Il Voodoo o Vudù

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Vodun, conosciuto anche come Voodoo, Hoodoo o Vudù, ebbe origine e fu inizialmente praticato negli ambienti caraibici dell’isola di Haiti, ma si estese poi in tutta la regione caraibica, incluse la Giamaica e Trinidad. I fondamenti sono le religioni Yoruba originarie dell’Africa Occidentale, che gli schiavi portarono con sé ad Haiti. Il termine Vodun deriva da Vodu, che significa «spirito» o «divinità» nell’antico linguaggio dei Dahomey (16).

Ad Haiti, le credenze africane Yoruba si mescolarono ben presto alle credenze cattoliche degli abitanti francesi dominanti, per formare una religione sincretica, il Vudù. I bianchi proibivano agli schiavi l’esercizio della loro religione e li battezzavano come cattolici. Al cattolicesimo imposto con la forza e la violenza i nativi risposero praticando i loro riti e le loro credenze in segreto. Divinità tribali, o Loa, presero quindi forme di santi cattolici. I fedeli stessi percepirono questo mutamento come un arricchimento e progresso della loro fede ed inclusero nei loro rituali statue cattoliche, candele e reliquie sacre. Ancora largamente praticata ad Haiti, il Vudù è migrato quindi in molte altre parti del mondo, soprattutto nel Nordamerica; folte comunità esistono a New Orleans, Miami e New York. Ognuna di queste comunità ha generato quindi nuove evoluzioni di Vudù. Si stima che in tutto il mondo si potrebbero contare attualmente anche cinquanta milioni di seguaci.
Il Vudù è caratterizzato prima di tutto da una fede nei Loa. I devoti credono che tutte le cose servono i Loa e così, per definizione, sono espressioni ed estensioni della divinità. I Loa sono molto attivi nel mondo e spesso «possiedono» letteralmente i devoti durante i rituali, durante i quali i fedeli fanno loro delle offerte per nutrirli, ma anche per evocarli per aiuti o fortune. I praticanti si riuniscono in una comunità, chiamata Société. Questa si riunisce attorno ad un Hounfort, dove sono eseguiti i rituali da un sacerdote o una sacerdotessa, chiamati rispettivamente Houngan e Mambo. Le Sociétés sono molto compatte e garantiscono una struttura organizzativa centrale alle piccole comunità ad Haiti.
Essendo una religione molto malleabile, le credenze e le pratiche Vudù possono variare enormemente da comunità a comunità anche nella stessa Haiti. Diversamente da molte altre religioni Caraibiche basate sulla originale religione africana Yoruba, il Vudù ha un sistema di credenze molto ampie e altamente sviluppate, legate alla parte «oscura» dei Loa e degli esseri umani.
È praticata anche la magia nera da sacerdoti chiamati Bokor e da società segrete che si sono allontanate dalle principali comunità Vudù. Pozioni, erbe, droghe, funghi, hanno la funzione non solo di consentire di raggiungere l’estasi, la trance, ma anche di tenere sotto controllo i seguaci e sottometterli. Nella iniziazione Rites of Passage (17), viene eseguita sugli adepti una «incisione», che diventa quindi elemento di riconoscimento, sulla quale, in cambio di offerte, vengono strofinate piante secche danno la protezione della divinità. Il sacerdote esegue quindi una serie di operazioni magiche che includono l’uso di polveri che contengono farmaci e resti di animali come il pesce palla (che contiene tetradotossina, veleno paralizzante estremamente tossico), molluschi gasteropodi della famiglia dei Conidi, ed il rospo (che contengono bufotenina e serotonina, potenti allucinogeni). Sono queste le «polveri» che creano lo stato di zombie, uno stato catatonico durante il quale il battito cardiaco della vittima cala drasticamente.
Le piante utilizzate per costruire il Baridda (ciò che spazza via la malattia) sono costituite invece da limoni, uova o fiori. La Florida Water (L’Acqua Florida) (17), sostanza usata nei riti di purificazione, è in realtà un «profumo» costituito da vari oli floreali e alcool.
L’uso di erbe medicinali (Plantas Medicinales) costituisce la tecnica curativa primaria usata dal Curandero. La conoscenza specialistica delle erbe consente di utilizzarle non solo a scopo curativo, ma anche come piante magiche, capaci di fornire energia e vibrazioni.
Le piante adoperate nei rimedi domestici Remedios Caseros vengono adoperate con infusi, polveri, oli e persino saponi. Fra questi è noto l’uso dell’estratto della ruta, pianta abortiva che stimola l’utero provocando l’espulsione del prodotto del concepimento, ma anche tossica per il sistema nervoso, i reni ed il fegato della madre. Aborti con decesso anche della madre per assunzione di decotti di Ruta, Sabina e Prezzemolo (che contiene apiolo) sono stati osservati nel meridione d’Italia sino agli anni Settanta.

– Lo Sciamanesimo e Curanderismo

Religioni di Palo e del Congo

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Il Palo Mayombe è una tradizione che proviene dal Congo ed è stata portata a Cuba nel triste periodo della tratta degli schiavi. Come la più famosa Santeria, o il Vudù o altre tradizioni di origine africana trapiantate nella diaspora, ha una struttura sincretica, ossia si è mescolata al cattolicesimo dando origine ad una curiosa mescolanza in cui dietro santi cattolici si vengono a celare antichi spiriti africani. Nel Palo Mayombe questi spiriti sono chiamati Mpungos e sono considerate le manifestazioni del Dio unico Nsambi.

Il termine palo significa albero, legno e fa riferimento alle piante utilizzate nella ritualistica di questa corrente spirituale. Mayombe invece è un’area dell’Africa in cui questa spiritualità era praticata da secoli.
La figura del palero è intimamente associata a quella della nganga o prenda, una sorta di Calderóne/ricettacolo in cui sono contenute terre, frammenti di animali, minerali, metalli, paletti di alberi differenti (i famosi 21 palos) ed ossa di morto.
Anche in questa religione magica si ritrovano piante quali: basilico, ambrosia, Cassia bifora, Petivera alliacea, Guaiaco officinalis, Ficus nitida e Sandalo indiano.

– Il Voodoo o Vudù

La Santeria

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Le religioni caraibiche sono simili per credenze e rituali. A Cuba, una religione sincretica chiamata Santeria si evolse dalla mescolanza tra credenze Yoruba e credenze cattoliche spagnole.

Accanto alla Santeria compare la religione Palo Mayombe nella quale si usano bracieri con rametti, resti di animali e teschi umani, e persino mercurio metallico, quest’ultimo con gravi rischi di gravi intossicazioni (4, 14). In alcune di queste tradizioni le erbe sono valutate sia per il loro potere magico sia per le loro proprietà medicinali. Il tabacco (Nicotiana tabacum), per esempio, è impiegato per la divinazione in molte colture americane, fra cui le religioni rituali di Santeria e Vudù, al pari di altre erbe fra le quali l’Aglio (Allium sativum) ed il Peperoncino della Caienna (Capsicum frutescens).
Molte sono le piante adoperata nella Santeria, soprattutto a scopo terapeutico: anice, basilico, camomilla, maggiorana, maravilla, menta. Più interessanti sono quelle adoperate nei rituali magici: Canfora (per allontanare il diavolo), Stipola (Nyctaginaceae Boerhavia Diffusa) per predire il futuro, Espartillo (per scacciare i demoni).
Una miscela adoperata a Cuba dai Curandero a scopo curativo è costituita da svariate piante, quali tabacco (Nicotiana tabacum), Banana (Musa spp.), Girasole (Helianthus annuus), Simarouba glauca DC e laevis (syn. Quassia, fam. Simaroubaceae). Tali piante sono in realtà un semplice prodotto contro le pulci (15).

– Religioni di Palo e del Congo

La Wicca

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Nel 1920 l’archeologa Margaret Murray pubblica due libri di successo «The Witch Cult in Western Europe» e «The God of the Witchess». L’ipotesi di Murray era che le streghe europee erano parte di una linea sopravvissuta al folclore magico.

Nel 1949, l’inglese Gerarld Gardner pubblica una fiction «High Magic’s Aid» e successivamente un libro di successo «Wittchcraft Today» che descrive, come se fossero reali, il mondo Wicca e le sua pratiche esotiche.
Oggigiorno si riconoscono varie correnti Wicca, soprattutto nel Nord America: Alessandriana, fondata da Alex Sanders, usa la nudità rituale nelle cerimonie ed adotta rituali molto complessi; British Traditional Wicca, trae origine da Gerald Gardner e Alex e Maxine Sanders; Celtica, focalizzata sul Panteon degli dei e delle pratiche druidiche delle isola britanniche; di Diana, focalizza la superiorità della donna; Eclettica, aperta a varie fedi di cui assorbe rituali e filosofie; Gardneriana, fondata da Gardner, è una delle più diffuse nel Nordamerica, focalizzano il culto del dio e della dea riconoscendo alla dea la maggiore importanza; Giorgiana, fondata nel 1971 in California da Gorge Patterson incoraggia gli adepti agli studi magici; Wicca ereditaria, tramandata oralmente nell’ambito della stessa famiglia; Mohsian tradizionale, fondata nel 1960 come una tradizione americana eclettica che si rifà alla Gardenaria ed allo shamamismo europeo, con influenze celtiche; Stregoneria tradizionale, fondata da un italo-americano, Raven Grimassi, perpetua la tradizione della stregoneria italiana.
La Wicca può essere definita come una sorta di nuova religione magica neopagana che si basa sul culto della dea e del dio dotati di corna, fondata da Gardner nel 1947 (11). Vi sarebbero ricomprese, inoltre, alcune correnti femministe che adorano esclusivamente la dea (quasi tutti gli adepti della Wicca sono infatti donne) (12).
La religione ha introdotto il concetto dell’autoiniziazione; una novità nell’universo magico esoterico. Un neoadepto può entrarvi a far parte mediante un rito di iniziazione solitario (13). Molto importante nella Wicca è anche l’esaltazione della figura e del ruolo della «strega» intesa come adepta della dea dalla quale riceve i poteri magici. Altri importanti precetti sono: la credenza nella reincarnazione; l’importanza della magia e dell’astrologia; la convinzione che il mondo sia stato creato dalla dea e non da una divinità maschile; la credenza nell’esistenza di fate, gnomi, ed elfi; la convinzione che le donne sono superiori agli uomini in quanto sono gli esseri più vicini alla perfezione della dea; l’accettazione e l’esaltazione dei rapporti lesbici.
La Wicca sembra aver ottenuto un grande successo negli ultimi 20-30 anni. Dal momento che molti wiccan mantengono segreta la loro appartenenza a tale religione e poiché esiste anche il rituale dell’autoiniziazione, il numero reale dei wiccan è probabilmente superiore a quello riportato nelle statistiche ufficiali (13). Il Pellegrino, cercando di dare una spiegazione sociologica dell’aumento del numero dei wiccan, sottolinea la presenza di una costellazione di fattori psicosociali, quali: il grande interesse per la magia e per l’astrologia; il ruolo di Internet (molti sono i siti della Wicca); il grande spazio che in molte nazioni i mass-media dedicano alla Wicca; il numero crescente di libri dedicati; il soggettivismo religioso; la presenza di tematiche femministe, ecologiste; il desiderio di avere contatti con la dimensione soprannaturale senza accettare limitazioni di carattere morale; il ritorno di una mentalità chiaramente neopagana. Da sempre propellenti in grado di scatenare tali processi sono l’uso magico dell’erotismo, o magia sessuale e l’assunzione controllata di droghe.
I wikka coltivano l’aromaterapia mediante l’uso di miscele di oli con l’intento di ridurre lo stress e l’ansietà.

 

Erbalismo Wicca

L’amore della natura unito al rispetto degli antichi culti ha fatto sì che i Wicca inserissero nei loro rituali magici e nelle loro pratiche curative le piante aromatiche, officinali e le piante considerate sacre nelle antiche religioni.
Numerosissime sono le piante adoperate dai Wikka nelle loro pratiche rituali. Di seguito sono riportate le più comuni piante adoperate e l’uso magico delle stesse, tralasciando gli effetti farmacologici, pur da loro presentate.
È da considerare però che l’uso improprio e l’assunzione di talune piante può portare tuttavia ad una serie di effetti, anche molto diversi fra loro serie intossicazioni.

Di seguito è riportato in breve il significato magico delle piante adoperate nei rituali wicca rinviando ad altro momento il rituale del loro uso attuale e nell’antichità.

Acacia (Gomma arabica), usata per purificare.
Alloro, per le visioni, chiaroveggenza e profezie.
Artemisia vulgaris, posta nel cuscino facilita sogni profetici.
Atropa (Atropa Mandragora), come amuleto per protezione. Il thé preparato con le radice produce allucinazioni.
Basilico, per la fedeltà.
Bardana, protegge, dona ricchezza.
Benzoino, la resina è bruciata per favorire un lavoro astrale.
Boswellia (Frankincese, Incenso), la resina è bruciata per purificare un area e dare protezione.
Cacao, come afrodisiaco, euforico, contro la depressione, riavvicina l’amato.
Camomilla, usata nei rituali per dare pace e rilassamento.
Cedro del Libano, per la purificazione, la ricchezza e la protezione.
Cicuta (Conium maculatum), assiste nelle pratiche astrali e nelle pratiche di purificazione rituale.
Finocchio selvatico, usato per allontanare le energie negative.
Ortica, l’erba seccata è usata come amuleto per rimuovere una maledizione e rinviarla indietro. Cosparsa intorno alla casa tiene il male. Una delle nove erbe sacre della cultura anglosassone.
Sandalo (Sandalo citrino), bruciato come un incenso aumenta le capacità nelle pratiche magiche e nella divinazione e nel lavoro con gli spiriti.
Timo, contro la tristezza e per attirare l’amore.
Verbena, viene adoperata nella divinazione e nella profezia.

– La Santeria

Neopaganesimo eterodosso o eclettico

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Il termine pagan deriva da un antico termine inglese pagani ed indica gli abitanti delle zone agricole che indulgevano in pratiche agricole, salutistiche e religiose, e che davano elevato risalto alle forze della natura, sia distruttive sia benefiche. Forte era il legame fra l’uomo e la natura; magico era semplicemente il potere della natura. I primi «pagani» osservavano le fasi della luna e le sue influenze sul raccolto ed il comportamento degli uomini. Gli uomini invocavano il «dio della caccia» per garantirsi un buon numero di prede; le donne, in particolare le estetiche, invocavano l’assistenza durante il parto.

Il neopaganesimo è una realtà spirituale legata alla natura, al cosmo, agli dei. Interessante è la definizione di Neopaganesimo eterodosso o Neopaganesimo eclettico che si ritrova su wikipedia (10) «insieme di religioni neopagane propriamente dette, ovvero quelle correnti che non si rifanno ad una precisa religione antica, ma operano in un contesto di sincretismo ed eclettismo, mescolando elementi vari tratti dagli antichi culti a nuove dottrine e talvolta a precetti tratti dalle religioni abramitiche. Forme eterodosse del Neopaganesimo sono considerabili il Correllianesimo, il Paganesimo ebraico, il Peyotismo (sebbene non sempre considerato neopagano) e la Wicca. La dottrina di queste religioni si oppone a quella delle religioni gentili, secondo cui il modo migliore per ridonare vita alle antiche religioni pagane è il riproporle nella loro integrità etica e ritualistica».

Attualmente il Neopaganesimo include diverse religioni, quali: Asatru (Aesir = dio; true = vero) revival dell’era wikinga e delle religioni nord-europee (Scandinavia) prima del cristianesimo; il Druidismo, insegnamento e rituali druidici celtici; lo Shamanismo, presente in varie religioni mistiche dove lo sciamano entra in contatto con gli spiriti con il rito ed il sogno; la Wicca, revival e continuazione delle pratiche europee delle streghe dove sono venerati la dea Goddess e il consorte Great Hoened God.
Sulla base di queste tradizioni sono nate una serie di associazioni e gruppi esoterici derivanti dal Neopaganesimo, tra cui la più diffusa è la Wicca.

– La Wicca

La New Age

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New Age (letteralmente: Nuova Età) è un’espressione che indica un vasto movimento culturale che comprende numerose correnti psicologiche, sociali e spirituali sorte nel XX secolo, accomunate dall’ideale dell’avvento di un «mondo nuovo» o di una «nuova era», indicata astrologicamente come età dell’Acquario (l’età attuale è detta dei Pesci) (8). Si tratta di una rete di ricercatori e gruppi spirituali o scuole, di maestri e terapeuti (a volte chiamati guru, guaritori o semplicemente «facilitatori») e altre figure analoghe (detti new agers). In prospettiva new age ogni individuo, avendo un’origine divina, sarebbe impegnato nel costruirsi un cammino spirituale di risveglio (o di «Ritorno a Casa»). Per raggiungere tale «Risveglio spirituale» i seguaci fanno riferimento alla tradizione mistica e religiosa, inclusi lo sciamanesimo, il neopaganesimo, la cabala e l’occultismo, ma soprattutto si basano sulla propria esperienza interiore e su quello che i seguaci chiamano il «sentire intuitivo». Un aiuto in questo «cammino» è fornito da guide, guru o maestri e da pratiche quali la meditazione, lo yoga, corsi di occultismo e pratiche tantriche. Anche l’utilizzo di droghe allucinogene, secondo gli adepti, contribuirebbe a raggiungere «vie permanenti di illuminazione», un’amplificazione dei processi mentali e una trasformazione della propria coscienza.

La Ferguson nel suo libro «The Aquarian Conspiracy», a riguardo dell’effetto dovuto all’assunzione di Lsd, mescalina, peyote, funghi psylocibe (contenenti psilocibina), afferma: «A differenza degli stati mentali prodotti sognando o bevendo, la consapevolezza psichedelica non è confusa ma molte volte più intensa che la normale coscienza sveglia. Solo tramite questo stato intensamente alterato alcuni diventarono pienamente consapevoli del ruolo della coscienza nel creare la loro realtà di tutti i giorni» (9).
Tuttavia, gli effetti che producono tali sostanze sono tutt’altro che positivi con comparsa di fenomeni di depersonalizzazione, di alterazione dello schema corporeo, accompagnate da intensa sintomatologia ansiosa e di arousal (reattività del sistema nervoso che indica la relazione tra intensità dello stimolo e ampiezza della risposta).

– Neopaganesimo eterodosso o eclettico

Magia e religione oggi

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Storicamente tra le diverse religioni, si verifica una sorta di osmosi tra riti, credenze, tradizioni e saperi. Questo, si ipotizza, il motivo per cui nelle diverse religioni troviamo aspetti di sincretismo, anche per quanto riguarda l’utilizzo delle sostanze.

A tal proposito si riconoscono tre movimenti religiosi sincretici con il cristianesimo: la Chiesa Nativa Americana degli Indiani del Nord-America, che usa il cactus del peyote; il Buiti dei Fang dell’Africa equatoriale occidentale, che usa l’iboga; il Santo Daime delle popolazioni rurali e urbane del Sud-America, che usa la bevanda allucinogena dell’ayahuasca.
Nello sciamanesimo ecuadoriano, in particolare, è presente la «datura» (Yerba del diablo), che suscita allucinazioni, estasi, senso di forza e onnipotenza; viene data anche ai bambini difficili perché si crede che, dopo l’assunzione, gli spiriti degli antenati tornino a sedarli (ai bambini che per paura del buio non trovavano sonno e piagnucolavano senza sosta, la «guaritrice» della tribù applicava come supposta un pezzo di foglia grande come la metà di un francobollo).

Un’altra pianta allucinogena diffusa in Ecuador è il San Pedro: un cactus i cui principi attivi sono utilizzati per mettere in uno stato di trance estatica gli sciamani e illuderli di dialogare con il mondo degli spiriti e delle divinità.
L’utilizzo di sostanze «magico-esoteriche», ancora non proibite nel nostro Paese, sta prendendo piede anche in Italia e in Europa. La maggior parte degli officianti, infatti, vende alle proprie vittime preparati di origine americana, africana e asiatica per vivere esperienze paranormali o guarire malattie, anche le più gravi. Il 32% delle vittime afferma di essere stato invitato dal «santone» ad ingerire sostanze di provenienza esotico-esoterica. Il 17% dei «guaritori», inoltre, consiglia ai malcapitati clienti di non assumere farmaci prescritti dai medici. Il 40% delle vittime sostiene di essere stato invitato a non ricorrere più alla medicina tradizionale (7).
Esaminiamo i principali gruppi magico-religiosi che fanno ancor oggi uso di sostanze stupefacenti.

– La New Age

L’uso di «sostanze» nelle antiche religioni

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La storia della magia e della religione sembra segnata da un rapporto stretto con stati alterati di coscienza. Nella letteratura biblica sono comuni, infatti, le visioni, le crisi mistiche ispirate da Dio. La letteratura etnologica è ricca di descrizioni di stati di estasi in diverse culture. Condizioni psichiche infrequenti, come le allucinazioni e gli stati di trance, acquistano un ruolo essenziale nelle religioni di diverse culture. Tali stati sono raggiunti anche ricorrendo a tecniche rituali di gruppo, esercizi respiratori, danze, digiuni o facendo uso di sostanze psicotrope (quali alcool, marijuana, mescalina, etc.), spesso impiegate per indurre modificazioni psichiche e comportamentali, cui sono attribuiti valore e significato religioso.

Nelle società primitive lo sciamano (dal russo o tungus saman, un monaco buddista, e dal sanscrito shramana, un asceta religioso) era allo stesso tempo il sacerdote, il dottore, il mago, ed usava pozioni per comunicare con il mondo degli spiriti, per divinare gli arcani segreti della vita e della morte, per curare i malati e per controllare i fatti che influenzavano non solo i singoli individui, ma l’intera comunità.
Tra le prime sostanze usate dagli sciamani in Eurasia e nell’emisfero occidentale ritroviamo i funghi, individuati probabilmente per la loro riproduzione spiriforme, per certi versi «misteriosa» e per i loro effetti allucinogeni. I funghi appaiono piante misteriose: molte specie (Psilocybe, Amanita ecc.) nascono da spore praticamente invisibili, raggiungono un’altezza anche di venti centimetri in meno di una settimana e possiedono principi psicotropi che rimangono attivi per lunghi periodi, anche se seccati e conservati.
In Cina, nel Medio Oriente, nel Mediterraneo e in Africa, le prime piante sacre erano rappresentate principalmente da granaglie, uva e palme, da cui si potevano ricavare bevande alcoliche euforizzanti: birra e vino (l’uomo ha inventato prima le bevande alcoliche e poi il sapone!). Canapa, coca, papavero da oppio e tabacco sono tra le più antiche piante coltivate dall’uomo. In America latina ritroviamo il Peyotl, cactus senza spine che cresce nell’arido deserto. Grazie al suo contenuto di mescalina, la pianta procura una condizione allucinatoria e rende l’uomo in grado di superare la fame e la stanchezza provocandogli viaggi onirci e visioni fantastiche molto vivide. La pianta, recisa e apparentemente morta per lunghi periodi di tempo, sembra rinascere alla vita attiva se immersa in acqua per una notte; da qui probabilmente il più antico concetto di rinascita e resurrezione, di poteri soprannaturali e di vita eterna, concetti che sarebbero presenti in diverse religioni.
La più antica religione sulla terra di cui si conservano testi completi è la religione vedica in India, del secondo millennio a.c., che si sviluppò dallo sciamanesimo dell’Asia centrale. Comprendeva inni e riti che entrarono a far parte degli inni sacri mantrici della religione indù, tuttora osservati dai Bramini. Il rituale mantras prevedeva l’utilizzo di una pianta particolare: la pianta di «soma», di cui si è persa la conoscenza. Molte piante sono state proposte come l’originale soma, compresi il rabarbaro, la lattea (Sarcostemma bevistigma), la canapa e la ruta siriana (Peganum harmala). L’identificazione più plausibile è stata fatta da Wasson (6) che postulò trattarsi del fungo Amanita muscaria.
In seguito si cercarono dei sostituti e lo yoga venne inglobato nella religione indù nel tentativo di riconquistare, attraverso la meditazione, le visioni indotte dal soma.

– Magia e religione oggi

Religione, magia e religioni magiche. Viaggio nella profondità dell’io

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I movimenti magici pur avendo poche migliaia di aderenti in Italia, rappresentano tuttavia la punta di un iceberg che ha dimensioni molto più vaste: il cosiddetto «ritorno della magia», che porta numerosissime persone a rivolgersi a maghi a pagamento, indovini, cartomanti, ed a credere nell’efficacia delle pratiche magiche. Anche il rinnovato interesse per la magia è un sintomo della crisi della modernità e del passaggio al postmoderno. Alla fine del secolo scorso lo studio del successo relativo di alcuni nuovi movimenti religiosi (e del declino di altri) ci indica quali sono le credenze «alternative» più diffuse oggi: un’attesa ansiosa della fine del mondo, la speranza che dopo la morte ci sia un’«altra possibilità» con la reincarnazione (tipica dei movimenti orientali), una «spiritualità del Sé» dove l’uomo non è più creatura ma creatore (che incontriamo in alcuni gruppi), e anche un complesso insieme di credenze magiche. Se gli aderenti ai movimenti magici organizzati sono pochi, in Italia più di un giovane su cinque dichiara di avere partecipato a sedute spiritiche, oppure crede nell’efficacia della magia e nella possibilità di comunicare con l’aldilà. Quell’uno per cento che appartiene ai nuovi movimenti religiosi ci dice allora molte cose su quali credenze, paure, fantasmi vivono in quel Far West della religione costituito dal cinquantasei per cento degli italiani, che dichiarano di credere ma non sanno o non vogliono precisare in che cosa credono.

Il pensiero della Chiesa. Le nuove religioni hanno apportato ai grandi concetti del cristianesimo profonde sostituzioni: 1) l’illuminazione interiore prende il posto della fede che è obbedienza di tutto il nostro essere a Dio; 2) la liberazione del proprio potenziale creativo prende il posto della salvezza; 3) la preghiera si trasforma in un viaggio nelle profondità dell’io; 4) una «vaga armonia» con l’universo rimpiazza il richiamo concreto all’impegno sociale; 5) la teologia è spodestata dalla psicologia o dalla teosofia; 6) la rivelazione si trova più nel cuore della persona che nella storia. Tutto questo può servire a «sentirsi meglio» per qualche tempo. Ma non dà valide risposte a problemi tragici quali la sofferenza, la morte, né a condurre all’amore, alla vera gioia, alla pace profonda» (Card. Paul Poupard, in Jesus, ottobre 1993, pp.118-119).

Obiettivo del presente lavoro è tuttavia quello di segnalare le «religioni magiche» oggi esistenti ed evidenziare, quando presente, l’impiego di sostanze tossiche o psicotrope e descrivere infine le piante «vietate» che possono essere adoperate o somministrate agli adepti.

Per molto tempo magia e religione sono convissute mutuando e rivisitando scambievolmente rituali e pratiche. James Frazer (1) nel suo saggio «The golden bough» (Il ramo d’oro) sostiene che l’evoluzione dell’uomo è passata attraverso tre fasi: magia, religione e scienza. Quando l’uomo, agli albori della civiltà, non riusciva a dare un senso ai fenomeni della natura ha cercato di spiegarli dapprima con la magia, poi, nel corso dell’evoluzione, con la religione e, infine, nell’età moderna, con la scienza. Dunque magia, religione e scienza sono legate tra loro da un filo comune: l’uomo e la fragilità del suo essere al mondo.
Il termine magia rimanda a saperi, conoscenze, tematiche attraverso cui poter influenzare gli eventi naturali che sovrastano l’uomo; dominare i fenomeni fisici che sfuggono al suo controllo; dominare l’uomo stesso. L’etimologia del vocabolo «magia» (in greco Mαγεία) rimanda d’altronde al termine con cui venivano indicati i «magi» (Mάγοι), gli antichi sacerdoti Zoroastriani (2).
La magia sembra accompagnare l’uomo nelle sue diverse epoche storiche, da quelle meno evolute fino ai giorni nostri. Ricorrono a pratiche magiche sia classi sociali più svantaggiate, per le quali la magia potrebbe costituire un surrogato simbolico che soddisfi i bisogni primari frustrati, sia classi sociali più privilegiate, per le quali potrebbe costituire corollario delle proprie aspirazioni di controllo e di dominio (3).
Magia e religione si pongono entrambe di fronte al mistero della creazione e della esistenza della divinità, cercando di fornire risposte esaustive. Talvolta, non è facile tracciare una separazione netta fra magia e religione: spesso esse si fondano fino a creare rituali e gesti comuni ancora oggi in uso. Rituali, rintracciabili sin dall’antichità nelle diverse chiese e confessioni e sovente usati ancora oggi.
Sostanzialmente sovrapponibili i sentimenti sottesi: la paura, il desiderio di dominare gli eventi naturali o quello di facilitare le difficoltà della vita quotidiana (rituali per la caccia, la pioggia, i raccolti; un dio che interceda e garantisca prosperità). Riti che presuppongono officianti in grado di realizzarli in maniera efficace: il sacerdote del culto, o il «mago», che spesso sostiene di entrare in contatto con il soprannaturale, con il divino, ricorrendo a rituali e formule magiche.
Parte integrante del rito, a volte ritenuta fondamentale per raggiungere l’entità invocata, è l’uso di «sostanze» in grado di avvicinare l’officiante e, tramite lui i partecipanti, alla divinità superiore (4). Nelle culture prescientifiche del Terzo Mondo, ad esempio, le sostanze vengono utilizzate per entrare in contatto con le forze sovrannaturali, per porsi sotto la loro protezione, ma anche per favorire il raggiungimento di fini particolari come, per es., guarire delle malattie, pronosticare il futuro, proteggersi da sortilegi o da nemici dell’intera comunità (5). Questo è vero soprattutto nel caso delle «religioni magiche»; sono religioni, perché il divino è correttamente concepito come onnipotente o trascendente in rapporto al mondo e all’uomo, ma sono magiche nella misura in cui le finalità che si prefiggono restano immanenti al mondo. Inoltre, l’uso rituale di piante psicoattive, presenti in diversi riti, contribuiscono probabilmente a rinsaldare il rapporto tra l’officiante e gli adepti, provocando peraltro, in alcuni casi, effetti di cui gli adepti potrebbero non essere consapevoli. Di qui il dubbio che siano proprio i diversi effetti sulla psiche quelli ricercati nella scelta ed utilizzo delle sostanze all’interno di riti da parte degli officianti.

– L’uso di «sostanze» nelle antiche religioni

Le risposte del Wwf alle accuse di Survival

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Consideriamo inaccettabili i toni e le immagini usate da Survival contro il Wwf. Una campagna che non possiamo più tollerare, gravemente lesiva del ruolo, della storia e della dignità del Wwf che da sempre difende i diritti umani proteggendo la natura, in particolare nel bacino del Congo, impegno supportato negli ultimi anni dal Wwf con costanza e convinzione. Respingiamo quindi ogni accusa, e siamo sereni e sicuri che l’indagine avviata dall’Ocse servirà una volta per tutte a mettere a tacere una campagna diffamatoria e strumentale che Survival International ha lanciato nei confronti del Wwf. Oggi si aggiunge a questa triste vicenda la pagina più triste, l’uso strumentale di foto di bambini e di altri rappresentanti della comunità Baka che niente hanno a che fare con la nostra attività e totalmente inconsapevoli della strumentalizzazione che viene fatta della loro immagine. Questo non è accettabile.

Siamo certi che l’impegno che da oltre 30 anni il Wwf combatte al fianco delle comunità delle foreste contro gli interessi criminali di bracconieri e multinazionali nel bacino del Congo sarà riconosciuto e difeso. L’obiettivo del Wwf non è solo quello di proteggere uno dei luoghi più ricchi di biodiversità ma è di farlo insieme e per le comunità che vivono nelle foreste. Senza i Baka il nostro lavoro non sarebbe riuscito a frenare gli interessi di chi vuole rubare alle comunità locali risorse naturali, terra e diritti. In risposta alle gravi accuse mosse da questa nuova campagna di comunicazione il Wwf ribadisce che la propria azione sul territorio con le popolazioni Baka si svolge in modalità diametralmente opposta e lontana da quello che viene raccontato da Survival: questa associazione continua cioè a puntare il dito contro l’obiettivo sbagliato. Se nelle attività di controllo antibracconaggio realizzate dal governo camerunense anche con l’aiuto economico del Wwf si sono verificati degli illeciti saremo i primi, e senza sconti, a chiedere che sia fatta piena luce su eventuali violazioni dei diritti umani.

Quella che Survival conduce da anni contro il Wwf è una campagna diffamatoria nei confronti della quale il Wwf agirà a tutela della propria immagine e a difesa del lavoro che quotidianamente conduce in difesa della natura e del pianeta. Il Wwf, in qualsiasi parte del mondo, ha sempre messo in primo piano i diritti umani e la difesa delle popolazioni con le quali vengono regolarmente sviluppati e attuati tantissimi progetti di conservazione: senza l’affiatamento e la collaborazione con i Baka nel bacino del Congo, con gli Inuit nel circolo Polare Artico o con i Sionas in Amazzonia non avremmo potuto realizzare nulla di concreto per la conservazione della natura. Se ci viene segnalato il sospetto che possa esserci qualcosa che lede i diritti delle comunità con cui lavoriamo, noi ci attiviamo in tutti i modi per impedire che ciò avvenga: dunque, fare illazioni sul fatto che il Wwf si preoccupi solo di natura tralasciando gli interessi delle comunità locali è una vera e propria operazione diffamatoria. Per il Wwf il benessere delle comunità e la conservazione della natura sono tutt’uno. Non ci sono differenze o confini.

Per queste ragioni oltreché per la scelta di comunicazione da parte di Survival estremamente strumentale e forzata, il Wwf sta valutando a livello internazionale e nazionale una risposta adeguata.
Alle accuse contenute nella campagna di Survival il Wwf risponde aggiungendo anche la testimonianza diretta del direttore dell’Ufficio Regionale Wwf per l’Africa, Frederick Kumah: «Negli anni di lavoro in Camerun il Wwf ha operato a stretto contatto con i Baka e altre comunità locali per creare aree protette e nel fare questo abbiamo fortemente sostenuto i diritti delle popolazioni indigene. Il Wwf ha lavorato strenuamente per ottenere un migliore riconoscimento e l’affermazione dei diritti dei Baka. Ci rendiamo conto che c’è ancora molto lavoro da fare per migliorare le condizioni per i Baka in Camerun e per questo abbiamo sollevato la questione con il Ministero camerunense delle foreste e della fauna selvatica, sottolineando la necessità sia di migliorare i meccanismi per l’accoglienza e la risoluzione di casi di presunti conflitti o abusi sia di adottare misure appropriate nei casi riconosciuti, compresi quelli che possono coinvolgere le guardie governative.
«Il Wwf ha provveduto a fornire formazione sui diritti umani per le eco-guardie del governo ed è attualmente impegnata nel sostenere una revisione ministeriale in atto sulla condotta delle Ecoguard, chiedendo che vengano usate sanzioni tradizionalmente adottate dalla comunità e di esplorare ogni possibile collaborazione e attività nella comunità per un migliore controllo. Il Wwf accoglie con favore questa opportunità offerta da una discussione inclusiva in Camerun che porti il miglioramento delle condizioni per i Baka in modo che le persone e la natura possano convivere e prosperare».

Riflettere e valutare insieme

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Le attese tradite e i complicati interessi in gioco

Dobbiamo riflettere sul fatto che l’offerta di un consumo non riguarda solo la produzione di un bene o di un servizio ma anche gli effetti (ai quali è necessario porre rimedio) generati nei processi di produzione e dal conseguente consumo indotto. Per riportare l’economia nel ruolo di strumento di progresso umano, dobbiamo essere, quindi, liberi di individuare e scegliere consapevolmente e con responsabilità quei modelli socio-economici che possono permettere all’uomo di collaborare con (e non contro, con interventi invasivi) gli equilibri naturali.

Dobbiamo riflettere su quella nostra convinzione che la capacità umana di operare (senza limiti e con strumenti sempre più potenti) sia senza conseguenze e in particolare che non abbia effetti sulla nostra sopravvivenza (e non solo su quella qualità della vita che alcuni si sentono in diritto di negare agli altri).
Siamo in una situazione che dovrebbe essere presa in seria e immediata considerazione, perché prevede non solo un tragico epilogo, ma anche un penoso percorso per arrivarci. Un percorso che potrebbe portare, infatti, a comportamenti umani non prevedibili e indotti da un istinto di autodifesa estrema che, già oggi, è culturalmente armato dai micidiali strumenti dell’individualismo. Un male che, nella sua attuale portata, era forse ignoto perfino all’uomo delle più lontane epoche storiche. Quelle nelle quali aveva, invece, cominciato a comprendere e attuare forme, pur primitive, di società e solidarietà umana.
Dobbiamo renderci conto quanto sia devastante il danno prodotto dall’individualismo che è alla base del successo esclusivo perseguito con la competizione e sostenuto dall’ideologia del mercato libero dei consumi. Occultando la funzione sociale dei beni comuni e imponendo il bene individuale, come fondamento unico che attiva e giustifica le opere dell’uomo, questa ideologia ha interrotto il nostro dialogo con gli equilibri naturali e ha generato divergenze sempre più insanabili e contrasti estremi e mortali: da quelli dovuti all’arroganza di un potere che vuole solo avanzare (abbattendo ogni tipo di ostacolo, quelli umani compresi), fino a quelli indotti dai conflitti globali che vorrebbero follemente riordinare il mondo in nome di un’unica e assoluta verità. Condizioni queste che certamente ricadranno fisicamente e moralmente anche sui nostri Territori (ricchi, invece, di diversità di vocazioni, di condivisioni sociali e mentali), fino a precostituire la riduzione delle sinergie fra le diverse qualità umane e un continuo allarme per le deviazioni imposte agli equilibri vitali (con la conseguente loro instabilità, fino ad arrivare al rischio di collasso del sistema Terra).
Dobbiamo renderci conto che non si possono dare ordini alla Natura, ma che con la Natura è necessario dialogare ed entrare in sintonia per creare sinergie. Che senso ha esaltare un’incontrollata nostra potenza, con la quale sfidare la Natura, e immaginare di poterla, così, sottomettere alle nostre volontà, se non siamo capaci di renderci conto che proprio noi ne saremmo del tutto mortalmente coinvolti? Purtroppo, invece, sono molti quelli che continuano ad affrontare, con arroganza e in modo strabico, questo problema.
Nessuno può negare l’incalcolabile danno (e non solo quello derivante dal cambiamento climatico) al quale viene condannata la Natura dall’imperioso dominio imposto dall’economia del mercato dei consumi: ma poi tutti, per invincibili ostacoli strutturali o per ignoranza o per miopi ma potenti interessi di parte, guardano purtroppo altrove. Solo con le parole dei buoni propositi, siamo pronti a impegnarci in proposte e progetti di contrasto al degrado, che affligge Territori e realtà sociali, per costruire possibili e necessarie sintonie con i processi vitali. In realtà la quasi totalità della popolazione mondiale, è colpita da insopportabili contingenze economiche, è sottomessa a disumane prepotenze e vive in condizioni fisiche e morali anche al limite della sopravvivenza. La quasi totalità della popolazione mondiale, non disponendo di informazioni significative e di occasioni di partecipazione democratica alle scelte, rimane paralizzata di fronte all’impraticabilità di scelte alternative o agli invadenti e arroganti meccanismi dell’avvilente competizione e dello spreco di risorse richiesti per sostenere i consumi superflui. In questa situazione, di assoluto degrado che paralizza le qualità umane, vanno a gonfie vele solo i profitti che per una loro «innocente» vocazione (vantata, ma in realtà deviata e abusiva), dopo aver raggiunto i risultati, anche oltre ogni attesa, sono impiegati per finanziare, anche solo indirettamente, interventi armati per poter continuare liberamente a saccheggiare ciò che rimane.
Di fronte a tanto e micidiale strapotere, non possiamo non renderci conto quanto sia essenziale costruire insieme un’alternativa. Non possiamo non renderci conto quanto sia essenziale una consapevole strategia di intelligente condivisione delle risorse (quelle mentali comprese). Dunque, non opportunità che paralizzano i processi vitali per raggiungere successi ideologici e conquiste individuali (che fanno emergere solitari e sterili vincitori in un mare di procurate miserie), ma sostegno a processi di progresso umano diffuso. È, questo, un impegno faticoso ma che certamente non avrà mai il peso di quell’insopportabile consapevolezza tradita che sentiamo quando ci troviamo incatenati ai meccanismi della sopravvivenza fisica e dell’emarginazione sociale, imposti dalle prepotenze della «industria» finanziaria, tutti supportati da deviate e comunque improbabili interpretazioni scientifiche di imprevedibili (ma forse anche deliberatamente preordinate e paludose) complicazioni economiche.

Le attese tradite e i complicati interessi in gioco

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La complessità rimossa degli equilibri naturali

Il rito, che porta periodicamente i capi di governo (dei paesi più impegnati a «fare le cose» per sviluppare un’economia «moderna») al capezzale della Terra, è ormai ridotto a un’impotente e ridondante manifestazione di intenti. Nella sua messinscena sono presenti ottimi studi scientifici, ma anche opacità al limite della malafede, chiare responsabilità e ambigui compromessi, tutto un apparato di uomini, cose e documenti che finiscono in un nulla di fatto affidato alle nostre speranze di una prossima volta. In queste condizioni se qualche progresso dovesse affacciarsi, è probabile che non sia il segno iniziale di un cambiamento virtuoso: se dovessero esserci segni di progresso umano non c’è da sperare automaticamente in qualcosa di buono per il futuro, ma da prendere atto che è solo capitato qualcosa di buono che poteva capitare. Ciò non esclude che queste situazioni, di manifesta impotenza della politica internazionale, possano offrire anche opportunità uniche da valorizzare.

Fino ad oggi, per esempio, le performance liberiste hanno deluso le aspettative della quasi totalità della popolazione mondiale che ha visto, e continua sempre più a vedere, peggiorare le proprie condizioni di vita. La gran parte della popolazione mondiale ha solo «contribuito», con le risorse dei propri territori, con la propria sottomissione ed emarginazione, a un aumento dei consumi nei paesi più sviluppati. La gran parte della popolazione mondiale ha tristemente partecipato solo a una rappresentazione scenica di un presunto benessere di pochissimi suoi simili e all’esaltazione di folle in vana attesa di soddisfare con i consumi un mitico stato di benessere e un conseguente e mal interpretato desiderio di realizzarsi. Non è stato espresso, cioè, un progresso che fosse una diffusa e migliore qualità della vita e delle relazioni, né un progresso che fosse una condivisione dei significati e del senso vitale attribuiti dall’uomo alle risorse e alla loro gestione. Tutte cose, queste, profondamente diverse dalla potenza di un cambiamento, fatto immaginare come risultato spontaneo di una trasformazione decisa e imposta da particolari interessi, per meglio «valorizzare» i Territori e gli equilibri naturali. In realtà un cambiamento per alimentare e far crescere un imprecisato ed equivoco «benessere» che, una convinzione ideologica, vorrebbe imporre come effetto di una crescita «virtuosa» di consumi.
Il fallimento del liberismo, pur non riconosciuto apertamente, e i sacrifici ai quali siamo chiamati, per dare sostegno alle pretese vitali della sua agonia, possono, dunque, spingerci, oggi, a interrogarci sulle possibili e diverse prospettive, imprudentemente trascurate, dell’economia, della gestione delle risorse naturali e dei modelli di vita. Prospettive che possono essere, cioè, più vicine a quelle articolate e autentiche attese umane che spaziano fra immanenza e trascendenza. Non possiamo immaginare di vivere ancora al capezzale di un liberismo che ha precipitato l’esistere dell’uomo nei vorticosi abissi di eccitanti consumi senza senso. Non possiamo, cioè, accettare un sistema che è tutto impegnato a favorire una dimensione deviata del vivere sociale e a ridurre l’uomo nell’impotenza del non saper gestire la qualità del proprio vivere, e nel dover simulare, invece (con l’ostentazione oggettiva di profitti e di ricchezze concrete), una propria identità, in realtà del tutto lacunosa e, addirittura mortificante se è messa a confronto con la natura del nostro essere e con la sostanza del nostro saper andare oltre la materialità delle cose. Non possiamo immaginare di donare tutto il nostro sangue per assicurare continuità a questo rovinoso dominio che ha già tristemente deviato i nostri pensieri verso l’assoluto ideologico del mercato libero dei consumi, della competizione e del profitto. Dobbiamo, invece, ripensare l’economia perché sia al servizio dei fenomeni vitali e in particolare della qualità della vita umana (perché possa contribuire, ai fenomeni vitali, con la sua originalità, sinergica e creativa, responsabilmente gestita).
Sono gli stessi vertici mondiali per l’ambiente che ci informano, rammaricandosene, sulle derive irreversibili, che non sono affrontate, e sui compromessi inutili che hanno il cinico fine strumentale di non farci perdere ogni speranza e di confortarci per convincerci a conservare una pur labile motivazione per continuare a produrre e consumare. Un modo di impostare le questioni ambientali, che sembra quasi finalizzato a evitare estreme sofferenze quando ci troveremo, forse, a dover accettare, continuando a coltivare speranze sempre più vane, la fase finale dell’esistenza dell’uomo sulla Terra.
Anche nell’ultimo incontro del dicembre 2015, a Parigi, è venuto a mancare quel passaggio dalle analisi e dalle valutazioni, alle misure obbligate e concrete sull’uso dei Territori, per controllare, in questo caso, alla fonte le cause del cambiamento climatico. Si trattava di definire non solo limiti alle immissioni di gas serra, ma anche di affrontare i problemi connessi a questioni di politica internazionale che rischiano di evolvere verso la distruzione di interi Territori e verso le violenze, fino alla morte, soprattutto delle popolazioni più indifese del pianeta. Una situazione che crea le premesse per far passare in secondo piano o, almeno, per relativizzare i danni ambientali e drammatizzare, invece, la necessità di difendere privilegi. Viene dato sostegno a un modo «spensierato» di vivere che aliena (dalle responsabilità, individuali e collettive, di curare gli ambienti vitali che ci ospitano) tutto un mondo di esseri umani indotto, così, a distrarsi con i consumi. Uno scenario preordinato che porta a consegnare acriticamente il proprio consenso a un sistema di potere che corrompe le coscienze difendendo una «libertà» del «fare» senza vincoli, ma che, in realtà, umilia l’uomo incatenandolo nelle violente solitudini di un egoismo da esercitare contro tutti i suoi simili e non solo.
A guardar bene queste situazioni, c’è da rimanere disorientati se ci rendiamo conto che ogni problema geopolitico, quello ambientale in primo luogo, trova connessioni con impresentabili interessi e ciniche strategie di pochi invincibili centri di potere economico-finanziario, fuori da ogni controllo politico e democratico. Sono centri che hanno tutto da guadagnare dalle guerre fra stati, dalle sottomissioni a tirannici poteri assoluti (che indeboliscono le strutture socio-economiche dei paesi ricchi di risorse) o, addirittura, dalle guerre fra gruppi opposti all’interno di uno stesso paese. Tutto un modo per avere, poi in quegli stessi luoghi, mani più libere, per l’approvvigionamento delle materie prime e per poter governare il mondo con le armi dei ricatti finanziari e delle concessioni per l’accesso al mercato globale, padrone unico di ogni risorsa, bene e servizio. Accesso consentito solo a quelle comunità umane che continueranno a sottomettersi, senza porre condizioni, alle seducenti catene del meccanismo assoluto di «produzione e consumo», in cambio di un lavoro sempre più precario, ma ormai anche unica fonte di sopravvivenza dopo la sottrazione delle risorse materiali e la disponibilità onerosa dei patrimoni intellettuali. Patrimoni che sono stati trasformati in proprietà individuali, di chi arriva prima a prenderseli, ma che sono, invece, beni comuni perché si possono sviluppare solo in un sistema di conoscenze diffuse e condivise.
Siamo in presenza di centri di potere che hanno anche tutto da guadagnare dalla vendita di armi e dalle forniture di altro materiale strategico, non solo a fazioni in lotta fra loro, ma perfino a quei gruppi terroristici che poi le usano anche contro le popolazioni degli stessi stati che le hanno prodotte o procurate (una storia non nuova se ricordiamo le forniture di petrolio che sarebbero state assicurate dalla Standard Oil americana alla Germania di Hitler per realizzare, nel secolo scorso, il folle progetto nazista di dominio del mondo).
Non sono disponibili, oggi e nel nostro mondo, procedure condivise che permettano di affidare le decisioni alle scelte di cittadini informati, responsabili e autonomi nella loro diversità. Si procede, invece, con decisioni (i trattati internazionali che delegittimano ogni attesa di scelta democratica) che spesso sfuggono o sono addirittura imposte agli stessi governi democratici. Di fatto anche le decisioni che sono state prese dalla Cop21, non solo sono costruite sulle mediazioni fra valutazioni e proposte, sostenute anche da interessi di parte, ma saranno recepite, reinterpretate e alterate, poi, in funzione delle opportunità di applicare tecnologie disponibili e convenienze varie da mettere a frutto in termini di profitto. Purtroppo, nel migliore dei casi, possiamo limitarci a sperare solo in progetti e finanziamenti finalizzati ai risanamenti temporanei e disperarci, invece, per i nuovi disastri (economici e non solo ambientali e sociali) che questi stessi progetti procureranno, anche a breve termine, in linea con quanto è già avvenuto nel passato e continuerà ad avvenire, anche in futuro, se non vi sarà un cambiamento.
L’attuale mercato dei consumi e l’attuale linea di sviluppo delle tecnologie, a esso asservita, non solo continueranno a essere origine del degrado dei Territori, ma continueranno a proporsi, poi, anche come strumenti di risanamento. È, questo, un modo per vivere con continuità una doppia identità che permette loro, iterativamente, di produrre danni e intervenire, poi, per porre rimedi. È, così, assicurato il risultato paradossale di dare continuità al modello economico liberista, con un’implicita concessione ad operare, contemporaneamente, a favore e contro l’ambiente.
Non possiamo, poi, non prendere atto, con il fallimento sostanziale dell’attuale modello di sviluppo, anche delle sue prevaricazioni ideologiche con le quali è stato imposto come «modello senza alternative» («There Is No Alternative», in sigla: Tina). Un’astuta menzogna che, in realtà, è una dichiarazione che, se sostenuta da un governo (come in effetti è avvenuto per la Thatcher, Primo Ministro britannico per tutti gli anni 80 del secolo scorso), diventa un palese segno di incompetenza a governare, infidamente difeso, però, dalle forme di dittatura economico-finanziaria che lo hanno imposto. Eppure è nella stessa logica liberista che questo modello debba essere considerato non solo fallito, ma anche un insulso progetto, incapace di creare condizioni flessibili per perseguire quell’equilibrio economico-finanziario del quale il libero mercato continua, ancora tronfiamente, a vantarsi sottovalutando (se non occultando) la sua natura di insidioso strumento spinto e premiato dal profitto e dalle cose più disumane che possono essere fatte per perseguirlo.
Oggi, il lavoro per un cambiamento, per organizzare un’economia a dimensione umana, è estremamente duro. Prima di ogni cosa c’è, infatti, anche da ripensare e costruire nuovi panorami socio-politici e culturali sia di competenze, non sottomesse a un potere di interessi precostituiti, sia di libere vocazioni personali da valorizzare. C’è una partecipazione democratica, contributiva e decisionale, da sperimentare (come essenza irrinunciabile di una condizione di diversità, propositiva e da condividere, in sintonia con gli equilibri naturali), offerta alle nostre intelligenti, creative e sinergiche capacità, per interpretarne il senso e assumere, poi, le responsabilità di riflettere sulle scelte e decisioni da prendere. C’è una formazione umana che non può essere subdolamente fatta immaginare come un percorso di alternanza scuola-lavoro finalizzata a conformare le mentalità dei giovani a uno stato di dipendenza (senza dovute alternative) da meccanismi preordinati (quelli del solo mercato dei consumi di risorse) e dai profitti.
Le attività finanziarie e l’elaborazione e sfruttamento dei Big Data raccolti in rete, sembrano indirizzate a favorire (con implicite minacce e ricatti) uno sviluppo economico, che fa leva anche sulle posizioni di debolezza delle nazioni indebitamente gravate (e assoggettate ai vincoli connessi) da prestiti internazionali, motivati da fallimentari piani di sviluppo globale dell’economia di mercato. Siamo di fronte ad uno sviluppo meccanico del libero mercato che, di fatto, è una sottomissione assoluta al potere finanziario e che, ormai, domina un’economia globalizzata e orientata dai consumi senza controlli, preordinata e imposta da asimmetrici accordi internazionali. Così, il potere finanziario, affrancato dal rispetto di ogni diritto e regola democratica, annulla le libere scelte di ogni individuo e delle comunità di appartenenza. È significativo, in questa direzione, il «suggerimento» (quanto meno irritante) della J.P. Morgan che, rilevando un potere «troppo» ampio dato, in particolare, ai cittadini di alcuni paesi europei, invita a fare «riforme» che diano più potere e non creino ostacoli a ciò che conta, cioè all’economia finanziarizzata del libero mercato globale dei consumi, affrancati dai programmi e dalle verifiche che possono essere esercitati consapevolmente dalla politica e dall’economia di un paese democratico.
Se partiamo, dunque, dal dato incontestabile che, fra degrado dell’ambiente ed economia del mercato dei consumi, c’è una stretta connessione, è allora evidente che una strada concreta, per evitare le emergenze di possibili catastrofi ambientali (non solo nei singoli Territori, ma in tutto il nostro pianeta), è quella di intervenire sulle deviazioni e prepotenze, dell’attuale modello economico. Si tratta di iniziare rimuovendo gli ostacoli creati al dialogo fra valutazioni economiche e attese dei cittadini per poter decidere progressi umani di qualità della vita e non meccanismi, arbitrari e arroganti, di sviluppo dei profitti.
L’attuale economia vive relegata in un proprio olimpo finanziario e non appartiene più al mondo delle relazioni umane: è stata sequestrata e ridotta a una convinzione ideologica che premia, chi la sostiene, con una indefinita libertà di fare profitti e con uno smisurato potere per difenderli. Alla componente umana viene solo riconosciuto il diritto di assolvere il dovere di aumentare la produttività e i consumi che sono il motore dai quali la finanza ricava le ricchezze necessarie all’esercizio del suo potere assoluto. Un potere questo che, ritenendo ipocritamente di essere solo un neutrale e indiretto promotore di consumi (e non, invece, un micidiale dissipatore di risorse, creatore di domande di consumo e produttore di rifiuti sempre in crescita), non considera suo compito assumere le responsabilità di qualsiasi impatto negativo e l’onere dei risarcimenti, dovuti dalle sue attività nei Territori e a danno della qualità della vita delle comunità che li abitano.
È ancora evidente che per informare, con la giusta efficacia e in modo diffuso, sullo stato e sulle conseguenze delle possibili evoluzioni delle condizioni ambientali, è essenziale riconoscere la rilevanza di un’economia che sappia valutare la qualità e quantità dell’insieme degli impatti che devono essere risarciti da chi li procura a monte (cioè, non dai consumatori che non hanno la percezione diretta dei costi occulti e dei danni globali procurati dai consumi e dalla mancanza, invece, delle risposte ai bisogni essenziali e non distruttivi degli equilibri vitali degli esseri viventi).

 – Riflettere e valutare insieme

La complessità rimossa degli equilibri naturali

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Gli esseri viventi possono esprimere le proprie qualità vitali solo in un contesto che accoglie e dà sostegno alla complessità, dei loro processi biologici e mentali, e che offre condizioni fertili per la loro partecipazione agli equilibri naturali e sociali. L’uomo se è interessato, anche solo egoisticamente, alla propria sopravvivenza (e ancor più se intende esprimere le proprie qualità creative e trovare un senso per entrare in sintonia con il mondo naturale e dei propri simili) non può ignorare la complessità dei fenomeni biologici e sociali e deve, quindi, attrezzarsi per interpretarli e coordinarsi con essi.

Oggi, con le equivoche o devianti approssimazioni, di una visione riduzionista della realtà, modifichiamo la struttura dell’ambiente per adattarlo, unicamente con tecniche ingegneristiche, a convenienze economico-finanziarie, a volte anche solo estemporanee. Procuriamo, così, problemi, anche estremi, agli equilibri naturali e sociali, e pretendiamo, poi, addirittura di risolverli con gli stessi strumenti che ne sono stati l’origine. Gli approcci riduzionisti, nel migliore dei casi, potranno produrre solo effetti temporanei sulla tenuta degli equilibri, e saranno comunque insufficienti anche solo per affrontare i loro problemi complessi e ancor più quelli che sfuggono alla nostra percezione. Una visione riduzionista non ci permette né di entrare in sintonia con le dinamiche degli equilibri ambientali, né di interpretare gli aspetti rilevanti delle finalità umane da perseguire, né di realizzare una diffusa condivisione degli obiettivi, tutti momenti, questi, essenziali per dare senso alla nostra partecipazione ai fenomeni vitali. Si ha, così, che con le grandi quantità di energie e risorse (spese per modificare il nostro ambiente di vita o per rimuovere i danni in esso prodotti) si può correre il rischio di rimanere paralizzati in uno stato continuo di piccole e grandi emergenze fino a rendere irreversibili non solo i fenomeni del degrado iniziale, ma anche l’accumulo di quelli successivi generati, proprio dalle modifiche con le quali si intendevano, invece, ripristinare gli equilibri naturali.
Questa deriva, fra le nostre buone intenzioni e i risultati degli interventi tecnologici finalizzati a modificare il Territorio o a porre rimedio a danni ad esso procurati, ora sta accelerando sia perché avanzano le semplificazioni (imposte dall’economia del libero mercato, ideologicamente diretta solo a produrre e vendere ogni cosa in ogni luogo senza complicazioni), sia perché crescono, in modo esponenziale, anche le necessità di porre rimedi non dispendiosi alle interminabile catene di conseguenze subdolamente sottovalutate e trasformate in malefici, anche per le future generazioni.
È, dunque, evidente quanto la tecnologia sia non solo incapace di risolvere i danni fisici, da lei procurati, ma sia ancor più incapace di affrontare la dimensione esistenziale (dinamica, autonoma e creativa) dell’uomo, delle sue comunità e dei suoi Territori di vita, in nome dei quali, sfrontatamente, si vanta di operare. Alla tecnologia non possono essere affidati compiti complessi da sviluppare, in tempo reale e nella originalità delle situazioni, con approcci sistemici, soluzioni sinergiche e verifiche funzionali. Anche se le opere, così come previsto dal determinismo dei protocolli tecnici, saranno formalmente complete, nessuna formalità potrà rispondere alle complesse attese economiche, sociali, culturali che danno senso al vivere degli uomini e che spetta solo a loro gestire. Una gestione che è normale se non è ostacolata da informazioni deviate o negate, da inesistenti priorità e urgenze e da scelte preordinate da interessi che sembrano solo favorire speculazioni. Si promettono presunte benefiche innovazioni e ingannevoli successi economici (a danno dei Territori, anche sul breve tempo), mentre di sicuro c’è solo un iniquo profitto.
A tal proposito sarebbe interessante chiederci quanti prodotti tecnologici deludono le nostre attese o rimangono inutilizzati nelle nostre case? Quanti prodotti tecnologici, pur funzionanti, si sono rivelati più complicati da gestire dei problemi che avrebbero dovuto risolvere? Quanti sono andati in rapida obsolescenza o sono diventati inservibili prima ancora che fossero adeguatamente usati? Vi sono problemi generati dalla applicazione delle tecnologie che sono ingestibili già nel presente dei nostri giorni, prima ancora che nel futuro di chi riceverà, in triste eredità, un mondo povero di risorse e ricco di rifiuti di ogni genere.
La visione semplificata della realtà, di fatto, ha già ridotto in molti Territori la complessità dei fenomeni naturali, a un insieme di stadi di un processo deterministico (fatto immaginare come compiutamente controllabile, per legittimare lo sviluppo e l’applicazione di specifiche tecnologie di intervento). Un processo che si faceva intendere come capace di garantire risultati di una miglior gestione delle risorse naturali (un processo che si è dimostrato, spesso, non solo inefficace, ma proprio finalizzato ad altro). La valutazione degli impatti (che dovrebbe aiutare a definire i migliori progetti di modifica di un Territorio e le condizioni per una loro eventuale fattibilità), se proprio non viene a mancare, oggi è ridotta solo a una pratica amministrativa formale, con inconsistenti strumenti di controllo, con valutazioni meccaniche, degli effetti delle modifiche sui Territori e delle opere realizzate: tutte procedure con indicatori e misure inadeguate per gestire, da sole, l’irriducibile complessità dei fenomeni naturali.
A molti, purtroppo, non è chiaro che la «conoscenza», di un sistema complesso, «non si possiede», ma che in un «sistema complesso» si possono solo riconoscere e perseguire alcune «sintonie», da interpretare e aggiornare continuamente per indagare e dare un senso alle nostre scelte. Solo così, possiamo esercitarci a formulare ipotesi di intervento da mettere alla prova, per trovare riscontri, efficaci e verificabili, di fattibilità, sostenibilità e coordinamento sinergico fra gli equilibri di un sistema complesso e le nostre intenzioni di operare modifiche al suo interno. In questa più ampia visione della realtà, non sono, dunque, legittimi i mistificanti pretesti formali che vorrebbero attestare la bontà di interventi autoreferenti, comunque decisi altrove, e non in sintonia verificabile con le dinamiche dei processi vitali.
Esiste un limite fisico in tutte le cose, ma sembra che di ciò, chi ha il potere di decidere, non ne abbia consapevolezza e ritenga, invece, di poter operare, in questo caso sui Territori, come se questi fossero materiali plastici, da adattare alle forme semplificate con le quali si vorrebbe ricostruire un modello di realtà pronto a essere sottomesso alle ragioni del mercato. Il voler «fare le cose» dell’uomo diventa, in questa prospettiva, non una collaborazione fertile con i processi vitali, ma una lotta contro di essi. L’uomo sembra, troppo spesso, impegnato, in una continua e solitaria lotta, per l’affermazione dell’assoluto di una propria idea di mondo da sottomettere alla propria volontà e da adattare a qualsiasi deformazione che dovesse decidere di imporre per una personale convenienza. Una lotta contro una realtà complessa, ridotta nelle confinate forme di limitati modelli fisico-matematici (fatti di algoritmi e di misure solo fisicamente percepite), priva di quell’essenza immateriale, specifica dell’identità umana, concettualmente innegabile e fondamentale per dare senso alle cose. Una realtà che sfuggendo, per la sua complessità e natura, alle rilevazioni dei cinque sensi dell’uomo, viene trascurata, non solo nella formulazione di specifiche valutazioni, ma anche nei momenti cruciali, per il destino dell’uomo, di assunzione di irrevocabili responsabilità e di definizione di non sottovalutabili precauzioni.
In assenza di una visione sistemica, che permetta di considerare una realtà capace di andare oltre i confini della sola materialità percepita nei contesti vitali, l’uomo è indotto a considerare «vero» solo ciò che appare «semplice». Su tutto il resto, rimanendo il dubbio (che però è cosa diversa dalla negazione della fondatezza dell’argomento di quel dubbio), ne decide un’incauta e totale inesistenza. Viene così a mancare l’impegno, con altri e adeguati mezzi, a interrogarsi sulla consistenza della realtà che si intende modificare e, comunque, a tener conto, almeno per un’onestà di pensiero, della compromettente semplificazione operata su di essa.

La relazione uomo Territorio

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Territorio, che cos’è?

Ristrutturare un Territorio, da parte dell’uomo, è cosa profondamente diversa dall’opera con la quale la Natura cura i propri complessi equilibri vitali. Molti immaginano che gli equilibri vitali siano spontaneamente assicurati anche nelle opere con le quali l’uomo modifica e adatta l’ambiente alla propria volontà. Di fatto, imponendo questa visione falsamente positiva (come se fosse una prospettiva reale che consente qualsiasi modifica di un Territorio), si vorrebbe far prendere atto dell’esistenza di uno sviluppo chimico-fisico-biologico artificiale sempre del tutto assimilabile a quello naturale.

Uno sviluppo deciso dall’uomo, senza impatti negativi, in sintonia con la complessità degli equilibri naturali che, in realtà, è decontestualizzato rispetto alle caratteristiche vitali del Territorio e che viene anche sottratto a quella riflessione, sui significati dei fenomeni, che la nostra mente è capace di sondare per valorizzare e non, invece, per modificare, senza vincoli, l’esistente e il suo divenire. Uno sviluppo, dunque, che interpretiamo solo come risorse e meccanismi di produzione di beni di consumo, messi gratuitamente a nostra totale disposizione, per farne un uso quanto più profittevole e per vantare nostre specifiche capacità di modificare l’ambiente in ogni occasione. Questo tipo di sviluppo, l’uomo non solo lo persegue ciecamente, senza alcuna valutazione critica che non sia solo formale, ma lo usa anche come strumento per distruggere addirittura le condizioni naturali che ne permettono la sua riuscita.
Con i potenti mezzi, oggi disponibili per modificare i Territori, l’uomo è, di fatto, entrato in competizione globale con la Natura, ma non avendo le capacità di gestire la complessità dei suoi equilibri, con i propri interventi, sta determinando l’impoverimento della diversità necessaria per renderli vitali.
Fin quando non assumeremo la responsabilità di scelte collaborative, che trovino senso nelle prospettive di un progresso della qualità della vita umana in sintonia con lo sviluppo degli equilibri naturali, non riusciremo a venir fuori da quella distruttiva spirale del «fare le cose» che opera senza tener conto del contesto sul quale interveniamo e che avvilisce e nega le peculiarità uniche della riflessione, valutazione e decisione responsabile che qualificano la condizione umana.
Siamo una risorsa unica di creatività e di sinergie che non possono essere espresse dagli altri esseri viventi della Terra, ma non ce ne rendiamo conto e, troppo spesso, ci limitiamo a una vita guidata da un progressismo istintivo di sopravvivenza, sempre più condizionato da sprovveduti entusiasmi per le tecnologie avanzate, anche se non è molto chiaro verso quale direzione stiano avanzando. Interpretiamo le opportunità di integrazione, con gli equilibri specifici di ogni Territorio, con una razionalità e ingegno che, finalizzati a un bene individuale ideologico, diventa automaticamente un male, anche estremo, per tutti gli altri.
Abbiamo disegnato mappe per conoscere, valorizzare il poterci muovere sui Territori, ma queste sono state e continuano a essere usate (ancor più con le attuali e sofisticate rilevazioni satellitari) per appropriarsi delle risorse, per dividere popolazioni, per confinare inventate comunità, per attivare scontri tribali fino a trasformarli in guerre globali con le armi più micidiali (quelle costruite, dai paesi tecnologicamente più avanzati, nella previsione o, forse, addirittura preordinando ciò che apparirà, poi, solo un destino di violenza per interi popoli, sviati dai loro percorsi di progresso, per il vantaggio di qualche forte interesse esterno, individuale o di gruppo).
La tecnologia, a parte lo sviluppo delle «app» che promuovono pericolose alienazioni dal senso delle cose reali, potenzia, di fatto, un distruttivo e arbitrario «fare le cose» che l’uomo impone ai Territori da lui occupati. Disboscamenti, grandi opere idrauliche, cementificazioni, passano velocemente, con valutazioni solo formali degli impatti, dai progetti sulle mappe, alle fasi esecutive, all’esercizio di attività produttive e al confinamento terminale (se non addirittura alla dispersione nell’ambiente) di tutti i consumi trasformati in rifiuti. Opere e attività, a volte neanche utilizzate o comunque destinate a un abbandono terminale, che finiscono, così, con l’attivare una presenza crescente, di tipo tumorale, di ruderi che con il loro degrado incidono profondamente, sul contesto di vita umana connesso, generando metastasi sociali e non solo economiche. In queste condizioni anche la prospettiva e il mito dell’archeologia industriale non possono che impallidire per la vergogna.
Siamo così assuefatti a immaginare come naturali i Territori completamente antropizzati delle nostre città, delle vie di comunicazione e dei luoghi abitualmente frequentati (per affari, per acquisti, per il tempo libero) che un paesaggio, senza la presenza dell’uomo e delle sue opere, può dare la sensazione di un luogo vuoto. I dati forniti da una recente inchiesta sul nostro Territorio nazionale («L’Espresso», n.40, del 2-10-2016) raccontano di un consumo di suolo passato dal 2,7% del 1956 al 7% del 2014 e di un consumo di cemento che negli anni passati è arrivato fino a 800 Kg a testa. La situazione è poi ancor più preoccupante se prendiamo atto, oggi, che si tratta di cemento che ha sottratto soprattutto spazio agli equilibri vitali, che non è stato aggiunto, cioè, solo nei luoghi già cementificati e da noi attualmente occupati (città, seconde case nuove o più ampie, allargamenti delle vie di comunicazione, nuovi insediamenti in zone commerciali e industriali). Stiamo perdendo (senza averne una percezione critica) le diversità dei Territori che sono elementi fondamentali per la tenuta degli equilibri naturali.
Ma a questi segni negativi si contrappongono (e si spera possano continuare a contrapporsi) quelli positivi di un’azione, già in atto nei nostri Territori, impegnata efficacemente a rivitalizzare, molti luoghi e risorse uniche a rischio, con il coinvolgimento della sensibilità e dell’impegno di un gran numero di cittadini.
Per evitare, poi, di cadere nella fatale e sommaria accusa rivolta all’uomo di essere «causa di tutto il male della Terra», conviene anche evidenziare, qui, che la colonizzazione umana dei Territori, quando è un modo per prendersi cura della loro manutenzione e per assicurare il futuro di attività economiche primarie, non è causa del loro degrado. Sono, invece, le finalità, il tipo di progetti, il modo e gli strumenti usati che li condannano al degrado. Nella presunta neutralità delle modifiche o addirittura in nome di una strumentale valorizzazione dei luoghi, la vitalità immaginata di un Territorio, in molti casi è formalmente rappresentata, da un prato verde, da alberi che decorano i siti oggetto della trasformazione, dai filari degli impianti ortofrutticoli meccanizzati per curare non qualità ma quantità in eccesso della produzione agricola (tutta da smaltire, poi, come rifiuti) necessaria per non far mancare le merci ai mercati (ogni anno, secondo una stima del 2006, nella sola Ue, sono sprecate 90 milioni di tonnellate di cibo).
I Territori sembrano ormai asserviti, come strumenti di produzione, alle mode dei consumi, alle novità geneticamente modificate che vorrebbero riempire, il vuoto di quel senso delle cose che viene a mancare quando vince l’idea di poter perseguire un mitico successo tecnologico o nuove e più vantaggiose opportunità di profitto. Oggi, si confonde, con preoccupante frequenza, la qualità di un prodotto con il livello delle tecnologie «avanzate» presenti nel suo processo di produzione. Alla mancanza di senso nella produzione agricola delle filiere Ogm, suppliscono le garanzie dell’ingegneria genetica (sull’estetica del prodotto, sulle misure perfette di ogni pezzo messo in vendita, sul colore reso più attraente) e gli illusori vantaggi millantati sulla qualità, anche per un «diverso» uso di prodotti chimici messi in campo.
Non è da sottovalutare quanto questa artificiosa ricostruzione della realtà, seguendo opportunità di mode inventate, possa incidere sulla condizione del nostro benessere. Certo è che in questi casi finiamo con l’essere indotti a cercare altrove le cause dei nostri malesseri e, magari, a trovare rimedi in qualche pratica esoterica o in qualche suggestivo «centro benessere». Ma così non troveremo una vera cura per le ansie, a noi procurate, ma cercheremo solo qualcuno che surroghi, a pagamento, un conforto alle nostre solitudini competitive o alle alienazioni consumistiche o ai nostri bisogni relazionali mancati, pur se tutti questi, nella sostanza delle nostre deluse attese, continueranno a rimanere inevasi.
Oggi non è, neanche, da sottovalutare l’elevata e innaturale mobilità che ci consente con qualche ora di volo di raggiungere Terre lontane e diverse per cultura e ambiente di vita. Siamo catapultati, per rimanere anche una sola settimana, in luoghi estranei nei quali la nostra identità è messa da parte ed è impossibile costruirsene, in breve tempo, un’altra che abbia senso e che sia in equilibrio con quelle già esistenti. Diventiamo veicoli che trasportano, senza senso, nel giro di qualche ora, le presenze vitali di un primo ambiente, quello di partenza, in un secondo e diverso ambiente di arrivo, senza preoccuparci delle conseguenze, senza prevenzioni e precauzioni che non siano solo quelle per la difesa fisica della persona e della sua salute. In questo tipo di esperienze, realizzate in ambienti e culture lontane, possiamo anche rischiare di perdere le nostre identità, di diventare una sorta di organismi con identità artificiosamente sospese e forse anche modificate, nel tentativo di adattarle formalmente alle suggestioni dei nuovi contesti. Corriamo il rischio, così, di finire col perdere il senso della diversità in un sincretismo formale che disorienta la nostra mente invece di arricchire le nostre esperienze per favorire sinergie efficaci, adeguate alle realtà da affrontare.
A fronte di questi possibili scenari, la ricerca di alternative non può essere solo una meccanica, pur necessaria, diminuzione dei consumi, ma deve essere soprattutto una ricerca condivisa (nella diversità delle valutazioni personali) sul senso dei processi naturali e sulle scelte che siamo chiamati a compiere, mentre avvengono i fatti dei quali siamo esplicitamente, o anche solo implicitamente, responsabili.
C’è da riflettere sui significati e sul senso di quei consumi effimeri, frutto di ricercate e volubili fantasie che incentivano profitti senza limiti: c’è da chiedersi se questi siano sostenibili a fronte di una contemporanea mancanza di risorse necessarie per dare risposte a bisogni primari inascoltati di miliardi di nostri simili. C’è da riflettere sulla tecnologia: c’è da valutare quanto incida, il suo sviluppo incontrollato (spinto dai lauti profitti di un mercato di applicazioni superflue, se non anche micidiali), sul bene primario del progresso umano. C’è da riflettere per capire se ha senso subire da inetti le sconfitte della pace, confidando nella vittoria delle tecnologie che avanzano producendo sempre più insostenibili stragi di civili e lasciando che la brace, della violenza subita, possa accendere nuovi (ma anche preordinati) incendi. C’è da riflettere sulla finanza, oggi tutta impegnata a favorire i profitti (come se il denaro fosse un fine e non solo un mezzo), che depredano le risorse di attività economiche anche essenziali e che sovvenzionano, invece, l’acquisto di armamenti per la distruzione reciproca fra popolazioni diverse messe in contrasto fra loro: c’è forse da pretendere che la finanza torni a svolgere il ruolo di strumento economico finalizzato allo sviluppo dell’economia reale (essenziale per soddisfare i bisogni delle persone) e del progresso della qualità della vita e delle relazioni che rendono più giuste le società umane. C’è da riflettere sulla formazione dei giovani (ma anche sulla formazione continua degli adulti): oggi, sull’onda di un progressismo tecno-scientifico, sembrano necessarie solo intelligenze conformate alle esigenze dei mercati e applicate allo sviluppo di prodotti e processi necessari per una competizione globale, per diventare capaci di vendere di tutto, anche quelle cose, uniche e impagabili, che sono un bene assoluto, fisico e mentale, e che non è opportuno che diventino oggetto di un commercio. Per esempio l’acqua (la cui identità e quantità, cioè le sue molecole, i suoi sali e le sue fonti, sono effetto solo di fenomeni naturali e non di tecnologie avanzate), per la quale si tende a favorire un fiorente mercato che vorrebbe «monopolizzare» la sua distribuzione e «liberalizzare», invece, il suo inquinamento.
C’è da riflettere su un mondo della produzione che con l’automazione può fare a meno dei lavoratori anche per grandissime opere: oggi sono sufficienti pochi vassalli tecnologici per modificare, in breve tempo, anche ampi Territori, trasformati in feudi, di poteri assoluti, dal mercato libero e da una rendita finanziaria che contrastano, invece, lo sviluppo delle attività, necessarie e vitali, dell’economia reale. C’è da riflettere sul fallimento di quel paradigma, fondato sul libero mercato, che punta al massimo profitto, come giusta ricompensa del saper fare affari, ma che favorisce, soprattutto, la concentrazione del denaro (un bene comune) in pochissime mani e che crea centri di potere economico-politico finalizzati alla crescita dei profitti e dell’arroganza con la quale sono imposti i modelli ideologici del libero mercato dei consumi. Un paradigma che viene regolarmente usato, senza un consapevole consenso democratico e solo per depredare ciò che ancora non si possiede. La prospettiva, per questi scenari, sembra definita dalla volontà di vincere e portare (come già prefigura oggi, il generale e inarrestabile decremento dei redditi e del potere di acquisto) tutto il mondo (tranne le caste detentrici del potere) verso condizioni di diffusa ed estrema povertà.
C’è ancor più da riflettere sulle indisponibilità delle alternative dovute alla globalizzazione pretesa dall’assoluto liberista che (senza informazioni, necessarie perché i cittadini possano acquisire consapevolezze e responsabilità) ha fatto terra bruciata nel mondo, per ogni altro sistema economico e ha imposto la scelta, quella ideologica, di un’etica asservita al mercato e al profitto.
C’è da riflettere sulle politiche culturali che, di fatto, trasformano i valori e le specificità «socio-culturali» dei Territori, in alienanti ed effimeri consumi rituali: turismo, attività del tempo libero, manifestazioni popolari di ogni genere, paesaggi e perfino musei, visite a luoghi delle nostre memorie storiche e artistiche (che pur sono testimonianze del nostro senso dell’esistere e hanno dato sostanza al pensiero umano), tutti valori che ora (messe nelle vetrine dei consumi di moda e vuotate delle occasioni per esplorarne il senso fra passato, presente e possibili futuri) non permettono certo, con le loro formali rappresentazioni quantitative, un’interpretazione critica, diffusa e condivisa, della realtà e, tantomeno, un coinvolgimento sinergico di risorse umane.
Il pragmatismo del «fare le cose che si sanno fare», eliminando tutto ciò che il senso comune considera «amenità» (cioè, pensieri umani non riducibili nel mitico e fattuale ambito del determinismo tecnico-scientifico), riduce la conoscenza a infertili meccanismi logici fine a se stessi. La conoscenza diventa, così, solo un intrigante labirinto di percezioni fisiche e di meccanismi mentali da scoprire, di eventi imprevedibili da incontrare, finalizzati a testimoniare e convincere su una entusiasmante capacità umana a tradurre i fenomeni naturali e sociali (osservati solo nelle loro dimensioni macroscopiche) in attività finali concrete e connesse ai consumi compulsivi. Un contesto che rischia, dunque, di portarci dalla nascita alla morte, senza aver vissuto, sospesi in una società senza senso, nel vuoto dei consumi a perdere, senza esperienze di riflessione, senza relazioni creative e senza condivisioni sinergiche. Tutta una realtà che ha come destino la competizione formale, sui mercati, fra attività produttive e consumi, separata da quei contesti culturali, sociali, politici ed economici sostanziali ed espressi dalla diversità creativa delle condizioni e delle esperienze umane autonome, consapevoli e responsabili.
C’è da riflettere sull’infertile senso comune che, diversamente dalla ricerca sul senso delle cose, non è espressione di qualità umane, ma della loro riduzione in forma di mistificanti, alienanti e rassicuranti, ma illusorie, ricette di vita semplice e senza problemi, di fatto ricette di «non» vita.

La complessità rimossa degli equilibri naturali

Territorio, che cos’è?

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Il Territorio (interpretato come substrato, di un mondo naturale dinamico, che presiede gli equilibri vitali) fin dalla sua prima presenza nelle consapevolezze umane (e oggi ancor più nelle diverse direzioni disciplinari specialistiche delle conoscenze, delle scienze naturali e del pensiero umano), è stato al centro di attenzioni documentate che hanno spaziato fra realtà immanenti e proiezioni nel trascendente (dalle terre fertili necessarie per sopravvivere, alla Terra promessa in dono a un popolo eletto).

L’esplorazione del mondo della materia e le riflessioni sul mondo metafisico (che spesso è stato considerato anche come fondamento dei fenomeni fisici) propongono scenari articolati e alternativi sostenuti dalle diverse prospettive dei diversi punti di osservazione che l’uomo può sperimentare. L’insieme di tutte queste diversità, potrebbe offrire, alla nostra attenzione, una migliore rappresentazione della dimensione complessa della realtà e potrebbe, quindi, incentivare anche la ricerca del senso dei fenomeni vitali, attraverso un lavoro sinergico (sperimentale e di riflessione, analisi e interpretazione operativa, sempre da ristrutturare) fra gli esseri umani. Ma non è così perché non trova quasi mai spazio, nelle intenzioni umane più diffuse, anche solo l’idea di una possibile sintonia, con gli equilibri naturali, che potrebbe garantire, con una migliore sopravvivenza di tutti i viventi della Terra, anche una migliore qualità di vita per gli esseri umani.
Il Territorio, sembra essersi radicato, in particolare nella cultura occidentale, come un bene che le debolezze umane hanno trasformato in oggetto di un possesso compulsivo. Dobbiamo, purtroppo, prendere atto che l’idea di poter esercitare un «potere», usando i ricatti e le minacce consentite da un «avere» (dal possesso, in questo caso, anche di un piccolo spazio della nostra Terra, un piccolo regno, su cui signoreggiare), è sempre più, per l’uomo, un surrogato di certezze invincibile, pur se frutto solo di mistificanti soluzioni e di infertili (se non anche distruttivi) risultati.
In fisica è nota una grandezza, l’Entropia, che sembra possa essere richiamata non solo nei processi chimico-fisico-biologici (per interpretare le variazioni di energia, nelle trasformazioni a essi connesse, e la stabilità delle sostanze e dei prodotti di una reazione), ma anche nei fenomeni sociali. C’è una spontanea tendenza, da parte di qualsiasi fenomeno a degradare e a perdere, cioè, ogni qualità dinamica del suo stato fisico (della materia e dell’energia che lo caratterizza) e ogni qualità relazionale e creativa (per quanto riguarda la società degli esseri viventi e il progresso della qualità della vita umana). In particolare, nel caso dei comportamenti umani, così come avviene nelle trasformazioni chimico-fisico-biologiche che danno tenuta agli equilibri naturali, questa tendenza a cedere energia (ad aumentare l’Entropia del suo sistema) può essere virtuosamente impiegata per strutturare quelle qualità del saper creare sinergie (con la condivisione dei valori peculiari dell’autonomia di ogni singolo individuo e con la collaborazione diffusa nel perseguimento di finalità sociali), che sono alla base delle aspirazioni umane più profonde. Dunque, nel sociale, le energie invece di essere solo perse o spese in distruttive competizioni (fino alla pratica estrema delle sottomissioni terminali), possono permettere, passando attraverso stadi riorganizzativi intermedi, di spendere le stesse energie per scoprire le diversità del nostro senso del vivere e, nello stesso tempo, di condividere e arricchire le nostre esperienze e relazioni.
I concetti, che l’idea di Territorio deve evocare, non sono, quindi, quelli di un immutabile e garantito diritto esclusivo al suo possesso e uso, ma quelli di un equilibrio, chimico-fisico-biologico e socio-culturale dinamico, in continua evoluzione che, se pur non permetterà di dare compiutezza anche solo a una sua affidabile definizione, potrà aiutare a interpretare, con migliore e più conveniente approssimazione, la complessità dei processi naturali. Una condizione necessaria che consente sia di prevedere e prevenire i fenomeni di degrado, sia di definire (in presenza di modifiche che possono incidere sugli equilibri vitali) specifiche e opportune precauzioni. L’uso del Territorio dovrebbe, cioè, rispondere non alla volontà di chi ne vanta la proprietà, ma a finalità di progresso umano che trovano nell’esplorazione della realtà, nella ricerca per la conoscenza delle dinamiche dei contesti, le condizioni per la creazione di sinergie. Un Territorio, quindi, come contesto di equilibri nel quale non solo possiamo esprimerci socialmente, con i nostri personali modi di essere, ma possiamo, prima di tutto, condividere condizioni diverse di vita, per favorire le migliori relazioni fra gli esseri umani e fra questi e il resto del mondo naturale al quale apparteniamo.
I limiti della condizione umana permettono all’uomo di interpretare i fenomeni naturali solo con approcci riduzionisti. Solo, cioè, con quei pochi parametri che sono percepiti dai suoi sensi e che, nel loro limitato insieme, possono essere tenuti sotto controllo. Oggi i sistemi, sempre più sofisticati, di elaborazione di dati sperimentali, permettono di tenere sotto controllo un numero teoricamente illimitato di parametri e, quindi, di costruire modelli più affidabili di interpretazione e previsione dei fenomeni. Ma anche così, rimane irrisolta la ricerca e l’interpretazione del senso che è frutto solo di una capacità specifica dell’uomo di andare oltre la razionalità e le apparenti contraddizioni nell’interpretazione dei dati rilevabili dai fenomeni fisici
Sotto certi aspetti si può affermare che l’uomo, non disponendo della piena e diretta conoscenza e consapevolezza sul significato ultimo dei fenomeni naturali, sperimenta la vita con un approccio di tipo empirico. Ciò non toglie, però, che vi possa essere, come qui si vuol sostenere, anche tutta un’altra realtà, di più ampio senso umano delle cose, che l’uomo può mentalmente strutturare. Una realtà che, pur se imperscrutabile, è una sentita e necessaria presenza, in quelle relazioni uomo-Natura, che non possono essere ridotte a un rapporto dettato dal solo istinto di sopravvivenza o da una pur più compiuta, ma insufficiente, elaborazione di nuovi fattori fisici da mettere in gioco.
Se è vero che la Natura non ha bisogno di rimedi umani e tantomeno ha mancanze che l’uomo può o deve colmare, i suoi Territori possono essere correttamente considerati substrati autonomi e intelligenti che non solo accolgono e partecipano al divenire di un mondo di fenomeni naturali, ma che offrono anche spazi nei quali possono essere integrate esperienze e processi vitali che l’uomo sa, poi, riconoscere e condividere nella loro diversità e valore. Nella pratica, non possiamo però illuderci che quest’ultima prospettiva possa spontaneamente realizzarsi. Gli animali, da soli o in gruppi, segnano i loro territori indicando così anche una loro intenzione di prevenire conflitti. L’uomo, invece, non si limita a segnalare i propri territori, ma può impegnarsi anche a conquistare quelli degli altri, per mettere a propria disposizione le loro risorse, e a piegarli ai propri progetti di egemonia o anche solo destinandoli a funzioni strategiche fino l’esercizio, globale e assoluto, del proprio potere. La storia dell’uomo è piena di vicende che raccontano guerre sanguinose e sottomissioni di popoli e certamente, queste, non sono manifestazioni di quella intelligenza che si vorrebbe fosse segno di una qualità e di un senso delle cose che dovrebbe distinguere, per un suo maggior valore, l’uomo da tutti gli altri esseri viventi.
I Territori, ricchi di vitalità e di risorse naturali diverse, se non sono esposti a prepotenze e a guerre, sono sempre lì, al loro posto pronti a offrire occasioni per la ricerca del senso delle cose. In realtà, sono quasi sempre usati, invece, per qualche estemporanea volontà umana di «fare le cose». I Territori sono paesaggi, fonti di risorse alimentari, scrigni di materie prime per la produzione di beni e servizi, tutte energie e materiali a disposizione di chi li abita, ma che oggi sono, invece destinati a finire, in modo eterodiretto, sui mercati liberi dei consumi e, poi, anche a occupare in gran parte, come rifiuti, altri Territori destinati al loro confinamento terminale. I Territori, dunque, in particolare quelli esposti alla volontà di qualche inventore seriale di beni «usa e getta», sono devastati sia nei momenti nei quali sono depredati delle loro risorse, sia nella successiva fase di degradazione e di confinamenti terminali dei rifiuti prodotti.
Ma il Territorio è altro e non è richiesto un particolare impegno per rendersi conto che è un corpo vitale animato dalle sinergie fra fenomeni che sono in relazione dinamica fra loro. Oggi l’individualismo e la competizione sottraggono all’uomo le opportunità di entrare a far parte delle specificità, relazionali e creative, offerte dalle sinergie nei diversi Territori. La riflessione e la pratica delle responsabilità, necessarie per entrare in sintonia con le loro dinamiche vitali, sono viste, infatti, non come opportunità di collaborazione a un progetto di progresso anche umano, ma come ostacolo a un «fare le cose che si possono fare» senza vincoli (anche, se il farle, non ha alcun senso, ma il non farle sarebbe una sconfitta, perché «c’è sempre qualcun altro che prima o poi le farà al posto tuo, sottraendoti il successo, pur equivoco, di una vittoriosa competizione»).

La relazione uomo Territorio

Come eravamo

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Erano gli Anni Sessanta, l’Italia correva e stava banchettando a spese del territorio, i danni erano già visibili e alta si alzò la voce di Antonio Cederna per tentare di fermare i «nuovi barbari». Nel ’62 esce «Primavera silenziosa» di Rachel Carson, nel ’68 Aurelio Peccei fonda il Club di Roma, gli universitari si «agitano» nelle università di tutto il mondo, nel ’69, il Segretario Generale dell’Onu, U Thant oltre a denunciare timori per i problemi del disarmo, del risanamento dell’ambiente, di una più equa distribuzione e di un uso razionale delle risorse, del controllo dell’esplosione demografica, e dell’esigenza di orientare gli sforzi verso la problematica dello sviluppo; profetizzava che senza il controllo di questi problemi, in dieci anni, si sarebbero raggiunte dimensioni tali da essere al di fuori di ogni umana capacità di controllo…

Si creò un movimento di intellettuali e ricercatori per tentare di fermare il disastro ma, soprattutto, di far capire. Negli anni successivi si fece molto per scoprire e segnalare le emergenze del territorio. Spiegare l’importanza delle associazioni vegetali e il rapporto con la fauna. Da tutto questo nacquero le mappature e le indicazioni per proteggere alcune aree. Solo molti anni dopo l’attenzione si spostò anche agli ambienti marini perché anche il mare lanciava appelli di aiuto…
Contemporaneamente crescevano i problemi ambientali per l’inquinamento globale e il clima iniziava a modificare il suo andamento tradizionale. Si iniziò quindi a mettere in relazione clima e ambiente. E l’elenco delle urgenze degli allarmi si allungò rapidamente.
Una soluzione fu quella della protezione di intere aree e della creazione di Parchi, dalla salvaguardia puramente estetica dell’800 si passò subito alla salvaguardia per necessità. Un Parco, quindi, veniva creato per salvare alcune specie tipiche di una determinata zona e con la tipizzazione, si creavano zone in cui si lasciava fare alla natura che, sicuramente, ne sa più di noi visto che noi stiamo ancora a studiarla ed ogni volta ci sorprendiamo…

Abstract – Percezione terremoti

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A survey of the Institute of Geophysics and Volcanology (Ingv), conducted in 2015 in collaboration with CNR-IRPPS and the OGS of Trieste and funded by the Department of Civil Protection (DPC), on a national statistical sample of more than 4 thousand people, has shown that in Italy the perception of seismic hazard is heavily underestimated. Results showed that in the seismic zones considered most hazardous (peak ground acceleration higher than 0.15 g), only the 6% of interviewees have good perception of hazard; while in the seismic zones where PGA is less than 0.15 g, the percentage is about 17%.These results demonstrate that in our country is urgent and necessary promote seismic risk reduction campaigns (e.g. Terremoto Io non Rischio) and develop permanent educational projects in the schools (e.g. EDURISK), to have, in a near future, citizens more informed and aware.

Abstract Ingv

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The Colli Albani is a dormant volcanic area located only 20 km southeast of Rome and, despite myths and legends that have suggested the occurrence of eruptions in ancient Roman times, it has remained completely quiet during the last 36,000 years; however, a growing body of independent geophysical indicators suggest that a new batch of magma is presently accumulating at several km of depth, and it may give rise to a new eruption in the next 1,000 years.

This is the result of a multi-disciplinary study conducted by a team of researchers of the Ingv, in collaboration with the Geology Department of the Sapienza University of Rome, the Istituto di Geoingegneria e Geologia Ambientale – CNR, and the Wiscar Laboratory of Madison University. By means of 40Ar/39Ar dating on the volcanic products the researchers have reconstructed the eruptive history of the Colli Albani during the last 600,000 years and have established that eruptive cycles occurred with a fairly regular average recurrence time, and that the time elapsed since the last eruption (36,000 years) overruns the recurrence time of 31,000 years observed in the last 100,000.
This means that the volcanic area is active and “ready” for a new eruption.
Moreover, new satellite (InSar) data covering the years 1993-2010 revealed ongoing inflation with maximum uplift rates of 2-3 mm/yr in the area hosting the craters of most recent volcanic activity, suggesting that the observed uplift might be caused by injection of new magma. Finally, the researchers have found geologic evidence for a recent (<2000 years) switch of the local stress-field from a previous compressive state, sealing fractures and faults representing potential pathways for uprising of deep fluids, to an extensional state favorable to magma uprising.
These observations highlight that the Colli Albani volcanic area is slowly waking up, and it may be affected by a new eruption in the next thousands years.

Franco dell’Aquila

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Franco dell’Aquila è autore di oltre cento lavori tra monografie e articoli su riviste italiane e straniere. Tra i saggi si ricordano: Insediamenti rupestri di Laterza (1971); L’insediamento rupestre di Petruscio (1974); Insediamenti rupestri e ipogei di Bari (1977); Il Templon nelle chiese rupestri dell’Italia Meridionale (1989); Considerazioni sull’architettura delle chiese rupestri del materano (1995); Le chiese rupestri di Puglia e Basilicata (1998); Lama d’Antico (Fasano) (2004); Abitazioni rupestri a Nalut (Libia) (2007); Il villaggio rupestre della Madonna della Scala a Massafra (2008); Note sull’organizzazione urbanistica degli insediamenti rupestri. Tra Puglia e Mediterraneo (2008); Note sull’arco arabo in Cappadocia (2008); L’iconostasi nelle chiese rupestri pugliesi (2008); L’organizzazione dello spazio nell’insediamento rupestre della Madonna della Scala a Massafra (TA ) (2009); La moschea rupestre di Tnumaiat (Gebel Garbi, Tripolitania, Libia) (2010); Facades of Cappadocian Churches: Morphological analysis and excavation techniques (2012); Moschee rupestri (2012); Forme dell’insediamento: Palagianello (2012); Moschee rupestri in Cappadocia (2014); Moschee rupestri nel Gebel Nefusa occidentale (Libia) (2014). È autore di oltre 200 articoli divulgativi riguardanti l’habitat rupestre.

La situazione del Marine Litter nel Mediterraneo

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Unep/Map ha lanciato la sua valutazione sul Marine Litter (rifiuti in mare) nel Mediterraneo il 26 maggio 2016, nell’ambito dell’Assemblea delle Nazioni Unite sull’Ambiente (Unea) che si è tenuta a Nairobi, in Kenya.

In essa si conferma che il Marine Litter è uno dei maggiori problemi del Mediterraneo, aggravato dal limitato scambio idrologico del bacino con gli oceani, come anche dalla pressione che arriva dalle sue zone costiere ad alta densità di popolazione e ad elevato sviluppo turistico, insieme all’impatto del 30% del traffico marittimo mondiale, che transita tutto all’interno del Mediterraneo, e alle aggiunte di rifiuti plastici che vengono dai fiumi e da aree pesantemente urbanizzate.
Il report si basa sulla valutazione dello stato del Marine litter nel Mediterraneo del 2008, preparata da Unep/Map Med Pol, e conferma molti dei suoi risultati.
A confronto con la valutazione del 2008, questo rapporto aggiornato fornisce dati su rifiuti e immissione di plastiche per ogni paese del Mediterraneo e specifica quali sono le maggiori fonti di marine litter, le modifiche nella loro composizione e il percorso del loro trasporto, presentando risultati aggiornati della modellazione e aggiungendo una rassegna completa dei dati relativi ai quattro compartimenti dell’ambiente marino (spiagge, superficie, fondo marino e rifiuti ingeriti).
Il report fornisce anche dati originali e informazioni sulle micro-plastiche, sul materiale da pesca abbandonato e il suo impatto, ed entra nel dettaglio delle possibili misure di riduzione, specialmente di quelle che sono più importanti per il Mar Mediterraneo. Nella pubblicazione sono stati integrati anche i risultati del monitoraggio e gli studi nazionali e regionali sul marine litter.
A questo link, il report integrale con tutti i dati (in inglese)