Manifestazioni e «conti»

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Ci son state molte altre sceneggiate intermedie; la proposta di costruire un impianto di arricchimento dell’uranio per diffusione gassosa, Coredif, alimentato da quattro centrali nucleari da 1.000 megawatt ciascuna, da collocare in qualche posto, o a Pianosa o a San Pietro Vernotico, in Puglia, saltata prima che si cominciasse a parlarne. Qualcuno propose di costruire una centrale nucleare sulla Murgia, in Puglia, pompando l’acqua di raffreddamento dal mare. L’Enel intervenne con un terzo del capitale nella costruzione del reattore «veloce» francese Superphenix, «raffreddato» a sodio metallico. L’Italia partecipava con il 25 % al capitale dell’impianto francese di arricchimento dell’uranio per diffusione gassosa Eurodif, in cambio del diritto di ottenere uranio arricchito. Qualcun altro pensava alla costruzione di una nave a propulsione nucleare e forse magari ad una bomba atomica.

Nello stesso tempo si moltiplicavano manifestazioni, petizioni, proteste e anche critiche tecnico-economiche al vecchio programma energetico. Cito, per tutte, la «dichiarazione» datata 27 marzo 1976 su cui Italia Nostra raccolse in tutta Italia alcune migliaia di firme fra cui quelle prestigiose di Giorgio Bassani, Elena Croce, Antonio Cederna, Adriano Buzzati Traverso (e anche da me).

«Di fronte ai programmi di sviluppo della produzione di energia nucleare adottati dalle pubbliche autorità i sottoscritti cittadini ritengono che si tratti di decisioni estremamente azzardate assunte senza le necessarie cautele e senza la cosciente partecipazione della popolazione e dichiarano quanto segue:

1. L’energia elettrica ottenuta per via nucleare non è né economica, né pulita, né sicura.

2. Le valutazioni della presunta convenienza economica sono state fatte sulla base di costi degli impianti non aggiornati che non tengono conto delle spese necessarie per la custodia e lo smaltimento dei residui radioattivi e degli impianti fuori uso ineliminabili.

3. La scelta nucleare proposta condanna ugualmente l’Italia ad una dipendenza, inevitabile in ogni grande processo produttivo, da capitali stranieri e da brevetti, forniture e tecnologia, detenuti da pochi gruppi monopolistici, con tutte le conseguenze politiche e che ne derivano; tale scelta crea, anzi, condizioni peggiori di quelle attuali di dipendenza da combustibili tradizionali che almeno sono intercambiabili fra loro e possono essere acquistati su mercati diversi.

4. La scelta nucleare implica altresì rischi di incidenti catastrofici di portata e scala imprevedibili, che possono essere determinati anche da sabotaggi: variazioni climatiche e alterazioni agli ecosistemi naturali, che possono derivare dal grave inquinamento termico; la produzione di crescenti quantità di sottoprodotti radioattivi altamente pericolosi e difficilmente conservabili in maniera sicura.

5. Alcuni di questi sottoprodotti radioattivi costituiscono la materia prima per le bombe atomiche cosicché la scelta nucleare contribuisce alla diffusione degli armamenti e alla instabilità internazionale contraria agli interessi della pace.

6. I problemi prioritari dell’occupazione non trovano alcuna soluzione con la semplice moltiplicazione dei consumi e con la produzione di grandi quantità di energia, che favorisce solo lo spreco e lo sviluppo di industrie ad alto impiego di capitale e di energia per addetto.

Tutti questi problemi sono tenuti nascosti nel programma energetico nazionale


impedendo alla popolazione di assumere una chiara coscienza dei rischi, delle conseguenze e delle possibili alternative che sono connesse alla politica energetica in corso.

Pertanto, i sottoscritti chiedono che le ipotesi di sviluppo del consumo di energia vengano rivedute, tenendo conto delle maggiori possibilità di occupazione offerte da una politica di risparmio dell’energia e dopo aver chiarito come, cosa si intende produrre e per chi.

Domandano, infine, che venga sospesa l’approvazione del programma nucleare e che gli altissimi investimenti previsti per le centrali nucleari, ben più alti di quelli indicati all’opinione pubblica, vengano utilizzati in opere pubbliche ad alto impiego di mano d’opera, con priorità per i servizi collettivi relativi alla difesa del suolo e alla riforestazione, all’educazione, alla salute, alle abitazioni e vengano impiegati per ricerche dirette alla migliore utilizzazione e al risparmio dell’energia disponibile e all’impiego di fonti di energia alternativa.

In risposta a questo movimento la Commissione Industria della Camera, presieduta dall’on. Fortuna, avviò una indagine conoscitiva che durò dal novembre 1976 all’aprile 1977 e che, nel maggio 1977, produsse un documento destinato al governo e al Cipe.

La conclusione fu la decisione di costruire subito soltanto 12-13 centrali nucleari, invece di venti, e altre otto da avviare entro il 1985. Infine nel dicembre 1977 veniva approvato dal Cipe un secondo «programma energetico nazionale». Nel 1979 l’Enea/Disp aveva pubblicato un documento denominato «Carta dei siti» che indicava le possibili zone in cui localizzare le centrali.

Three Mile Island e Chernobyl

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Arrivarono però eventi tempestosi; nel marzo 1979 ebbe luogo l’incidente al reattore americano di Three Mile Island; non morì nessuno (almeno per il momento) ma la favola della sicurezza delle centrali nucleari venne messa in discussione; il governo fu costretto a indire una indagine sulla sicurezza nucleare che espose i risultati in una grande conferenza a Venezia nel gennaio 1970. Apparve così che le norme internazionali sulla sicurezza nucleare erano più rigorose di quanto si pensasse e questo offrì sostegno agli oppositori delle centrali nucleari che nel frattempo si erano moltiplicati, non solo come associazioni ambientaliste, ma anche come popolazioni dei luoghi in cui era prevista la costruzione delle centrali.

Nel luglio 1981 il ministro dell’Industria Pandolfi rese noto un terzo piano energetico nazionale. Gli obiettivi prevedevano che nel decennio degli anni Ottanta entrasse a pieno in funzione la centrale di Caorso (850 megawatt), entrassero in funzione le due unità da 1.000 megawatt ciascuna di Montalto di Castro, venissero costruite ed entrassero in funzione altre quattro unità da 1.000 megawatt ciascuna.

Negli stessi anni l’Italia dovette ridurre dal 25 al 16,5 % la sua partecipazione all’impianto Eurodif e dovette svendere una parte dell’uranio arricchito per cui l’Italia si era già impegnata e di cui non aveva più bisogno in seguito al ridimensionamento delle prospettive iniziali.

Quanto alle zone in cui localizzare le altre dodici future centrali nucleari, previste come «unità standard», di reattori ad acqua sotto pressione PWR Westinghouse, si legge nel Pen del 1981 che i siti possibili risultano:
– Piemonte: centrale nucleare con due unità standard in una delle due aree già individuate lungo il corso del Po;
– Lombardia: centrale nucleare con due unità standard in un sito da definire in una delle due aree già individuate nella Lombardia sud-orientale (sarebbero poi state Viadana e San Benedetto Po);
– Veneto: centrale nucleare con due unità standard in un sito da definire in una delle due aree già individuate nel Veneto sud-orientale;
– Toscana: centrale nucleare con due unità standard nell’Isola di Pianosa;
– Campania: centrale nucleare con una unità standard lungo l’ultimo tratto del fiume Garigliano;
– Puglia: centrale nucleare con due unità standard in una delle aree già individuate nel Salento (sarebbero state Avetrana e Carovigno);
– Sicilia: centrale nucleare con una unità standard in una delle due aree già individuate nel Ragusano.

Il programma ebbe breve vita; il primo atto della commedia del nucleare in Italia si chiuse praticamente dopo la catastrofe al reattore nucleare di Chernobyl (aprile 1986) a cui fece seguito il referendum del novembre 1987 che fermava le costruzioni e chiedeva l’uscita dell’Italia dal reattore Superphenix.

A parte la chiusura delle vecchie centrali di Latina, di Trino Vercellese e del Garigliano, alla fine dell’avventura nucleare si aveva:
Caorso: centrale avviata nel 1981, fermata nel 1986; il combustibile irraggiato è depositato in una piscina;
Montalto di Castro: centrale ordinata nel 1973; avvio dei lavori nel 1988; sospesa la costruzione nel 1988; trasformata in una centrale termoelettrica a metano/olio


combustibile.
Quanto al reattore Superphenix non ci fu bisogno del referendum per uscirne. La produzione di elettricità era iniziata nel 1985; il reattore aveva incontrato vari incidenti nel 1990; e la centrale fu chiusa nel 1997, con la perdita netta dei soldi Enel, cioè dei cittadini italiani, in tale impresa.

Quanto alle scorie radioattive che si stavano formando, i vari Pen citati consideravano il problema della loro sistemazione qualcosa da decidere in futuro. Oggi le scorie sono ancora in gran parte dove erano allora, con l’aggiunta dei materiali radioattivi provenienti dal graduale smantellamento delle vecchie centrali. Risultava insomma confermato quello che in tanti avevano detto: l’energia nucleare non è economica, non è sicura e non è pulita.

Il risveglio del nucleare

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La passione per il nucleare è rimasta dormiente per tanti anni. «Finalmente» si è risvegliata «grazie» alla scoperta dell’effetto inquinante dell’anidride carbonica emessa dalle centrali termoelettriche a combustibili fossili e responsabile dei mutamenti climatici, e «grazie» all’aumento del prezzo del petrolio. Si arriva così alla svolta storica a cui facevo cenno all’inizio, con le stesse illusorie parole di allora: gruppo di centrali nucleari, promessa di grandi quantità di energia, promessa di basso costo dell’elettricità, rispetto dell’ambiente.

È il secondo atto della commedia del nucleare italiano. Di centrali cosiddette «di nuova generazione», cioè con maggiore sicurezza e minore inquinamento, ce ne sono varie disponibili in commercio: peraltro non se ne acquista una come si sceglierebbe una automobile. Immagino che il governo pensi alle centrali nucleari cosiddette «di terza generazione» (EPR3) della potenza di circa 1.600 megawatt. Ne esistono due, una finlandese ad Olkiluoto, a metà del suo cammino costruttivo, una in Francia a Flamanville, nel nord della Francia (in costruzione da qui al 2012 e oltre), con la partecipazione finanziaria del 12,5 % dell’Enel.

Si tratta di centrali ad acqua leggera funzionanti con acqua sotto pressione a ciclo uranio-plutonio, alimentate con uranio arricchito a circa il 5 % di uranio-235. Il calore che si libera dalla fissione dell’uranio-235 viene trasferito ad una massa di acqua sotto pressione a circa 150 atmosfere e circa 300 gradi che circola in un circuito «primario» di tubazioni, e viene poi trasferito ad altra acqua (circuito «secondario») che si trasforma a sua volta in vapore e fa girare le turbine del generatore di elettricità.

Un flusso di acqua di raffreddamento (circa 70 metri cubi al secondo, quasi un fiume, di acqua marina che ritorna, scaldata, nel mare, da cui si deve produrre anche acqua distillata per dissalazione per l’alimentazione delle caldaie) trasforma di nuovo il vapore in uscita dalle turbine in acqua liquida che torna nella caldaia del circuito secondario. In queste centrali l’acqua del circuito primario del reattore, radioattiva, non viene a contatto con l’acqua del circuito secondario. Secondo quanto è noto, il reattore utilizzerà circa 30 tonnellate all’anno di uranio arricchito; il combustibile irraggiato estratto ogni anno conterrà plutonio (circa 300 kg all’anno) e altri elementi di attivazione radioattivi e i prodotti di fissione, circa 1.000 kg all’anno, fra cui cesio, stronzio e altri, tutti radioattivi. La produzione di elettricità dovrebbe essere circa 10 milioni di megawattore all’anno (circa 10.000 GWh all’anno; la produzione italiana di elettricità è di circa 350.000 GWh/anno).

I reattori di nuova generazione scoppiano come quello di Chernobyl? Molto probabilmente no perché sono circondati da un doppio involucro di protezione di cemento armato e sono dotati di speciali accorgimenti di raccolta del fluido del reattore, nel caso si verificasse una frattura nella zona contenente la radioattività.

Non voglio discutere la promessa di elettricità a costi competitivi: chiunque ha pratica di analisi dei costi di produzione di una merce, nel nostro caso l’elettricità, sa bene come si possano avere risultati diversissimi a seconda


di come si calcolano i costi di impianto, la politica di ammortamento degli investimenti, i costi della materia prima; nel caso delle centrali il costo del minerale di uranio, dell’arricchimento, dell’energia utilizzata nella varie fasi, i costi dello smantellamento degli impianti, i fattori di utilizzazione, e questo per l’elettricità di origine nucleare rispetto a quella ottenuta da altre fonti, fossili o rinnovabili che siano. Con opportuni artifizi contabili il «costo» di una merce ottenuta con un processo può risultare inferiore o superiore al costo della stessa merce ottenuta con un altro processo.

Qui voglio considerare invece se la localizzazione, la costruzione e il funzionamento delle eventuali future centrali nucleari avverrà o no «nel rispetto dell’ambiente». Sono circolate notizie su possibili «siti» in cui le centrali potrebbero essere costruite, con nomi presto smentiti, anzi con la precisazione che le relative notizie vere saranno coperte dal segreto di Stato ai sensi del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 aprile 2008, entrato in vigore il 1° maggio.

La scelta di una località adatta per «ospitare» una centrale nucleare presuppone alcune conoscenze: prima di tutto occorre sapere quante centrali e di quale tipo si prevede la costruzione. Già le poche cose dette sulle centrali «di nuova generazione» indicano che il reattore, il circuito delle turbine, gli impianti di presa e di circolazione dell’acqua di raffreddamento, sono grosse strutture, del volume di circa un milione di metri cubi, che contengono una massa di cemento, acciaio e materiali vari di circa un milione di tonnellate, su una superficie di una ventina di ettari.

La centrale deve essere installata in una zona dove è disponibile molta acqua di raffreddamento (dato lo stato e la portata dei nostri fiumi, l’unica soluzione è data dall’uso dell’acqua di mare), su suolo geologicamente stabile e senza rischi di terremoti: i due reattori in costruzione, quello finlandese e quello francese, sono collocati in due promontori di rocce granitiche in riva al mare. Una eventuale centrale dovrebbe essere vicino ad un grande porto perché una parte dei macchinari deve essere importato via mare; il contenitore del reattore finlandese è stato costruito in Giappone.

Qui comincia il lavoro degli analisti del territorio; si tratta di percorrere le coste italiane e vedere se si trova una zona adatta per una o per «il gruppo» di centrali annunciate. Ci sono naturalmente molti altri fattori da considerare partendo dalla vecchia (1979) «carta dei siti» ritenuti idonei alla localizzazione delle centrali nucleari allora previste, che erano più piccole e con minori vincoli di localizzazione. Già allora, comunque, le norme internazionali indicavano la necessità di avere, intorno alle centrali nucleari, una zona di rispetto del raggio di circa 15 chilometri nella quale non dovevano trovarsi città o paesi, strade di grande comunicazione e ferrovie, impianti industriali, depositi di esplosivi, installazioni militari.

Anche se la, o le, localizzazioni delle nuove centrali saranno coperte dal segreto di Stato, ci sarà pure un giorno (il governo ha dichiarato che i «siti» per le future


centrali saranno individuati entro il 2008) in cui i cittadini di una qualche zona d’Italia vedranno arrivare sonde e geologi e ruspe e recinzioni e gli amministratori locali dovranno fare i conti con autorizzazioni e espropri. Sarà quello il tempo in cui gli abitanti delle zone interessate vorranno interrogarsi su quello che sta succedendo, sulla propria sicurezza futura, sul destino delle acque sotterranee e delle spiagge e coste. Non sarà il segreto o il controllo militare a impedire ai cittadini di informarsi, di leggere le carte geologiche e la frequenza dei terremoti, le norme internazionali di sicurezza delle centrali.

Il nodo delle scorie

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Un’ultima osservazione voglio fare sulla promessa compatibilità ambientale dell’energia nucleare, soprattutto in relazione alla sistemazione delle scorie nucleari, a cominciare dal «combustibile irraggiato», le barre di uranio estratte dai reattori dopo uno o due anni di funzionamento e contenenti uranio-238, una parte residua di uranio-235, elementi transuranici e prodotti di fissione. Si tratta di materiali diversissimi chimicamente, con differenti tempi di dimezzamento (il tempo durante il quale perdono metà della radioattività originale), che vanno posti in depositi che vanno tenuti sotto controllo per mesi, o per anni e decenni o per migliaia di anni. La loro pericolosità per la vita varia a seconda della composizione chimica e della radioattività che a sua volta varia continuamente nel tempo. Il combustibile irraggiato deve restare per anni in adatte «piscine» nelle quali perde una parte della radioattività generando calore, per essere poi «ritrattate» per separare le varie componenti, le vere e proprie scorie, o sepolte per tempi lunghissimi.

Dove mettere le scorie radioattive esistenti, note e inventariate e quelle che continuamente si stanno formando? La risposta ragionevole è: nessuno lo sa. In giacimenti scavati nel granito? nelle miniere di sale abbandonate (ricordiamo la commedia della proposta governativa di depositare i rifiuti a Scanzano Ionico)? in terreni argillosi? in fondo al mare? nello spazio interplanetario, lanciate da speciali missili? Pochi problemi tecnico-scientifici hanno avuto risposte fantasiose e illusorie come quello dello smaltimento delle scorie nucleari.

Con le scorie radioattive dovremo convivere per tutta la vita e anzi la loro quantità tenderà a crescere e assumerà, col passare del tempo, anche nuovi caratteri. Possiamo seppellire le scorie radioattive in qualche deposito per il quale possiamo chiedere alle generazioni future una sorveglianza affidabile? La risposta è «no». Il grande fisico, pur fautore dell’energia nucleare, Alvin Weinberg, scrisse: «Noi nucleari proponiamo un patto col diavolo; possiamo fornire energia a condizione che le società future assicurino una stabilità politica e delle istituzioni quali mai si sono avute finora». E, guardandosi intorno, di tali società non esistono certo oggi tracce nel mondo.

In quale maniera sarà possibile avvertire coloro che vivranno fra centinaia e migliaia di anni, accanto ad un deposito di scorie nucleari, che devono continuare a vigilare attentamente perché il materiale depositato non sia esposto a infiltrazioni di acqua, non venga a contatto con forme viventi? Il plutonio-239 perde metà della propria radioattività ogni 24.000 anni e quindi è ancora radioattivo dopo 200.000 anni. Se si pensa ad una sepoltura che sia sicura e protetta anche solo fra diecimila anni (un periodo nel quale possono nascere e scomparire interi imperi) c’è da chiedersi in quale lingua e in quale modo si può mettere un avviso, all’ingresso dei depositi di scorie: «Attenzione: non avvicinatevi», in quale lingua dovremmo scrivere il messaggio? con quali segni? e chi tramanderà la leggibilità di tale avvertimento?

L’americano Sebeok, uno studioso della comunicazione, ha suggerito che occorrerebbe organizzare una «casta sacerdotale atomica», di durata eterna, in grado e col compito di tramandarsi nel corso delle 300 generazioni che si


susseguirebbero nei diecimila anni, la lingua e il significato di quel cartello apposto sul cimitero delle scorie radioattive e dei residui delle centrali e degli impianti contenenti materiali radioattivi. E poi su quale supporto l’eventuale messaggio custodito dai sacerdoti atomici può essere tramandato a tutti gli abitanti del pianeta per 300 generazioni? Qualsiasi successo di qualsiasi tecnologia di sepoltura dei materiali radioattivi sembra impossibile e questo conferma la necessità di fermare la diffusione delle centrali e delle attività nucleari, anche considerando lo stretto legame fra nucleare commerciale e militare. A conferma cito per tutti un lungo articolo apparso, col titolo: «I rifiuti eterni (The forever waste)» apparso nel fascicolo del 5 maggio 2008 nella rivista «Chemical and Engineering News», il settimanale della Società Chimica americana che non può certo essere tacciata di furore antinucleare o ecologista. La più avanzata proposta di «sepoltura eterna» delle scorie radioattive americane, nel ventre di Yucca Mountain, nel deserto del Nevada, è stata fermata e resterà sospesa per anni.

Vorrei concludere con una modesta considerazione ispirata agli eventi del primo atto dell’avventura nucleare e che affido a coloro che propongono, e che si opporranno, al secondo atto di tale avventura, appena iniziata. «Se» i soldi spesi negli anni 1973-1986 per il nucleare (per la propaganda, per impianti che non sarebbero mai entrati in funzione, per disastri territoriali, per arginare i conflitti popolari) fossero stati spesi per il potenziamento delle fonti rinnovabili, già mature nei primi anni Settanta, per il risparmio energetico, la ristrutturazione produttiva, una nuova urbanistica attenta alla difesa del suolo (proprio quello che dicevano Italia Nostra già nel 1976 e tanti altri in quegli anni Settanta del Novecento) saremmo oggi il paese più industrializzato e scientificamente avanzato d’Europa. Quante delusioni, quanto tempo e quanti soldi buttati al vento!

L’idrometano contro il caro petrolio

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Il presidente dell’Amgas Alfonso Pisicchio, il vicepresidente Carofiglio e il professor Nicola Conenna dell’Università dell’Idrogeno hanno presentato il progetto mettendo in risalto come l’idrometano possa rappresentare lo strumento di una nuova rivoluzione industriale, la terza rivoluzione profetizzata dall’economista Rifkin, mirata ad un netto miglioramento della qualità della vita dei cittadini pugliesi, poiché andrebbe a ridurre di circa l’80?90% l’inquinamento ambientale dovuto ai mezzi di trasporto.
«Per quanto riguarda la città di Bari ? ha puntualizzato Conenna ? possiamo osservare che i problemi di inquinamento dell’aria sono dovuti essenzialmente alla mobilità urbana e al riscaldamento e raffrescamento degli edifici, in assenza di grandi impianti industriali inquinanti come nel caso delle città pugliesi di Brindisi e Taranto (fra le più inquinate del mondo). Questo perché l’idrometano ci consente non solamente di affrontare la questione del costo economico dei combustibili di derivazione fossile ma anche aspetti legati, soprattutto nei centri urbani, alla salute dei cittadini. Con il metano e l’idrometano si ottengono dei forti abbattimenti delle principali fonti di inquinamento dell’aria, quali le polveri sottili, il benzene e altri».

Viene puntualizzata l’importanza di questo innovativo modello energetico perché viene prodotto da fonti rinnovabili locali che progressivamente andrebbero a mescolarsi con il gas naturale.
«Questa sperimentazione ? ha ancora precisato il presidente dell’Università dell’Idrogeno ? riguarderà sia i punti di distribuzione che l’adeguamento dei veicoli e lo sviluppo normativo. Parlare di mobilità a metano-idrometano-idrogeno significa anche occuparsi del fronte mare. In questa occasione l’H2U vuole anticipare che sta lavorando alla definizione di un progetto di peschereccio a metano liquido, allo scopo di risollevare le sorti del settore pesca, praticamente rovinato dall’aumento del costo del gasolio. Il riferimento principale per questo progetto sarà il porto di Mola di Bari».

L’idrometano risulta anche la soluzione per superare il problema dell’eccessivo aumento del prezzo dei prodotti petroliferi, ormai irrefrenabile: «È stato accertato un incremento del costo del petrolio di circa il 350% negli ultimi cinque anni», ha affermato Conenna.
È evidente come le nuove scoperte tecnologiche possano garantire la tutela dell’ambiente. (G. M.)

Gli interventi di Monno e Maugeri

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In mattinata è stata siglato a Bari, nella sede dell’Amgas, un Protocollo d’intesa tra l’Università dell’idrogeno H2U, con sede a Monopoli e, appunto, l’Amgas.
Dopo gli interventi del Presidente Alfonso Pisicchio e del prof. Nicola Conenna è stata la volta dell’assessore Michele Monno, che ha citato alcune cifre riguardanti l’attuale parco automezzi in dotazione della municipalizzata Amtab: composto da 90 automezzi a metano e annunciando l’acquisto di altri 25 autobus cittadini.
L’Assessore ha, poi, confermato la notizia che sarebbe già in fase di realizzazione una stazione di rifornimento per gli automezzi, che permetterebbe di risolvere gli attuali problemi legati ai lunghi tempi che occorrono per rifornire di metano i suddetti mezzi pubblici, affrancando in tal modo le casse pubblico-private dell’Amtab dall’aggravio delle spese dovute ai lunghi tempi di rifornimento. Monno chiude il suo intervento prevedendo la costruzione di una stazione di idrometano per il futuro più prossimo.

L’assessore alle Politiche ambientali del Comune di Bari dott.ssa Maria Maugeri apre il suo intervento sottolineando l’importanza dell’occasione, per la quale il Comune di Bari, la Regione Puglia e l’Università dell’idrogeno H2U (con sede a Monopoli), quest’oggi, firmano questo Protocollo d’intesa denominato «Energia pulita subito».
Questo Protocollo si ritiene che possa essere una base solida ad un progetto importantissimo per il futuro, ormai non troppo lontano: convertire ad idrogeno (idrometano) l’intero settore dei trasporti, e non solo, affrancandoci dalla catena degli idrocarburi (benzina e gasolio).
«È una battaglia tutta ideologica e di principi», così l’assessore all’Ambiente, spiega la scelta di proseguire sulla strada della ricerca e della sperimentazione delle fonti rinnovabili, in particolare nella Puglia di Vendola, accogliente salotto di illustri scienziati e studiosi, non da ultimo Jeremy Rifkin, padre della stessa definizione economia all’idrogeno.
La Maugeri non risparmia attacchi frontali all’attuale titolare del ministero dell’Ambiente, colpevolmente assente riguardo ai temi dell’energie rinnovabili, e ancor più colpevole di alimentare una discussione in seno all’implementazione di impianti nucleari di nuova generazione; quando, in realtà, sul territorio nazionale ci sono centrali nucleari a dir poco obsolete, che a detta della Maugeri per divenire di nuova generazione «avrebbero bisogno di circa trent’anni di investimento e ricerca».
Nota positiva, che la Maugeri tiene a citare, è la proposta della Giunta Vendola, peraltro già discussa in Consiglio, di promuovere attraverso un bando pubblico, l’implementazione di pannelli fotovoltaici per il fabbisogno energetico di scuole e altre strutture di pubblico servizio, puntando all’autoproduzione energetica, dal risparmio economico delle casse pubbliche alla diminuzione drastica di fonti inquinanti.
L’ass. comunale all’Ambiente conclude sottolineando che per il momento non ci sono delle stime precise in riguardo alla tempistica, né tantomeno ai costi che saranno supportati. (V. S.)

Energia solare e produttività degli ecosistemi

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La frazione di energia del sole che diventa biomassa vivente è così bassa (in media l’1% ed è nota come efficienza ecologica di fotosintesi) perché non tutte le lunghezze d’onda dello spettro solare sono utilizzate nella fotosintesi. Infatti, i vegetali terrestri usano la parte visibile della radiazione (non l’ultravioletto né l’infrarosso) nella banda del rosso e del blu. Inoltre, una grossa frazione della radiazione, anche di quella utile, non viene captata dai sistemi fotosintetici delle piante ma finisce sul suolo nudo, sulle rocce, sulla sabbia dei deserti, sui ghiacci polari e su tante altre superfici dove non ci sono vegetali.
Poiché i vegetali sono in grado di «produrre il cibo» autonomamente, a partire da energia radiante e semplici molecole inorganiche, come acqua, anidride carbonica e sali minerali, sono noti come organismi autotrofi, in particolare foto-autotrofi. La velocità di trasformazione dell’energia radiante in energia chimica è nota come produttività primaria per cui gli organismi che la realizzano sono anche noti come produttori. I vegetali, comunque, come tutti gli esseri viventi, utilizzano parte di questa energia chimica per i vari processi vitali tra cui anche l’assorbimento dell’acqua e dei nutrienti. Quindi, dell’energia radiante trasformata in energia chimica (produttività primaria lorda), una parte più o meno cospicua viene spesa nel mantenimento (respirazione). Quello che rimane al netto di questi costi di mantenimento costituisce l’accumulo di sostanza organica da parte dei vegetali ed è nota come produttività primaria netta.

Questa è, dunque, la fonte di sostentamento di tutti gli organismi eterotrofi ossia di quelli che prendono energia alimentare mangiando altri organismi (erbivori e carnivori) o utilizzando sostanza organica morta (detritivori e decompositori). Pertanto, la produttività primaria netta è la risorsa di cibo del pianeta. Attraverso il processo di fotosintesi gli organismi vegetali producono ogni anno circa 170 miliardi di tonnellate di sostanza organica. I due terzi sono prodotti sulle terre emerse (circa 115 miliardi di tonnellate) e un terzo negli oceani (circa 55 miliardi di tonnellate) (Whittaker, 1975).
La maggior produttività delle terre emerse è principalmente dovuta alla rilevante (sebbene notevolmente ridotta dall’uomo) copertura vegetale rappresentata dalle foreste e, in misura minore, dalle praterie e dalle terre coltivate. Foreste e boschi, savane e praterie, brughiere e macchie, costituiscono ecosistemi di vastissime estensioni in cui l’habitat è strutturato da organismi vegetali che producono cibo in forma di fibre, foglie, frutti, semi, fiori, linfa ed essenze vegetali. Tutta energia alimentare utilizzata in prima battuta dagli erbivori ma che sosterrà, indirettamente, anche la vita dei carnivori e dei decompositori.

La produttività degli oceani, invece, è principalmente dovuta al fitoplancton, ossia un complesso di organismi microscopici unicellulari, con breve ciclo vitale, che galleggiano in prossimità della superficie delle acque dove vi è disponibilità di radiazione solare. Le dimensioni microscopiche del fitoplancton precludono l’accumulo di biomassa vegetale in mare aperto. Oltre i 200 m di profondità (la profondità media degli oceani è di circa 4.000 m) la penetrazione della radiazione solare è trascurabile e, pertanto, non è possibile la vita vegetale nelle profondità marine. Nelle zone


costiere, invece, la presenza di organismi vegetali di maggiori dimensioni (alghe e piante superiori) ancorati sul fondo dove arriva la radiazione solare, determina un notevole incremento di biomassa e parallelamente di produttività. Possono strutturarsi così, anche nel mare, ecosistemi in cui la componente vegetale costituisce l’habitat di numerosi organismi erbivori, carnivori e decompositori.

Energia ausiliaria e uso della produttività in ambiente terrestre

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Alcuni ecosistemi si presentano particolarmente produttivi poiché, oltre alla disponibilità di energia radiante, di acqua e nutrienti (azoto, fosforo), usufruiscono di apporti ausiliari di energia. L’energia fondamentale che i vegetali trasformano in energia chimica, attraverso la fotosintesi, è quella del sole. Gli apporti ausiliari di energia si configurano in meccanismi ambientali che consentono di ridurre i costi di mantenimento a favore della crescita dei vegetali. Per esempio, una corrente marina che renda disponibili maggiori quantità di azoto e fosforo per le alghe che potranno assorbirli con minore spesa energetica, determinerà un incremento di produttività primaria netta.

L’intervento dell’uomo nei sistemi agricoli, dall’irrigazione alla concimazione, dal controllo dei parassiti alla selezione genetica, si configura come energia ausiliaria che riduce i costi di mantenimento delle colture a favore di una maggiore produttività. Così il frumento o il mais spendono molto meno per assorbire acqua e nutrienti o per difendersi dai parassiti e quello che non viene speso per queste «faccende», risolte dall’uomo con investimenti energetici (ed economici), può essere accumulato nei tessuti eduli.
Attraverso la selezione genetica è stato favorito in molte colture il «rapporto di resa» ossia il rapporto tra la parte commestibile e quella non commestibile. Però piante con un elevato rapporto di resa dispongono di minore strutture e fibre per la propria autoprotezione, per cui deve intervenire l’uomo con energie ausiliarie che forniscano protezione da parassiti e insetti nocivi.

Stando alle stime riportate da Whittaker (1975), le terre coltivate, che coprono una superficie di circa 14 milioni di kilometri quadrati, producono annualmente circa 9 miliardi di tonnellate annue di sostanza organica. Questa cifra corrisponde a circa l’8% della produttività primaria netta delle terre emerse. Ovviamente, non tutta questa produttività corrisponde a prodotti alimentari per il consumo umano. Il raccolto destinato al consumo animale (mucche, cavalli, maiali, pecore, polli) supera di 5 volte quello destinato al consumo umano (Odum, 2001). Inoltre, molti terreni coltivati sono destinati alla produzione di fibre, di legno e, negli ultimi tempi, di biomasse vegetali per ottenere combustibili. Infine, esiste una notevole quantità di scarti dai raccolti (radici, foglie, cortecce, rami etc.) rispetto alle parti commestibili. Anche questi scarti, comunque, potrebbero essere utilizzati in differenti modi, dalla concimazione dei terreni alla produzione di energia.
Vitousek e collaboratori in un famoso articolo del 1986 (Human appropriation of the products of photosynthesis) indicava che l’uomo utilizza ogni anno per sé e per gli animali domestici soltanto il 3% della produttività terrestre come fonte di cibo ma se ne appropria di circa il 40% per altri scopi, tra cui la produzione di beni non commestibili, risorse di vario tipo estratte dalle foreste, tagli e incendi boschivi, pastorizia, rimozione di territorio naturale per attività umane (strade e infrastrutture), erosione dei suoli e conseguente desertificazione.

La produzione di cibo dall’agricoltura è aumentata enormemente nel secolo scorso grazie alla meccanizzazione, irrigazione, impiego di fertilizzanti e pesticidi. Ma questo è avvenuto soprattutto nei paesi industrializzati che dispongono di risorse economiche (energia ausiliaria) per muovere macchine, trattori e pompe


nonché per produrre fertilizzanti e pesticidi. L’agricoltura intensiva dei paesi industrializzati è sostenuta da una fonte energetica gratuita e pressoché inesauribile, quella radiante, e da una a costi sempre più elevati perché in esaurimento, quella del petrolio. L’agricoltura intensiva dei paesi industrializzati ha aumentato la produzione di cibo destinato al consumo umano, ma anche determinato profonde alterazione dell’habitat. Basti pensare al disboscamento o all’inquinamento delle acque prodotto dall’uso di fertilizzanti e pesticidi. Pertanto, per una corretta valutazione del reale beneficio sociale derivante da questo tipo di agricoltura bisognerebbe aggiungere ai costi energetici ausiliari quelli del degrado ambientale.

Considerando che per raddoppiare il rendimento dei raccolti bisognerebbe decuplicare gli input di energia ausiliaria (Odum, 2001), si capisce perché la produzione di cibo nei paesi in via di sviluppo è ancora molto bassa rispetto alle esigenze della popolazione. Nella parte povera del pianeta, l’incremento nella produzione di cibo è determinato soprattutto dall’aumento di terra coltivata piuttosto che dall’aumento dei rendimenti delle colture.
Purtroppo, l’aumento di terra da coltivare viene realizzato con il taglio della foresta tropicale ottenendo risultati tragici su differenti fronti.
Infatti, i suoli dei tropici sono poveri di nutrienti poiché il loro ciclo si realizza soprattutto all’interno della biomassa vivente degli alberi con il supporto di organismi simbionti, come funghi delle micorrize, alghe e licheni. Una volta tagliata la foresta l’humus esposto all’intensa radiazione solare e alle elevate temperature dei tropici si esaurisce in breve tempo e così i pochi nutrienti presenti in questi suoli vengono in breve tempo dilavati dalle piogge torrenziali. A causa del regime climatico il suolo subisce una profonda erosione per cui l’agricoltura, così come realizzata nei paesi industrializzati, risulterebbe fallimentare per gli ingenti investimenti economici necessari per rigenerare idonee condizioni per le colture. A tutto questo si deve aggiungere la perdita della biodiversità della foresta tropicale nonché del ruolo che questa ha nel riciclo dell’anidride carbonica a livello planetario.

Come prima detto, una grossa frazione della produttività primaria è utilizzata anche per altri scopi. Tra questi vi è la produzione di combustibili. Anche se questo uso della produttività terrestre costituisce un tema di grande attualità a causa dell’esaurimento del petrolio, di fatto si tratta di un uso vecchio quanto l’umanità.
Senza considerare il petrolio, che in realtà si tratta di produttività primaria trasformata, sotto la superficie terrestre, nel corso di ere geologiche, il legno costituisce per oltre la metà della popolazione mondiale il combustibile principale. In alcuni paesi più poveri è usato dal 99% della popolazione come unico combustibile. Viene usato per cucinare, riscaldare e illuminare nonché per l’industria leggera spesso ad una velocità superiore a quella necessaria per ricrescere (Odum e Barrett, 2007). Da un po’ di tempo anche nei paesi industrializzati si sta pensando di utilizzare le biomasse provenienti sia dalle foreste sia dall’agricoltura per far fronte alla crisi energetica dovuta alle ridotte disponibilità di petrolio.

Alcune delle opzioni possibili richiederanno ulteriore terra per la coltivazione di piante da cui estrarre combustibili (come biodiesel dall’olio di


colza) o su cui far crescere alberi a rapida crescita e da tagliare in breve tempo («foreste combustibili»), determinando competizione tra produzione di cibo e di combustibili in terreni arabili ed aggravando la situazione alimentare nei paesi in via di sviluppo. Rispetto alle azioni da intraprendere, è di fondamentale importanza tener presente che foreste, boschi, praterie, zone umide e altri ecosistemi naturali sostengono la vita sul pianeta attraverso la produzione di beni e servizi per tutti i viventi e, quindi, per il funzionamento della biosfera. Bisognerà acquisire la saggezza di non erodere ulteriormente questo capitale naturale.

I processi dissipativi nella catena alimentare limitano il cibo per i consumatori

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La produttività primaria netta accumulata nei vegetali si rende disponibile per gli animali (organismi eterotrofi) presenti nei differenti livelli delle reti alimentari di ecosistemi terrestri e acquatici. Questi ultimi organismi sono noti come «consumatori». Produttori e consumatori durante il loro ciclo vitale rinnovano cellule e tessuti eliminando rifiuti organici che sono riciclati dagli organismi decompositori. Alla morte di tutti gli esseri viventi, siano essi produttori, consumatori o decompositori, la sostanza organica dei loro «corpi» si rende disponibile ancora per questi ultimi (gli spazzini della natura), soprattutto microrganismi, in grado di decomporla e renderla nuovamente inorganica (per esempio come sali di azoto e fosforo) disponibile per i produttori.

Questi processi di funzionamento della vita negli ecosistemi terrestri e acquatici sono possibili grazie al continuo flusso di energia solare. Però mentre la materia subisce numerose trasformazioni e quindi può essere riciclata e riutilizzata, l’energia nel suo fluire si degrada in quanto soggetta a processi dissipativi. Dalla termodinamica sappiamo che
1) l’energia si conserva, non si può creare né distruggere;
2) ad ogni trasformazione l’energia si degrada.

In altri termini, quando facciamo il pieno di gasolio nella nostra auto il motore consente di trasformare l’energia contenuta nel gasolio in energia di movimento ma soltanto una frazione diventa energia dinamica di movimento mentre frazioni rilevanti si «perdono» nel raffreddamento, attrito, gas di scarico, radiazione del motore etc. Così, non tutta l’energia contenuta nella radiazione solare captata dai sistemi fotosintetici viene trasformata in energia chimica, una parte consistente è perduta in forma di «calore» non utilizzabile. Non esistono macchine perfette con rendimenti del 100% nell’uso dell’energia; frazioni rilevanti si perdono in forma di energia degradata (entropia o disordine termodinamico).
Processi dissipativi che producono entropia si verificano anche nelle reti alimentari nelle quali oltre ai principi della termodinamica intervengono processi di tipo biologico. Pertanto, l’energia chimica contenuta nelle piante ovvero nel primo livello della catena alimentare non può essere completamente trasferita in quella degli animali erbivori ovvero del secondo livello della catena alimentare. Per esempio, un erbivoro nel suo pascolare non consuma totalmente i vegetali di cui si ciba, infatti, le radici o le parti più dure e meno appetibili non vengono mangiate. Eppure anche nelle radici e in tutte gli altri tessuti, siano essi duri o teneri, vi è energia chimica derivante dalla trasformazione di energia solare.

Quindi, questa frazione di energia non viene utilizzata. Inoltre, delle parti consumate non tutto viene assimilato e, quindi, alcuni tessuti vegetali non digeribili vengono eliminati con le feci.
Infine, di quanto è stato assimilato non tutto viene convertito in biomassa; una frazione consistente sarà utilizzata nei differenti processi metabolici che consentono le funzioni vitali dell’erbivoro, a partire dall’energia spesa per mangiare e per il movimento a quella spesa per processi di secrezione, digestione, riproduzione etc. degradandosi nel cosiddetto «calore respiratorio».
Quindi, a fronte di una certa quantità di energia contenuta negli organismi vegetali (produttori) soltanto una parte (circa il 10%) diventerà sostanza organica degli erbivori (consumatori primari). Così di tale sostanza


organica soltanto una frazione (variabile da 1 a 20%) diventerà sostanza organica dei carnivori (consumatori secondari). Infatti, anche per il trasferimento dell’energia dal secondo livello alimentare, quello degli erbivori, al terzo livello, quello dei carnivori valgono le medesime considerazioni energetiche.

Un leone che cattura e uccide una zebra non è in grado di consumarla in tutte le sue parti, tra cui le strutture scheletriche, i denti o gli zoccoli che pure contengono energia chimica. Quindi, questa frazione di energia non viene utilizzata. Così di quello consumato una parte non sarà assimilata e della parte assimilata una frazione rilevante sarà utilizzata per il fabbisogno metabolico del leone (anche per la cattura della zebra) che implica anche in questo caso un degrado come «calore respiratorio». Questo flusso di energia che parte dai vegetali e continua con erbivori pascolanti e carnivori che mangiano erbivori costituisce le catene alimentari del «pascolo».
L’energia non utilizzata e non assimilata può essere ancora recuperata nelle catene alimentari del «detrito» che partono dalla sostanza organica (resti di organismi, rifiuti organici, feci etc.) e vedono l’intervento degli spazzini della natura (detritivori, decompositori) fino ai loro predatori. Tutto il calore respiratorio prodotto in entrambi i tipi di catene alimentari non può essere più recuperato e va ad aggiungersi all’entropia o «disordine» dell’universo. Di fatto, le catene alimentari sono sequenze tra loro interconnesse che costituiscono reti alimentari attraverso le quali fluisce l’energia radiante convertita in sostanza organica.

A fronte di quanto appena riportato, è evidente che passando da un livello alimentare al successivo c’è sempre meno energia (e meno cibo) disponibile per gli organismi negli ecosistemi. Questo fatto incontrovertibile viene rappresentato attraverso piramidi alimentari in cui la quantità (numerica, in biomassa ed energetica) dei vegetali è maggiore di quella degli erbivori, quella di questi ultimi è maggiore di quella dei carnivori e così via fino ai carnivori terminali che sono gli organismi più rari del pianeta. Sempre meno bocche possono essere sfamate passando dal livello dei produttori a quello dei consumatori all’apice di tali piramidi.
Le proteine della carne sono presenti nella dieta dei popoli più ricchi, che possono permettersi il lusso di coltivare terra per produrre alimenti per gli animali domestici e vivere anche come consumatori secondari e terziari, mentre i poveri del mondo mangiano (quando possibile) riso, cereali e patate vivendo soltanto come consumatori primari.
La notevole perdita di energia ad ogni passaggio da un livello alimentare al successivo impone un limite al numero di tali livelli nelle reti trofiche.
L’evoluzione probabilmente non ha prodotto un predatore del leone non tanto perché il leone è così impossibile da uccidere e mangiare (il pianeta ha conosciuto predatori più grossi e terribili del leone) quanto perché ci sarebbe poca energia per sostenere un livello trofico al di sopra di quello del leone. Il fatto che i piccoli del leone possano essere predati dalle iene dipende dalla complessità delle interazioni tra organismi nelle reti trofiche e non significa che la iena occupa stabilmente un livello trofico


al di sopra di quello del leone.

Nel mare le catene alimentari si presentano più lunghe perché sia il consumo sia l’assimilazione soprattutto da parte degli erbivori e, in misura minore, dei carnivori è in genere più efficiente nel trasferire energia da un livello trofico al successivo.
In pratica ad ogni passaggio si perde un po’ meno energia nelle catene alimentari marine. Infatti, i vegetali marini sono più piccoli e teneri e, quindi, più facili da consumare e digerire anche da parte di erbivori a loro volta molto piccoli (zooplancton) mentre quelli terrestri, invece, sono più grandi e con solide strutture di sostegno, spesso molto dure, coriacee e spinose. Comunque, nel mare le reti alimentari sono persino più complesse in quanto la gran parte degli organismi si riproduce attraverso la produzione di uova e larve e, pertanto, molte specie prede mangiano uova e larve dei loro predatori. Inoltre, le cose sono ulteriormente complicate dal fatto che molti organismi marini passano da un livello trofico al successivo durante la loro crescita.

Energia solare, alghe microscopiche e produzione di cibo nel mare

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Il cibo che l’umanità ricava dal mare è soprattutto di origine animale (pesci, molluschi, crostacei) e deriva principalmente dalle catene alimentari il cui primo anello è rappresentato da alghe microscopiche (fitoplancton) la cui distribuzione è limitata alla disponibilità di luce, più o meno nei primi 200 m di profondità. La produttività primaria dovuta al fitoplancton è correlata non soltanto alla disponibilità di luce ma anche a quella di nutrienti (azoto, fosforo, ferro etc.) nonché a particolari fonti di energia sussidiaria (correnti ascendenti, flussi di marea etc.) (Nybakken, 1997).

Pertanto, essa si differenzia moltissimo tra acque costiere, estuari, mare aperto, zone con correnti ascendenti delle acque e così via. L’energia fissata dai produttori primari viene trasferita nei successivi anelli delle catene alimentari marine.
Come prima riportato, nei processi di trasferimento si verifica una consistente perdita di energia e pertanto la sua quantità, insieme alla biomassa, si riduce passando dai primi agli ultimi livelli trofici, generalmente occupati dai carnivori terminali (o predatori di vertice delle piramidi alimentari).
Assumendo un’efficienza di trasferimento del 10% tra il primo e il secondo livello trofico, occorrerebbero 100 kg di fitoplancton per formarne 10 kg di zooplancton. Considerando ancora un’efficienza del 10% nei successivi passaggi, dai 10 kg di zooplancton si potrà formare 1 kg di alici e soltanto 100 g di tonno. A fronte di tale esempio, si comprende che la quantità di risorse presenti in una determinata area marina dipenderà non soltanto dalla produttività primaria ma anche dall’efficienza di trasferimento nella piramide alimentare.

Poiché l’efficienza di trasferimento nel mare è generalmente maggiore che negli ecosistemi terrestri (produttori e consumatori primari sono soprattutto organismi microscopici o molto piccoli di più facile consumo e assimilazione) le catene alimentari possono presentarsi più lunghe (anche con 6-7 livelli trofici). Comunque, l’energia disponibile per i predatori di vertice è sempre piuttosto esigua e questo spiega non soltanto la rarità di questi organismi negli ecosistemi ma anche il fatto che maggiori quantità di risorse (e di cibo) si ricavano nei primi livelli trofici piuttosto che negli ultimi.
Le stime effettuate da Pauly e Christensen (1995) indicano che in media l’8% della produttività primaria globale del mare sostiene la pesca a livello mondiale o, in altri termini, questa è la percentuale di produttività primaria che diventa cibo per l’uomo.
Questa percentuale si abbassa per l’oceano aperto (circa 2%) e aumenta nelle zone costiere e con correnti ascendenti (tra 24 e 35%) confermando la maggiore produttività di questi ultimi sistemi ambientali anche in termini di risorse sfruttate dall’uomo.

Le statistiche della Fao (2002) riportano che le catture degli organismi marini a livello mondiale si attestano intorno alle 90 tonnellate per anno. Considerando le catture non controllate dalle statistiche ufficiali nonché quelle non regolate o illegali è probabile che le catture mondiali di specie marine oscillino tra 100 e 140 milioni di tonnellate/anno (King, 1995). I pesci costituirebbero oltre l’85% di queste catture, i molluschi circa il 9% e i crostacei soltanto il 5-6%. In base


a quanto prima detto sulla produttività dei sistemi acquatici, le rese medie per l’oceano aperto sarebbero di appena 0,02 tonnellate/km2/anno per le acque tropicali e 0,5 per quelle temperate, 2 e 6 tonnellate/km2/anno per le acque della piattaforma continentale rispettivamente temperata e tropicale fino a circa 18 tonnellate/km2/anno per le zone con correnti ascendenti delle acque (Marten e Polovina, 1982).

Pesci, cefalopodi, crostacei e altri organismi, costituiscono risorse del mare utilizzati dall’uomo, soprattutto per scopi alimentari ma anche per la produzione di farine di pesce, prodotti per l’acquacoltura e prodotti artigianali e ornamentali di vario tipo. Queste risorse sono potenzialmente rinnovabili (gli organismi, nascono, crescono, si riproducono e muoiono) ma non inesauribili. La loro consistenza ed evoluzione è legata ai numerosi fattori selettivi che agiscono nell’ecosistema marino (condizioni idrografiche, produttività, predazione etc.) nonché alle attività umane, prima fra tutte l’attività di pesca.

La sovrapesca e l’accorciamento delle reti alimentari

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La pesca è una delle attività più antiche dell’umanità. Infatti, ancor prima dell’agricoltura, la pesca ha assunto un ruolo fondamentale per l’uomo come fonte di cibo.
Sebbene nel corso della lunga storia dell’umanità siano variate le tecniche del prelievo e le quantità di organismi raccolti, il rapporto uomo-organismi nell’attività di pesca si configura unicamente come un rapporto di predazione. L’uomo si pone, quindi, ad un livello trofico superiore a quello degli organismi pescati.
Nel corso dei millenni e fino al XIX secolo, l’uomo non ha ritenuto, neppure lontanamente, di poter causare il depauperamento o persino l’estinzione delle popolazioni sfruttate, anzi riteneva che le risorse del mare fossero inesauribili e quindi per poterne ottenere una maggiore quantità bisognava dedicare più tempo e potenziare i mezzi impiegati nel loro prelievo, ossia aumentare il cosiddetto «sforzo di pesca».

In realtà, sebbene le popolazioni delle specie acquatiche siano rinnovabili esse non sono inesauribili. La sostenibilità dello sfruttamento di queste specie si basa sul presupposto che l’ammontare della biomassa pescata in mare debba essere proporzionale alla sua capacità di rinnovo. Infatti, un eccessivo prelievo impedisce l’adeguata ricostituzione delle popolazioni determinandone il depauperamento e generando una serie di problemi economici e sociali.
L’incremento di catture che a volte, ma sempre più raramente, è possibile registrare in alcune aree è generalmente dovuto all’aumento della flotta e al miglioramento delle tecnologie di pesca piuttosto che ad una maggiore disponibilità di risorse nel mare. In tali situazioni lo sforzo di pesca mantenuto ad alti livelli potrebbe determinare il collasso di una o più risorse nelle aree di distribuzione. Tristemente famoso è il caso del collasso dello stock canadese del merluzzo Atlantico (Walters e Maguire, 1996).
Attualmente il 47% degli stock ittici mondiali risultano pienamente sfruttati, il 18% sovrasfruttati e il 10% in una condizione di depauperamento. Soltanto il 25% degli stock risulterebbero, invece, moderatamente sfruttati o sottoutilizzati dalla pesca (Fao, 2002). Il termine sovrapesca (overfishing) può essere considerato rispetto a due principali processi biologici di incremento della biomassa degli stock ittici ossia reclutamento (le nuove generazioni di pesci si uniscono allo stock adulto) e accrescimento (gli individui crescono in lunghezza e peso). Pertanto, si distingue un «recruitment overfishing» da un «growth overfishing» (Pauly, 1983).

Il «recruitment overfishing» si verifica quando uno stock è depauperato ad un livello tale che i pochi adulti rimasti siano insufficienti a produrre abbastanza nuovi individui da rinnovare la popolazione. Questo tipo di sovrapesca si verifica più frequentemente nelle specie pelagiche dove gli individui sono aggregati in banchi ad alta densità, facili da individuare con gli strumenti di bordo (ecosonar) e quindi facili da catturare anche quando l’intero stock risulta sovrasfruttato. Altri organismi che possono andare incontro ad un «recruitment overfishing» sono quelli con basse capacità riproduttive, come le tartarughe, gli squali e i mammiferi. La vulnerabilità di questi organismi all’azione della pesca può determinare non soltanto il collasso degli stock ma persino l’estinzione della specie (Roberts e Hawkins, 1999; Jackson et al., 2001).

Il termine


«growth overfishing» si riferisce al fatto che gli individui di una popolazione sono catturati quando sono ancora molto piccoli ovvero la pesca cattura questi individui non dando loro il tempo di raggiungere dimensioni che possano fornire biomasse pescabili di una certa entità. Oltre tutto, a questi individui catturati prematuramente non viene consentito di riprodursi almeno una volta nell’ambito del loro ciclo vitale. Questo tipo di overfishing si verifica soprattutto nelle specie demersali (quelle che vivono in prossimità del fondale marino) le quali vengono catturate principalmente con attrezzi (reti a strascico) che non selezionano le differenti taglie degli individui nello stock ma catturano anche le forme giovanili. Molti stock demersali mediterranei sono in una condizione di «growth overfishing».

Passando da una singola popolazione all’insieme di specie sfruttate dalla pesca in una realtà multispecifica, come quella mediterranea, un altro concetto delineatosi più di recente è quello di «ecosystem overfishing» (Pauly, 1983). Questo tipo di sovrapesca si riferisce al fatto che la riduzione in biomasse e taglie di popolazioni ittiche originariamente abbondanti non è compensata dal contemporaneo o successivo incremento di biomassa di altre popolazioni ittiche. Pertanto, un ecosistema relativamente maturo, stabile ed efficiente dominato da specie longeve e di grosse dimensioni si trasformerebbe in uno relativamente instabile, immaturo ed inefficiente dominato da specie più piccole e opportuniste.
In altri termini, gli organismi dei livelli trofici superiori e i predatori di vertice, più vulnerabili al prelievo non soltanto per le loro maggiori dimensioni ma anche in relazione alle loro strategie vitali (crescita lenta, maturità sessuale raggiunta dopo alcuni anni, bassa fecondità) diventano sempre più rari mentre aumentano i consumatori dei primi livelli trofici non più soggetti al controllo da parte dei loro predatori rimossi dalla pesca. Questa condizione spiega la riduzione dei vertebrati, squali e pesci ossei più longevi, e l’incremento degli invertebrati a breve ciclo vitale nelle aree sovrasfruttate dall’attività di pesca, riflettendosi in un accorciamento della rete alimentare («fishing down marine food web») (Pauly et al., 1998).

La tragedia dei beni comuni e il necessario cambio di rotta

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Gli effetti negativi, sia dal punto di vista ecologico sia economico, generati dallo sfruttamento incontrollato di risorse comuni, sia se si tratti di terra per il pascolo o pesci in mare, sono stati presentati in un famoso lavoro intitolato «The tragedy of the commons» (Hardin, 1968), in cui viene spiegato che chi partecipa al prelievo di una risorsa pur essendo consapevole della necessità di conservarla ne causa l’esaurimento.
A fronte di quanto riportato, è evidente che sia l’uso della terra (per qualsiasi destinazione) sia l’attività di pesca pur fornendo beni e generando profitti, possono causare, non soltanto sovrasfruttamento delle risorse (suolo, stock ittici) ma negatività a livello di ecosistema (inquinamento del suolo e delle acque; alterazione della biodiversità e della struttura delle reti alimentari). Dalla preistoria ai tempi attuali, l’uso delle risorse naturali da parte dell’uomo ha attraversato differenti fasi legate principalmente all’incremento demografico e allo sviluppo della tecnologia. Questa se da un lato ha consentito di estrarre e prelevare risorse anche in ambienti remoti e inaccessibili (per esempio il sottosuolo o le profondità degli oceani), dall’altro ha determinato effetti di vario tipo ed entità nell’ambiente (Commoner, 1972).

Nel caso dell’agricoltura nei paesi industrializzati, al vantaggio di rendimenti elevati delle colture, che deriva dall’investimento in energia ausiliaria attraverso l’uso estensivo di macchine, fertilizzanti e pesticidi, si contrappongono le conseguenti ripercussioni ambientali. Inoltre, la cattiva gestione del territorio, tra cui il disboscamento e l’urbanizzazione (complessi abitativi e strade) in zone rurali, ha provocato rilevanti perdite dei suoli.
Nei paesi in via di sviluppo, la crescente pressione demografica e le condizioni di povertà hanno spinto alla deforestazione per ricavare legna, coltivare prodotti agricoli e far pascolare gli animali domestici, aggravando i processi di desertificazione già favoriti dal regime climatico. Poiché il suolo costituisce il supporto base per realizzare la produttività primaria in ambiente terrestre, la diminuzione delle superfici coltivabili implicherà una riduzione di prodotti alimentari per l’uomo e gli animali.

Nel caso della pesca, all’investimento economico per la gestione dell’impresa da pesca, dalla costruzione dell’imbarcazione ai costi del gasolio, corrispondono profitti derivanti dalla vendita del pescato. Oltre che dal punto di vista ecologico, anche in termini economici, la sovrapesca determina effetti negativi sul capitale naturale rappresentato dalle popolazioni acquatiche.
Infatti, questo capitale produce di anno in anno «interessi» in forma di nuovi organismi da pescare. Se si intacca questo capitale le nuove entrate si ridurranno e, quindi, si tenderà ad intaccare ulteriormente il capitale per poter ricavare almeno le medesime entrate. Tale processo protratto nel tempo condurrà alla riduzione del capitale fino al suo esaurimento condizionando negativamente le successive attività economiche.
Se le modalità con cui viene effettuato il prelievo sono appropriate, ossia bilanciando le capacità rigenerative delle popolazioni di pesci, crostacei e molluschi, gli effetti saranno positivi e così il profitto economico; se, invece, il prelievo eccede la ricostituzione di tali popolazioni gli effetti saranno negativi generando situazioni di inefficienza economica. Gli effetti a livello ecologico ed economico si rifletteranno su quelli sociali, soprattutto in

Bibliografia

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Tutti coinvolti

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Da qui l’urgenza di intervenire presto e drasticamente. Quella che l’Australia si appresta ad intraprendere con il Green paper è la più grande riforma economica dell’ultima generazione. Le nuovo misure anti-gas serra dovrebbero abbattere il livello delle emissioni del 60% entro il 2050 rispetto ai valori del 2000. Il complesso sistema per lo scambio delle emissioni coinvolge le aziende più inquinanti, il sistema dei trasporti e dal 2015 coinvolgerà anche l’agricoltura, che in Australia è uno dei settori commerciali di punta ed è responsabile del 15,6% delle emissioni. Alle compagnie più esposte alla concorrenza dei mercati internazionali sarà garantito un 30% dei permessi di emissione, ma superato il tetto dovranno acquistarne altri sul mercato.
Il taglio non sarà indolore anche per i cittadini: la bolletta elettrica potrebbe aumentare del 16% e quella del gas del 9%. Ma il Governo ha intenzione di bilanciare lo sforzo compiuto dai cittadini garantendo la riduzione delle accise sulla benzina, aumentando le pensioni di anzianità fino a coprire le spese aggiuntive, aiutando le famiglie a basso reddito e assicurando vantaggi fiscali a quelle di medio-reddito. Gli introiti derivanti dalla commercializzazione dei permessi andranno in buona parte per aiutare le spese delle famiglie.
Gli australiani sono pronti a qualche sacrificio in più pur di mettere in campo misure di contrasto ai cambiamenti climatici. Più dell’80% cento della popolazione (come è emerso da un sondaggio di qualche giorno fa) si dichiara favorevole al piano di riduzione delle emissioni del 2010 e vorrebbe che diventasse operativo anche prima di quella data. Sotto gli occhi di tutti il problema della siccità, dell’avanzare della desertificazione, senza dimenticare la devastante sequenza di incendi che ha colpito lo stato meridionale del Victoria all’inizio di quest’anno. E senza dimenticare che buona parte del cambiamento politico votato dagli australiani lo scorso anno è venuto proprio dalla richiesta di prendere sul serio le politiche ambientali.

Obiettivo Kyoto: c’entro anch’io

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Innalzamento della temperatura media del pianeta, desertificazione, fenomeni meteorologici estremi, aumento del livello del mare, perdita della biodiversità… sono tutti termini e concetti di cui sentiamo ormai parlare quotidianamente.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) il riscaldamento del clima è attribuibile, con un livello di sicurezza tra il 90% e il 99%, all’aumento della concentrazione di gas a effetto serra immessi in atmosfera dalle attività umane.
Nel 1997 più di 160 paesi hanno sottoscritto il Protocollo di Kyoto (entrato poi in vigore il 16 febbraio 2005), che rappresenta il primo strumento internazionale per una riduzione concordata delle emissioni di gas ad effetto serra. L’obiettivo per il periodo 2008-2012 è quello di ridurre almeno del 5,2% le emissioni totali rispetto a quelle registrate nel 1990 (considerato come anno base).
L’Italia si è impegnata a raggiungere una riduzione del 6,5% entro il 2012. Gli sforzi dovranno essere enormi e condivisi, dato che dal 1990 ad oggi le emissioni sono in realtà aumentate del 13%.
Cosa fare allora? Per poter rallentare il processo di riscaldamento del pianeta e invertire la rotta, il cambiamento negli stili di vita di ciascuno di noi è importante. Consumare in modo più consapevole, chiedere e utilizzare tecnologie eco-efficienti per «fare con meno», ripensare la mobilità e i bisogni possono diventare occasioni per il nostro piccolo Kyoto quotidiano. Non dimentichiamo che una seppur piccola azione può avere un impatto notevole se moltiplicata per milioni di persone.

PC e monitor

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I consumi

? Un tipico computer da ufficio acceso per 9 ore al giorno arriva a consumare fino a 175 kWh in un anno. Impostando l’opzione di risparmio energetico il consumo scende del 37%, con un risparmio di anidride carbonica (CO2) emessa in atmosfera di circa 49 kg.
? Un monitor (14? a colori, a tubo catodico) in un anno arriva a consumare 135 kWh: stimando un uso attivo medio del PC di 4 ore al giorno, spengendolo quando non si utilizza si può arrivare a risparmiare oltre 65 kWh.

Le buone pratiche

? Quando ci prendiamo una pausa attiviamo la funzione stand-by da tastiera o dalle impostazioni del sistema operativo. Se non è disponibile la funzione «risparmio energia»; si possono impostare le funzioni di risparmio energetico del solo monitor cliccando dal pannello di controllo sull’icona «schermo» anziché su quella «Risparmio energia».
? L’eliminazione di qualsiasi «salvaschermo» (screen saver) disattiva il segnale del monitor e permette un reale risparmio di energia.
? Se non utilizziamo il PC anche per brevi intervalli, ricordiamoci di spegnerlo.
? Quando abbiamo finito di lavorarci, stacchiamo la spina del computer: il PC è uno di quegli elettrodomestici che assorbe potenza elettrica (che può variare dai 3W a 6W) anche da spento.

La fotocopiatrice

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I consumi

Se in fase di copia la fotocopiatrice è al massimo dei consumi, ricordiamoci che in fase di riscaldamento arriva, in media, a consumare il 75% dell’energia utilizzata complessivamente. Anche spenta, ma con la spina inserita, la fotocopiatrice consuma: assorbe infatti, in media, una potenza elettrica superiore a 30W.
Una fotocopiatrice media può arrivare a consumare in un anno fino a 1.800 kWh, determinando l’emissione in atmosfera di circa 1.400 kg di CO2. Impostando le opzioni per il risparmio energetico e usando maggiori attenzioni nell’utilizzo, come quella di scollegare l’apparecchio dalla presa quando non è usato per molto tempo (la notte, il week-end…), si può ridurre il consumo energetico di circa il 24%.

Le buone pratiche

Se la fotocopiatrice non possiede l’opzione di stand-by automatico ricordiamoci di inserirlo sempre dopo il suo uso.
Alla fine dell’orario di ufficio è opportuno spengere la fotocopiatrice e sconnetterla dalla rete, specialmente se rimane inutilizzata per lunghi periodi, come ad esempio i fine settimana e le festività.
Quando possibile, fotocopiamo con modalità fronte/retro, e usiamo la carta riciclata.

L’ascensore e l’illuminazione

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L’ascensore

Il consumo energetico medio di un ascensore rappresenta il 3-5% del consumo elettrico complessivo di un edificio.
Si stima che un ascensore in modalità stand-by (quindi fermo) arrivi ad assorbire mediamente una potenza elettrica di circa 2 kW, comportando quindi un consumo elettrico annuo di circa 10.000 kWh, pari a una percentuale che va dal 25 all’80% del consumo elettrico totale annuo dell’ascensore.

L’illuminazione

L’illuminazione dei locali in cui viviamo rappresenta la più comune ed evidente delle utilizzazioni finali dell’energia elettrica.
L’illuminazione assorbe circa il 13% dei consumi elettrici nel settore residenziale. Accendere 10 lampade da 100 Watt per un’ora comporta l’emissione in atmosfera di 0,78 kg di anidride carbonica (CO2).

Le buone pratiche

Ogni volta che non usiamo l’ascensore risparmiamo circa 0,05 kWh. Fare le scale a piedi è una buona occasione per fare movimento… camminare ti fa consumare circa 2,5 – 3,5 Kcal al minuto, contro una sola Kcal dello stare in piedi inattivi (come dentro l’ascensore). Se si cammina sotto sforzo, come, ad esempio, quando saliamo le scale, il dispendio energetico è ancora maggiore.
Calibriamo l’illuminazione in base alle reali necessità: spesso è sufficiente utilizzare il 50% dei punti luce disponibili, specialmente nelle giornate di bel tempo.
Spengiamo le luci quando usciamo dall’ufficio e dagli ambienti comuni (bagni, corridoi, sale riunioni ecc.).
Quando dobbiamo cambiare una lampadina ricordiamoci che ci sono anche quelle a basso consumo energetico (si risparmia l’80% di energia elettrica a parità di illuminazione).

La stampante

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I consumi

Una stampante da ufficio può arrivare a consumare ben 63 kWh per anno di energia elettrica, corrispondenti alle emissioni di 48 Kg di CO2 (anidride carbonica) nell’ambiente.
Ottimizzando i tempi di stand-by e scollegando la stampante fuori dall’orario di ufficio, i consumi possono scendere a 48 kWh, con un risparmio di CO2 emessa di circa 12 Kg.
Solo l’8% del consumo energetico complessivo è dovuto alla fase di stampa, mentre il 49% è «speso» nella fase di stand-by e il 43% quando è spenta (con la spina inserita, naturalmente!).
Una tonnellata di carta riciclata rispetto alla carta da fibre vergini consente di risparmiare il taglio di 24 alberi, il consumo di 4.100 kWh di energia e di 26 m3 di acqua, e le emissioni di 27 kg di CO2.

Le buone pratiche

Ricordiamoci di spengere la stampante quando non si utilizza anche solo per brevi intervalli.
Ogni volta che è possibile usiamo la carta riciclata.
Stampiamo con l’opzione fronte/retro e/o inserendo più pagine nella stessa facciata.
Utilizziamo ogni volta che è possibile la modalità di stampa a bassa risoluzione («economy» o «draft»).
Prima di stampare un documento, usiamo l’opzione «Anteprima di stampa» per vedere se l’impaginazione e l’effetto visivo sono quelli desiderati.
Ove possibile, riduciamo i margini della pagina e la dimensione del carattere.
Molto spesso capita di dover commentare un documento condiviso: invece di stamparlo, lavoriamoci in formato elettronico, utilizzando la funzione «commento».
Prima di stampare un documento accertiamoci che sia veramente utile: un po’ di tempo dedicato a una lettura veloce «a video» farà risparmiare in termini di carta ed energia!

La climatizzazione

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I consumi

Il consumo energetico per il riscaldamento corrisponde mediamente al 30% dei consumi energetici totali di un edificio, e determina l’emissione in atmosfera di una quantità compresa tra circa 675 e 7.875 Kg di CO2 (anidride carbonica) all’anno, a seconda della potenza termica del generatore (considerando l’utilizzo del metano come combustibile per il riscaldamento).
È stato calcolato che per ogni grado in meno di temperatura richiesta nella stagione in cui è necessario il riscaldamento si può risparmiare circa il 7% di combustibile, e di conseguenza la stessa quantità di emissione di CO2.

Le buone pratiche

Un corretto utilizzo degli impianti di climatizzazione consente di lavorare nelle condizioni ideali e di utilizzare gli spazi in modo più confortevole e con risparmio di energia. Ecco alcuni suggerimenti per ottenere il miglior comfort e al contempo contenere i consumi energetici:
ricordiamo che in estate la differenza tra la temperatura raccomandata interna agli edifici e quella esterna non dovrebbe superare i 7°C. Differenze eccessive tra temperature esterne e interne ai locali possono favorire l’insorgenza di malesseri e patologie acute;
in inverno, evitiamo di aprire le finestre se fa troppo caldo: se possibile, abbassiamo il riscaldamento e ricordiamo di tenere le porte chiuse, per evitare che il calore si propaghi in ambienti che non è necessario riscaldare;
in estate, teniamo le finestre chiuse quando è acceso l’impianto di condizionamento;
qualunque sia il tipo di radiatore, non ostacoliamo la circolazione dell’aria coprendo i radiatori con «copri-termosifoni» o tende;
quando d’estate usiamo il condizionatore ricordiamo che a minori velocità di ventilazione la quantità di aria trattata è minore, quindi viene meglio raffreddata e soprattutto maggiormente deumidificata, con conseguente maggiore sensazione di benessere.