader del G7 hanno ribadito i loro impegni sulla sicurezza alimentare e sulla nutrizione, che erano già stati concordati negli ultimi due vertici, ma hanno perso l’opportunità di tradurre queste promesse in azioni concrete. Save the Children accoglie favorevolmente l’appello delle Nazioni Unite per il Sud Sudan, Nigeria, Somalia e Yemen, ma sottolinea che i governi del G7 hanno concluso il vertice senza stanziare nuove risorse finanziarie né per interventi a lungo termine, che affrontino i temi dell’insicurezza alimentare e della malnutrizione, né per combattere le crisi umanitarie in corso. Sono 159 milioni i bambini affetti da malnutrizione acuta che ne subiranno le conseguenze.
I sette grandi della terra hanno anche dimostrato una mancanza di leadership sul tema dell’educazione e oltre ad aver rinunciato a impegnare nuove risorse, hanno anche deciso di non pubblicare l’Accountability Report del G7, che avrebbe potuto dare conto dei progressi del G7 a favore dell’educazione. Anche in questo caso saranno i bambini a pagare il prezzo di questo mancata azione politica, in particolare i 263 milioni di bambini che non hanno accesso alla scuola, di cui 3,7 sono rifugiati.

Vivere liberamente un’esperienza

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Delle storie scritte, come di quelle vissute in prima persona, si può, dunque, far parte, ma da queste storie si può anche uscire. Si può, così, diventare protagonisti di altre storie, anche solo virtuali e parallele, nelle quali il caso o la necessità possono offrire opportunità, anche imprevedibili, per ampliare le nostre esperienze con altri pensieri e altre e nuove relazioni vitali con le cose.

Sono tutte storie che hanno la connotazione originaria dei ricordi, concepiti come pensieri in corso nella mente e non solo come segni e messaggi formali (forniti dalle cose e dagli eventi) percepiti dai cinque sensi e trasmessi per essere, infine, conservati nella nostra memoria o meccanicamente replicati a comando.
In questa situazione dobbiamo superare sia l’estraneità di un racconto che può rimanere solo una conoscenza formale che può indurre atteggiamenti di adeguamento acritico alle mode, sia il rischio di farci deviare verso storie automatiche di consumi e di prestazioni sempre più avanzate (governate dagli «algoritmi» delle sfide, dai premi del «vero/falso», dai percorsi di «stimolo/risposta»…).
Dobbiamo, infatti, poter vivere liberamente un’esperienza mentale originale e diversa, autonoma e non rituale, se vogliamo sfuggire ai ritmi e alle urgenze dei risultati obbligati da un nostro turno in scadenza (come se fossimo nel giro di un gioco di società). Abbiamo bisogno, infatti, di storie che, per le loro diverse, autonome e consapevoli, origini mentali, non solo non portino a convergere sugli assoluti (che sono incompatibili con le scelte di condivisione di verità plurali e di scenari di diversità), ma che possano diventare risorse per creare sinergie. Sono storie che non comunicano significati preordinati, ma che, neanche rispecchiano esaustive esperienze vitali sulla complessità e su compiute consapevolezze circa il senso del vivere umano. Sono storie che non sono riducibili a semplici sogni, ma che affidano al lettore tutto un compito interpretativo e riflessivo personale. Storie nelle quali il lavoro vero non viene fatto dall’autore (che propone solo proprie percezioni ed emozioni), ma dal lettore che può, infatti, sviluppare un proprio percorso di scoperte e di consapevolezze. Storie concettuali formalmente anche di poco interesse se non fossero rielaborate e finalmente interpretate e integrate (nella forma di punti di vista diversi di più letture e di più lettori), come patrimoni di conoscenze ed esperienze necessarie per accrescere la qualità delle valutazioni e decisioni personali e condivise.
Sono storie di esperienze che potrebbero essere perse, ma che possono, invece, fruttuosamente inserirsi nella continuità del divenire del nostro presente e offrire contributi unici alla realizzazione delle nostre aspirazioni più profonde: storie che, solo il senso comune delle cose, può definire eterodosse. Non un film, che potrebbe coinvolgerci solo passivamente, nelle sequenze delle sue trame predefinite, ma un vivere, arricchito dalle storie di un precedente divenire sinergico del quale siamo una prosecuzione del tutto autonoma nel presente. Niente di cabalistico o da new age, ma l’esperienza di una condizione che può essere sentita e assunta intenzionalmente ed essere, quindi, da noi liberamente condivisa, negata o legittimata come appartenente al nostro vissuto, pur se formalmente si tratta di un’invenzione che, nella sua origine e struttura, è frutto di relazioni fra più esperienze. Esperienze diverse che rientrano, però, nella categoria delle nostre risorse creative.
Sono storie nelle quali possiamo ricercare un senso umano delle cose, anche solo iniziando dalle analogie, per rifletterle sul nostro modo di essere, nelle prospettive dinamiche e flessibili di nostre concrete partecipazioni e confronti con i fini vitali riconoscibili negli equilibri naturali. Dobbiamo impegnarci a raccogliere riferimenti non per un archivio dei tempi passati, ma per disporre e aggiornare criticamente risorse dinamiche di modi per vivere e, soprattutto, per sopravvivere alle «carenze» di senso del presente.
Storie che, pur se mai sufficienti, possono potenziare (con l’esplorazione della complessità degli equilibri vitali) la disponibilità di relazioni determinanti per scoprire e mettere a confronto condizioni e opportunità concrete di dare senso al nostro esistere. Storie che possono permettere anche di indagare quegli scenari immateriali che l’uomo sa pensare e ripensare nella ricerca di un senso che vada oltre le cose solo fisicamente dinamiche. Storie essenziali perché uniche vere alternative, agli invadenti approcci deterministici che riducono, ogni cosa dell’immanente, a un gioco paranoico di incastri preordinati (di strategie fine a se stesse e di rischi superflui); storie che fanno riflettere sul dilagante senso comune delle cose che non alimenta il progresso umano, ma che avanza, in modo incontrollato e pericoloso, come una metastasi. Storie condivise perché frutto di relazioni creative (fra le diversità umane) e non effetto di banali omologazioni consumistiche. Storie originali di organismi vitali e non di un insieme di meccanismi preordinati, con finalità solo produttive e senza proprie e responsabili intenzioni.
Storie che non impongono i ritmi di quel progressismo, ad alto sviluppo di entropia, che, nel «fare qualsiasi cosa si possa fare» e nelle inesauribili alienazioni consumistiche, realizzano solo infruttuosi sprechi di risorse e ostacolano, opponendo sempre maggiori difficoltà, la ricerca di quella fertile unicità che è in ciascuno di noi e che compone la fertile diversità umana.

La percezione del vivere

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Il mondo non è un insieme di cose da trasformare solo in consumi e noi non possiamo vivere solo nell’attesa fisica di aggiornate vetrine che ci offrano continue occasioni per consumare emozioni o per sentire l’eccitante disorientamento di cose inattese e per lasciarci confortare, infine, dall’appagamento del possesso di quelle stesse cose.

Volare, nella percezione del nostro vivere, vuol dire andare oltre quelle due dimensioni che, in sostanza, caratterizzano il nostro libero andare, vincolato, però, dal dover tenere i piedi per terra. Volare non è una capacità consentita al corpo umano: l’uomo può, infatti, volare solo con macchine ed energie, separate dal suo corpo, che impongono la sua sottomissione a dispositivi e protocolli esterni di sicurezza. Volare, come espressione diretta di un’abilità fisica del corpo umano, è una fantasia che trova spazio, nella nostra mente, ma che, per i limiti imposti dalla condizione umana, può solo portarci a immaginare di diventare altro in un altro mondo. Un desiderio frequente che spinge l’uomo ad andare anche oltre le dimensioni limitate della realtà (che può essere concepita nella sua mente) e che rischia di alterare i suoi pensieri e i suoi comportamenti.
Vi sono, dunque, storie che possono essere lette per rielaborare realtà vissute da altri, diversi da noi, ma anche per essere trasformate in occasioni per un dinamico poter sempre disporre di alternative alle proprie visioni delle cose. Di queste ultime storie diventiamo attori se sappiamo dare o riconoscere ad esse un senso (alla luce dello sviluppo delle nostre autonome e personali visoni delle cose e dei confronti con i racconti di chi li ha vissuti). Siamo attori se sappiamo interpretare le diversità dei racconti, riconoscibili dalle loro dinamiche, per integrarle liberamente nel divenire delle nostre esperienze dirette e nei conseguenti comportamenti (come avviene nei fatti della vita reale se non è ridotta a una sequenza di eventi che trova ragioni di esistere solo nella continuità e coerenza formale di una preordinata successione di immagini statiche). Possiamo trovarci, così, ad esplorare il nostro mondo con più ampi patrimoni, di esperienze e conoscenze, e perfino con inavvertite ma fertili alternative alle nostre eventuali intenzioni e convinzioni iniziali.

Nel senso comune delle cose, il riflettere sulle letture alternative della realtà, si presenta come un seducente impegno che distrae, però, da doveri impliciti, rituali e assoluti, di un nostro esistere sottomesso a un imperioso «fare le cose», concessionario unico di opportunità di sopravvivenza nella nostra modernità. In quest’ultima deviante prospettiva, vi è, quindi, una sottrazione di tempo personale che è, invece, necessario, sia per interpretare i fenomeni e progettare sintonie, sia per cercare alternative a quel «fare le cose» che l’attuale ideologia liberista, in tutte le sue versioni praticata (democratiche, tiranniche, populiste, neocomuniste…), considera finalità unica e indiscutibile del comune vivere umano. I doveri impliciti, imposti dal senso comune (infida categoria di obblighi che disincentivano le alternative) se soddisfatti, possono, forse, premiare solo qualcuno, a danno di altri, con una ricchezza economica (fonte delle sicurezze assolute offerte dall’avere un potere sulle cose e sugli uomini). Una ricchezza economica che per tutti gli altri competitori rimarrebbe, così, solo come sogno di una loro possibile, ma ancora futura, fortuna di benessere e che, nelle contingenze del loro vivere, pur se ridotta ad un suo insignificante sottomultiplo, può consolarli rispetto ad un temuto peggio.
In realtà c’è una riflessione che permette di entrare nel merito del senso delle cose (e non solo nei preordinati meccanismi del saperle fare). È un’opportunità, che nella pratica della comparazione/riflessione (fra i diversi sensi delle cose offerti da più prospettive), propone motivazioni fondate per una scelta consapevole e responsabile. Allora (come avviene in un vivere non preordinato dal senso comune delle cose) a una nostra esperienza diretta potranno affiancarsi storie di esperienze diverse. Le nuove relazioni, che saranno così attivate, potranno, poi, arricchirci di ancora nuove connessioni con altre esperienze e alcune potranno integrarsi fino ad acquisire il valore sostanziale delle stesse nostre riflessione e consapevolezze sulla pratica del vivere; le scelte potranno essere decise confrontando diversi criteri di selezione e valutazione; gli esiti dei nostri impegni, ad affrontare le situazioni del nostro vivere, potranno, così, rispondere meglio, con nuove sinergie, alla complessità di attese non più solo individuali.
Nuovi scenari, quindi, potranno aprirsi se arriveremo a troncare quelle sequenze uniche di lettura di fatti e di sentimenti che, pur se rassicuranti (perché comuni a un sempre più ampio insieme di nostri simili), sono senza alternative e inducono, acriticamente, solo a comportamenti e consumi di massa ad esse connesse.
Oggi, siamo portati a seguire le tendenze e, quindi, a dare sostegno non a un’economia consapevole (del senso delle cose) e responsabile (dell’uso delle risorse), ma alla diffusione di mode che conformano, i nostri pensieri e comportamenti, a una stessa e unica lettura del mondo, a uno stesso e unico modo di valutare e fare scelte: quello del «senso comune», che vuole una società di consumi che sappia muovere l’economia (anche se non si sa «perché» e «verso dove» sia diretta), un senso comune estraneo alla nostra autonomia di giudizio e alla nostra responsabilità di valutare le scelte.

– Vivere liberamente un’esperienza

Far rivivere i ricordi

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I ricordi non sono solo un archivio di eventi, ma sono, anche loro, uno spazio vitale, fonte di risorse uniche per creare sinergie. Leggere o ascoltare e affidare a sentimenti estemporanei le analogie, fra i ricordi e i fatti della vita, se può inebriare la mente (fino a farci volare leggeri in un’affascinante realtà virtuale) può produrre, però, profonde alienazioni e allontanare dalla ricerca di quel senso della vita che solo ciascuno può definire con le proprie mani. I ricordi, di varia provenienza, possono essere rivissuti (nei nostri piccoli o grandi progetti di vita) per integrare le nostre intuizioni e le nostre aspettative. Se le nostre proiezioni nel futuro sono supportate dalla diversità di più punti di vista, possiamo, infatti, interpretare più compiutamente quella complessità che permette di vivere, con più qualità e partecipazione, il nostro esistere.

Nella ricerca del senso delle cose (essenziale per definire «perché» fare le cose) e nelle scelte dei modi di vivere (essenziali per definire «come» fare le cose che hanno senso), un ruolo rilevante, viene svolto dai modelli che possiamo, almeno in prima approssimazione, considerare sufficientemente affidabili, per ricostruire, nella nostra mente, una rappresentazione efficace della realtà. Diventa, allora, necessario impegnarsi nel controllo-confronto delle applicazioni dei modelli, dei loro risultati e del senso che può emergere dalle valutazioni dei diversi comportamenti umani, quelli personali compresi. In questa prospettiva, dunque, i modelli approssimati (per i nostri limiti nel concepirli) dovranno essere, poi, sempre criticamente revisionati (attraverso le nostre capacità di analisi, riflessione, valutazione e cambiamento, fino ad arrivare, eventualmente, anche a confutarne la fondatezza) in relazione ad una loro specifica applicazione.
Abbiamo strumenti che permettono di affrontare (pur senza incorrere nell’illusione di arrivare a possedere una verità) aspetti essenziali, dei processi fisici e mentali, che altrimenti rimarrebbero del tutto ignoti e inutilizzati. L’incompiutezza delle nostre conoscenze e le abilità, solo istintive e peculiari della condizione umana, non permettono il pieno controllo sia della conoscenza dei fenomeni complessi, sia delle applicazioni delle leggi che ne facciamo derivare, sia di quel senso delle cose che guida i nostri pensieri nei momenti delle scelte.

Dunque le storie, ascoltate o messe su carta, non sono solo quelle che coinvolgono il lettore in un avvincente succedere di eventi o nelle intriganti complicazioni di suggestive sceneggiature che lo alienano da se stesso. Vi sono, cioè, storie che non intendono affascinare e sedurre l’attenzione del lettore con accattivanti capitoli di parole capaci di allontanarlo da una realtà, che forse rifiuta, per condurlo in un mondo virtuale che lo accoglie e lo conforta in fantasiosi luoghi del «nulla di vero». Vi sono, infatti, anche storie che non sono prodotte per il consumo passivo, di sorprendenti o sofisticate fantasie. Si tratta di storie di esperienze provate che, sostanziate in una ricostruzione di realtà vissute, propongono al lettore o all’ascoltatore di sintonizzarsi (senza tradire la realtà, ma esplorando e riconoscendo altri ambienti fisici e relazioni immateriali) con un argomentato e personale andare oltre se stesso, in altri spazi e in altri tempi e quindi con dimensioni più ampie di quelle dei soli fenomeni vitali da lui vissuti in tempo reale.
Dopo aver visto, ascoltato, toccato, provato i fenomeni, dei nostri contesti di vita, e i loro limiti, dopo aver lasciato in attesa di risposte i nostri dubbi e il desiderio di poter continuare a conoscere nuove cose, che fare, se non andare oltre se stessi? Che fare, se non disancorarci dalla sola applicazione, formale e assoluta, del principio di non contraddizione che vorrebbe dare un’irraggiungibile compiutezza alle nostre non esaustive capacità di conoscere le cose? Che fare, se non ricercare e strutturare altri scenari di consapevolezze e responsabilità, non obbligati, però, dalle coercizioni delle sole prove sperimentali fisiche (ridotte nelle misure approssimate che la nostra mente può percepire e nelle forme arbitrarie che a loro attribuiamo)? Che fare se non smascherare anche il sostegno interessato che il potere, nelle sue diverse espressioni, offre a quel senso comune delle cose con il quale vorrebbe convincerci sul determinismo di processi cognitivi proposti come percorsi di verità (per conformare la mente umana ad un ordine mentale e a una pratica ideologica della libertà, della cultura, della politica, dell’economia)? Che fare se non denunciare il ritmo estremo di un «fare le cose» che sottrae i tempi necessari per una personale e inalienabile valutazione del senso di quelle stesse cose?
Oggi, c’è un ritmo di vita che rimuove i tempi necessari per le consapevolezze. Un ritmo che ci affida, invece, a pronostici preordinati, se non anche a un destino infidamente confezionato, che può essere imposto per procurare una nostra impotente sottomissione ai meccanismi, deviati e devianti, e non certo unici, dell’economia dei consumi e dello sviluppo tecnologico fine a se stesso. Un ritmo di vita che ci distrae dai bisogni e che induce, invece, distruttive e mortali alienazioni competitive in un sistema gestito e incentivato dai fuori giri dei motori dei profitti.

– La percezione del vivere

L’importanza dei… vuoti

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Ma le nostre esperienze, i ricordi, le riflessioni, le conoscenze, gli strumenti e i nostri progetti non godono di riferimenti esaustivi e quindi non verranno mai meno ad essi quelle contraddizioni e incoerenze che emergono (come avviene in tutte le cose del vivere quotidiano) dai vuoti incolmabili delle strutture semplificate e deformate che costruiamo per interpretare, pur se in modo approssimato, i complessi fenomeni naturali e le articolate relazioni umane.

Sono i vuoti che possiamo, anche intenzionalmente, generare per adattare la realtà a opportunità, di varia natura e finalità, per interessi individuali o da condividere con altri (nelle varianti, dei pochi o dei molti, che si esprimono con qualità sociali e competenze diverse). Sono vuoti non definiti e, quindi, a disposizione della nostra creatività e delle nostre sperimentazioni, comunque indirizzate. Sono luoghi nei quali è possibile architettare e mettere alla prova sorprendenti sinergie (tra valori e tra abilità umane diverse), ma, purtroppo, anche per confezionare inattaccabili sostegni in favore di perfide prospettive che si volessero imporre per soddisfare ingiusti interessi o solitari e prepotenti convincimenti individuali, se non proprio paralizzanti principi ideologici.
Sono vuoti che, se gestiti con le opportune consapevolezze e responsabilità, possono permettere, però, di semplificare gli scenari, delle nostre esperienze, e rendere praticabili modelli alternativi e transitori, ma efficaci, di solidarietà e di progresso, mossi dal pensiero e dalle opere umane. Sono anche vuoti nei quali una ricerca scientifica sperimentale, finalizzata a interpretare fenomeni naturali, può offrire riferimenti e soluzioni per le nostre migliori scelte concrete. I vuoti sono, dunque, anche spazi vitali, affidati all’esercizio delle nostre responsabilità, che possiamo esplorare volando alto e con la consapevolezza di dover rispondere nei modi più compiuti alle domande del «perché» e del «come» fare cose che possono dare qualità alla nostra vita fisica e mentale.

– Far rivivere i ricordi

Siamo ciò che ricordiamo

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C’è chi sostiene che «noi siamo quello che ricordiamo» e, anche se il rapporto fra la realtà e il suo ricordo può apparire incerto, sicuramente esiste una relazione fra ciò che ricordiamo e quell’identità che emerge e che comunichiamo attraverso i nostri modi di pensare e di comportarci. Ma i soli ricordi, un database di patrimoni di esperienze personali e condivisibili, sono risorse infertili se non li impegniamo in un percorso iterativo di sviluppo di idee, di proposte, di confronti e di verifiche finalizzate alla ricerca del senso delle cose.

Le nuvole, il loro movimento e il loro cambiare forma, raccontano la storia del loro addensarsi o svanire nell’atmosfera e noi voliamo con loro quando, dopo averle osservate, ci interroghiamo su come avvengano questi fenomeni atmosferici, sui loro effetti nei vari contesti, su come possiamo riprodurli e addirittura sottometterli a una nostra volontà di farli avvenire in un modo piuttosto che in un altro.
In realtà dai ricordi di eventi naturali, che dispongono di documentate osservazioni e di elaborazioni dei relativi dati, si possono trarre altre visioni dei fenomeni, ma anche modelli per prevederne il comportamento e perfino un manuale, unico nel suo genere, su «come fare le cose» (seguendo i segni lasciati a nostra disposizione dalla natura) per poter indirizzare i loro equilibri verso nostre particolari attese e poter formulare nuove domande.
Sui ricordi possiamo costruire quelle riflessioni, individuali e da condividere, che possono offrire risposte, plausibili da codificare, sul «come» e «perché» avvengano i fenomeni percepiti dai nostri sensi e da applicare per risolvere problemi e migliorare la qualità (fisica, relazionale ed oltre) della nostra vita. Ancora con le riflessioni possiamo valutare se gli obiettivi indicati e i risultati ottenuti, da un nostro impegno operativo, sono coerenti e hanno soddisfatto le finalità che intendevamo perseguire. Sempre con le riflessioni, possiamo decidere le tecniche e le tecnologie più convenienti per definire progetti e ottenere specifici risultati. Con le riflessioni sui nostri ricordi possiamo permetterci di volare oltre le cose già note e arrivare a nuovi racconti, sul divenire della realtà, anche fino a trascendere la loro essenza materiale.

– L’importanza dei… vuoti

Bibliografia (Droghe)

Tempo di lettura: 2 minuti

(1) frazer, j. g.: Il ramo d’oro. Studio sulla magia e sulla religione, Newton

Compton, Roma, 2006.
(2) bouisson, m.: La magia, Sugar, Milano, 1964.
(3) fornari, u.: Malocchio, patologia di mente e credenze popolari nei reati di omicidio. Un riesame della letteratura, in AAVV, Rassegna Italiana di Criminologia 14, 69 – 91, 1983.
(4) gill, j. r., rainwater, c. w., adams, b.j.: Santeria and Palo Mayombe: skulls, mercury, and artifacts, J Forensic Sci. 54 (6):1458-62, 2009.
(5) lanternari v.: Religione magia e droga. Studi antropologici, Manni, San Cesario di Lecce, 2006.
(6) wasson, r. g.: SOMA: Divine Mushroom of Immortality, Harcourt Brace Jovanovich, New York, 1968 In de ropp, r. s. (a cura di) : Le droghe e la mente, Cesco Ciapanna, Roma, 1980.
(7) www.antiplagio.org/satanismo.htm (giugno 2010).
(8) introvigne, m.: New Age & Next Age, Piemme, Casale Monferrato, 2000.
(9) ferguson, m.: The Aquarian Conspiracy: Personal and Social Transformation in Our Time, J. P. Tarcher/ Houghton Mifflin, Los Angeles, 1987.
(10) http: //it Wikipedia.org/wiki/Eclettismo_pagano (giugno 2010).
(11) gardner, g.: Witchcraft Today, Citadel Press, New York, 200411.
(12) murphy-hiscock, a.: Solitary Wicca for Life: A Complete Guide to Mastering the Craft on Your Own. Adams Media Corporation, Avon, MA, 2005.
(13) pellegrino, g.: Il ritorno delle streghe, Edisud, Salerno, 2007.
(14) alison newby, c., riley, d.m., leal – almeraz, t.o.: Mercury use and exposure among Santeria practitioners: religious versus folk practice in Northern New Jersey, Ethn Health. 11(3): 287-306, 2006.
(15) de cupere f., vandebroek i., puentes m., torres s., van damme p.: Evaluation of vegetal extracts as biological herbi – and pesticides for their use in Cuban agriculture, Meded Rijksuniv Gent Fak Landbouwkd Toegep Biol Wet. 66 (2a): 455-62, 2001.
(16) http: //violentfairy.altervista.org/voodo.htm (giugno 2010).
(17) kail, t. m.: Magico-Religious Groups and Ritualistic Activities: A Guide for First Responders, CRC Press Taylor & Francis Group, 2008.
(18) cardarelli, l.: Carlos Castaneda e lo sciamanesimo, www.edicolaweb.net, 2006.
(19) aldrich, m.r., ashley, r., horowitz, m.: High Times Encyclopedia of recreational Drugs, Stonehill Publishing Company, New York, 1978.
(20) aa.vv.: High Times Encyclopedia of Precreational Drugs, Stonehill Publishing Company, New York, 1978.
(21) polia m.: Il sangue del condor. Sciamani delle Ande, Ediz. Xenia, Milano, 1997.
(22) Sciamanesimo e Curanderia, http://stamani-explorer.com/terapie-sciamaniche (giugno 2010).
(23) Monti l.: Usi e rituali magici nell’Africa australe, Edizioni Mediterranee, Roma, 1990.

L’influenza delle sostanze sui seguaci di una «religione magica»

Tempo di lettura: 2 minuti

In definitiva, magia e religione rappresentano delle costanti nell’evoluzione della storia dell’individuo. Entrambe, difatti, rispondono in qualche modo alle stesse esigenze e bisogni dell’uomo. Mentre nelle religioni tuttavia il divino è correttamente concepito come onnipotente o trascendente in rapporto al mondo e all’uomo, la magia sembra in grado di fornire risposte e soluzioni più rapide ai bisogni ed alle preoccupazioni. Le «religioni magiche» in particolare si prefiggono finalità immanenti al mondo.

Tutto questo, evidentemente, può creare una maggiore presa sugli adepti, più disponibili ad obbedire alle prescrizioni del «sacerdote» e disposti a partecipare ai rituali pur di ottenere risposte alle proprie richieste. Rituali, in cui talvolta si ricorre all’uso di sostanze che possono indurre stati di coscienza alterati, in cui giudizio critico e capacità di discernimento possono essere fiaccati. Tale condizione può essere appositamente indotta anche attraverso l’ipnosi.
A questo spesso si aggiungono cambiamenti dietetici e dei ritmi di vita, prolungata privazione del sonno, aumento del livello di stress. Le successive reazioni fisiologiche indotte nel neofita avviato verso tali pratiche, vengono presentate dal «sacerdote» come conseguenza di un faticoso cammino individuale necessario per arrivare, infine, alla «perfezione».
Si comprende allora come, aderendo ad organizzazioni religiose «magiche» e partecipando a rituali che prevedono anche l’utilizzo di sostanze, si possa più facilmente presentare una condizione di suggestionabilità legata allo specifico contesto in cui l’organizzazione consuma le sue dinamiche interne. Da un lato vi è il «sacerdote», il «santone», il leader che detiene il potere del rito e che fa ricorso a suggestioni ed esortazioni; dall’altro il seguace, con una volontà che, a motivo della particolare condizione di soggezione fisica e psicologia, certamente creata dal contesto in cui è inserito, può essere più facilmente plasmabile e suggestionabile.
L’uso di sostanze allucinogene o psicoattive all’interno di gruppi magico-religiosi contribuisce, inoltre, ad accrescere il consenso degli adepti e conferisce maggior potere al sacerdote stesso.

Conclusioni

Si ritiene che si possa considerare senz’altro acquisito il dato che i riti magici, così come le religioni, hanno origini antichissime. Spesso rispondono a necessità identiche dell’uomo ed appaiono, in alcuni casi, il risultato di una commistione fra diverse religioni e riti nel corso dei secoli.
All’interno dei riti magici vi è però spesso un uso di sostanze che espletano un potere «magico». Si tratta di sostanze di origine vegetale o animale, con effetti allucinogeni o psicotropici, utilizzate, oggi come ieri, insieme ad amuleti e talismani dal «sacerdote» durante i rituali (23). Molteplici ed immanenti le finalità di tale uso: fortuna, benessere, felicità e salute. Spesso, comunque sia, è l’effetto stesso della sostanza a rappresentare l’obiettivo principale desiderato dal sacerdote, da colui cioè che officia il rito. Il quale, proprio attraverso l’uso di sostanze ad azione spesso analgesica, ipnotica o allucinogena, rinsalda il legame che lo unisce agli altri partecipanti al rito. Con tutte le insidie che legami di dipendenza psicologica più o meno accentuata possono favorire.
Mi riservo di descrivere, in un prossimo articolo, le piante ad azione stupefacente e psicotropa adoperate nelle «religioni magiche».

L’uso dei profumi nelle religioni magiche

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Rituali e credenze che hanno caratterizzato le epoche passate sono oggi ancora presenti. Si pensi ad esempio alla «magia dei profumi». Diverse, infatti, sono state le culture che sin dalla preistoria hanno attribuito all’uso dei profumi una funzione rituale. L’uso dell’incenso ne costituisce un esempio tipico. È utilizzato ritualmente, infatti, per il suo profumo odoroso che non fa sentire i cattivi odori di una moltitudine di persone ristretta in luogo chiusi (templi, chiese, ecc.), sia come offerta sacra (nei riti della Roma Antica, come nelle tradizioni giudaico cristiane), per protezione magica, sia infine per purificazione e santificazione (buddhismo, cristianesimo). Gli Umeda nella Nuova Guinea attribuiscono tuttora ai profumi un significato e una funzione magica che promuove una condizione propizia per la caccia. Per attirare i maiali selvatici i cacciatori portano con sé un minuscolo sacchetto di essenze profumate. Il nome del sacchetto «Oktesap» significa «magia che uccide i maiali». Secondo gli Umeda, il processo olfattivo è così strettamente connesso al sogno, che i due processi possono essere considerati come due aspetti di un’unica esperienza: come il sogno ha una funzione vaticinatoria, così il profumo anticipa e fonda l’evento desiderato. In tal senso il profumo risulta avere una doppia efficacia: attrae la selvaggina e provoca un sogno augurale (5).

Proprietà magiche di piante e fiori, seppure con modalità differenti, sono ancora presenti ed esaltante trait d’union tra il passato e il presente. Nella moderna civiltà occidentale i profumi assumono una dimensione sociologica e comunicativa. Caratterizzano individui di sesso diverso, di differente strato e ceto sociale. «L’industria cosmetica cercando di sopprimere gli odori biologici esalta il potere simbolico, purificatorio e vivificante dei profumi floreali» (5).
L’utilizzo di tali sostanze lo ritroviamo in nuovi movimenti spirituali come la New Age, alla ricerca, in occidente, di antichi (o pseudo tali) culti celtici o primitivi. Tale «riscoperta» sembra essere accompagnata tuttavia dalla diffusione di «vecchie» e «nuove» droghe allucinogene provenienti dai Paesi del terzo e del quarto mondo.

– L’influenza delle sostanze sui seguaci di una «religione magica»

Le religioni brasiliane

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Il Candomblè è un rito importato in Brasile ed in America latina dagli schiavi del Senegal e della Costa d’Avorio (17).

Il termine Candomblè, di origine africana, significa «danza», perché danzando e cantando gli officianti entravano in trance e potevano essere posseduti dalle divinità naturali, gli Orixàs. Essi credevano che le divinità infatti, non riuscendo più a comunicare con gli esseri umani, potevano entrare nei corpi delle sacerdotesse (Mae de Santos) tramite le quali diffondono energia vitale, Axè. Il culto della possessione e della trance lo ritroviamo in molte altre culture e trovano assonanza con i santi cattolici, con gli dei greci e romani.
L’Umbanda, (17) movimento a carattere spiritistico di origine brasiliana con radici africane è considerata un vera e propria religione. Il contatto con gli dei non è però diretto, ma avviene tramite la mediazione di alcuni spiriti messaggeri, Caboclos o Preto Velhos. Nell’Umbanda si sente in maniera molto forte il sincretismo con i santi cattolici.
La Quimbanda è invece un rito che attira individui interessati alla magia; si basa su rituali offerti agli Orixàs Exù e Pomba Gira (manifestazione femminile di Exù).

– L’uso dei profumi nelle religioni magiche

Lo Sciamanesimo e Curanderismo

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La parola «sciamano» deriva dall’inglese shaman, adattamento del termine saman (o «samen») che presso il popolo dei tungusi siberiani designa gli operatori medici che agiscono in stato di trance. Altre fonti sostengono invece che il termine «sciamano» provenga dal sanscrito sramana o dal pali samana e significhi uomo ispirato dagli spiriti, portatore di energia, uomo saggio, colui che vede nell’oscurità (18).

Le origini dello sciamanesimo si perdono nella notte dei tempi. Esso era diffuso già nell’epoca paleolitica e tuttora ne abbiamo tracce in Siberia (tra i Koryaki, Chukchi, Ostyak, Samoyed, Kamchadae e altre tribù), America centrale e meridionale (in particolare in Messico), Usa, Giappone, Tibet, Indonesia, Nepal, Australia e Asia nord-orientale.
Fotografie moderne di sciamani Samoiedi sotto l’effetto della amanita, che intonano canti e canzoni con accompagnamento di un tamburo magico, corrispondono quasi esattamente ai disegni su vecchissime rocce di sciamani Samoiedi che «viaggiano nel mondo dei morti».
Anche la canapa (Cannabis indica), nativa dell’Asia centrale, ha svolto un ruolo importante nella prima magia sciamanistica. Gli Sciiti dell’Asia centrale dopo il funerale di un re, eseguivano un rito di purificazione attraverso l’inalazione dei fumi dei semi di cannabis, gettate su pietre roventi al centro di piccole tende. Tracce di tale pratica è stata rinvenuta anche in Siberia. Jochelson racconta anche che le tribù che si trovavano nei pressi del fiume Araxes, lungo il confine Turco-Armeno gettavano il frutto di un albero, probabilmente la parte superiore dei fiori di canapa, nei loro fuochi e l’odore che si sprigionava li inebriava, fino ad intossicarli (19).
Sebbene le singole cerimonie variassero da tribù a tribù, un rapporto dell’antropologo Jochelson, che visse tra i Koryaki, riporta informazioni circa i poteri provati dagli antichi sciamani nella trance prodotta dall’amanita. Questi sotto l’effetto dell’amanita muscaria e con indosso delle pelli di animali raccontavano di essersi trasformati in animali. Nel loro rituale veniva adoperato anche il vino di miglio o di riso, la droga della magia e della metamorfosi (20).
Gli sciamanesimi maggiormente noti oggi al pubblico sono quello messicano, divenuto famoso grazie alla divulgazione delle opere di Carlos Castaneda, e quello siberiano, area in cui lo sciamanismo è stato praticato fino a tempi recenti. Tuttora lo sciamanesimo è presente in Perù dove si utilizza una bevanda allucinogena chiamata sanpedro derivata da un cactus (21).
Lo sciamanesimo può contenere al suo interno tracce di religioni e tradizioni locali. Lo testimonia il curandero peruviano Eduardo Calderón che crebbe in una famiglia cattolica e divenne curandero dopo aver seguito gli insegnamenti di un guaritore indigeno che utilizzava piante allucinogene e un altare denominato mesa su cui troneggiavano vari oggetti di potere. Nelle sue sedute Calderón sostiene di utilizzare forze terapeutiche presenti nell’universo (e questo è il medesimo concetto che troviamo a tutt’oggi nel reiki, nel «Pem» e nello Yoga) ed associa le forze del male a Satana e quelle del bene a Gesù Cristo. Calderón sostiene che è il subconscio umano a guarire ed anche questo concetto lo ritroviamo nello yoga e nei movimenti della nuova spiritualità.
Le piante allucinogene maggiormente usate dagli sciamani sono i funghi sacri Psilocybe. Tra i Mazatec anche i pazienti assumono i funghi allucinogeni al fine di partecipare in modo attivo al trattamento dello sciamano.

Il vecchio «Sciamano» ancestrale si è trasformato nel «Curandero» depositario delle conoscenze tradizionali di fitoterapia.
Dal curandero si esige la capacità di manipolare «magicamente» «le virtù» delle piante e di riconoscere «la virtù» del luogo dove esse crescono.
Per il curandero, infatti, ciascuna specie vegetale usata nella fitoterapia andina-amazzonica possiede due qualità specifiche: una intrinseca alla specie, ed è il potere della pianta; un’altra indotta dal luogo dove cresce.
Alla virtù intrinseca della pianta ed alla virtù del luogo ove essa cresce occorre aggiungere un terzo elemento che proviene dal curandero stesso: il suo potere, che funge da catalizzatore dei poteri della pianta, li esalta e li mette a disposizione del paziente (22).
In sintesi, quindi, nella medicina tradizionale andino-amazzonica una specie vegetale è considerata pienamente efficace dal punto di vista terapeutico, quando riassume in sé questi requisiti essenziali:
– potere della pianta
– potere del luogo dove cresce
– potere magico del curandero.

Esaminiamo ora uno schema di trattamento con piante medicinali dell’area andino-amazzonica, così come è proposto in alcuni Centri e Cliniche del Sud America, ove si cerca di attuare un’integrazione tra la medicina ufficiale e la medicina tradizionale.
Si parte, come sempre, dalla storia clinica minuziosa del paziente del quale si approfondisce non solo l’aspetto organico ma anche quello psichico.

Le fasi terapeutiche da seguire sono tre:
A – Fase Depurativa
B – Fase Curativa
C – Fase Preventiva

A – La Fase Depurativa è basilare nella medicina tradizionale, poiché il suo obiettivo è quello di disintossicare l’organismo, regolare le sue funzioni e prepararlo per una migliore utilizzazione delle piante curative in modo da ottimizzare la successiva azione terapeutica. È indispensabile in questa prima fase consigliare una dieta bilanciata, esente da tossici, da adeguare al quadro clinico del paziente.
Tra le piante depurative che vengono impiegate è utile ricordare:

Canchalagua (Pectis trifida), efficace nel trattamento dei processi eruttivi.
Cola De Caballo (Equisetum giganteum), disinfiammante e diuretico. Questa fase depurativa può durare da 30 a 45 giorni sempre in relazione al quadro clinico da trattare.
Flor De Arena (Tiquilia paronychioides), che aiuta ad eliminare l’eccesso di acido urico.
Hercampuri (Gentianella alborosea), pianta depurativa e colagoga presente sulle Ande tra i 2.500 e 4.300 metri. In lingua inca significa «colui che va da un villaggio all’altro» per intendere quei guaritori itineranti che portavano con se le erbe curative. Oggi è molto usata anche nelle diete dimagranti per la sua azione ipocolesterolemizzante.
Manayupa (Desmodium sp.), pianta diuretica e disinfiammante che purifica l’organismo soprattutto dalle tossine esogene provenienti da alimentazione inadeguata, contaminazioni ambientali, intossicazioni da farmaci.
Sanguinaria (Alternathera halimifolia) che favorisce la circolazione.

 

B. La Fase Curativa consiste nella somministrazione di piante specifiche per ciascuna infermità. Queste sono dosate in forma individualizzata e per periodi limitati.

Tra le piante che agiscono sul tratto digestivo vanno ricordate:
Carqueja (Baccharis crispa), nella gastrite;
Paico (Chenopodium ambrosoides), come antiparassitario;
Agracejo (Berberis sp.), nella litiasi;
Sen (Cassia angustifolia), purgante non irritante;
Pajarrobo (Tessaria integrifolia), tonico epatico.

Tra le piante che agiscono sull’apparato respiratorio ad azione broncodilatatrice vanno ricordate:
Mullaca (Muehlenbeckia vulcanica);
Huamanripa (Senecio tephrosioides);
Borraja (Borrago officinalis);
Asmachilca (Eupatorium triplinerve), indicata nelle crisi asmatiche;
Eucalipto (Eucaliptus sp.) e Retania (Spartium junceum), impiegate sotto forma di inalazioni per liberare le vie respiratorie e con notevole azione antibatterica;
Choquetacarpo (Spergularia ramosa), proposta nel trattamento della tubercolosi polmonare.

Altro gruppo importante è costituito dalle piante ad azione antinfiammatoria con particolare effetto sull’apparato genitourinario e riproduttore:
Flor Blanca (Buddleja incana);
Hierba Juan Alonso (Xantium spinosum);
Llanten (Plantago mayor e Plantago hirtella);
Tornillo (Thymus sp.);
Muña-Muña (Minthostachys setosa);
Cuti-Cuti (Notholoenia nivea), pianta usata nel trattamento del diabete è il stimolando le cellule beta che oltre a diminuire la glicemia favorisce la funzione pancreatica.

Per quanto riguarda il sistema nervoso, oltre alle classiche piante sedative usate ormai in tutto il mondo come:
Valeriana, Camomilla e Passiflora. Un ottimo tonico è considerato il Marcco (Franseria artemisioides).

C – La fase preventiva consiste nel seguire un’alimentazione corretta, nel sottoporsi a cicli depurativi periodici e nell’utilizzare piante capaci di stimolare e migliorare le proprie capacità difensive.
Guayacan (Tabebuia heteropoda) ed Uña de Gato (Uncaria tomentosa), che potenziano il sistema immunitario. Quest’ultima, in particolare, preziosa fonte di principi attivi, attualmente impiegata in moltissime formulazioni in tutto il mondo.
Maca, per potenziare la sfera sessuale e genito-riproduttiva;
Caigua, nella prevenzione delle dislipidemie.

– Le religioni brasiliane