La posizione di Aper

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In questi ultimi giorni si sono scritte pagine e pagine sulla querelle tra la Commissione europea ed il Governo italiano in merito alla sostenibilità economica del pacchetto Energia-Clima proposto a gennaio di quest’anno dalla Commissione e sul cui accordo è in corso un serrato dibattito in sede di Consiglio europeo.
In questo contesto Aper (Associazione dei Produttori di Energia da fonti Rinnovabili) ribadisce il proprio pieno sostegno alle Politiche europee di lotta ai cambiamenti climatici sintetizzate del Pacchetto 20-20-20.
 
«Mi auguro ? afferma Roberto Longo, presidente di Aper ? che a Bruxelles alla fine si raggiunga presto un accordo completo, unanime e definitivo tra tutti i Paesi membri sulle politiche Ue per la sostenibilità energetico-ambientale, perché gli investimenti per l’efficienza energetica e lo sviluppo delle energie rinnovabili non sono un lusso, bensì una necessità ed un’occasione irrinunciabile, anche e soprattutto per l’Italia, per garantire, nel pieno rispetto dell’ambiente e del territorio, importanti target di sviluppo economico, sociale e territoriale oltre ad essere una concreta opportunità per ridurre la nostra dipendenza di combustibili fossili dall’estero».
 
«Siamo certi – conclude Longo – che i costi connessi al perseguimento degli obiettivi europei in materia di clima ed energia saranno più che compensati nei prossimi 12 anni dai vantaggi conseguibili in materia di efficienza, occupazione, innovazione e crescita economica della filiera industriale della sostenibilità, nonché dal raggiungimento di più efficaci risultati nella salvaguardia dell’ambiente».

Invertire la rotta si può

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«I dati contenuti nel Living Planet rappresentano delle chiare e inequivocabili indicazioni su cosa bisogna fare ? ha dichiarato Leape -. La nostra speranza è che negli anni a venire noi potremo rilevare un aumento dell’Indice del Pianeta Vivente, un’Impronta Ecologica più ridotta e una disponibilità di acqua maggiore in molte parti del pianeta».
Il Report suggerisce alcune strategie di «sostenibilità» che se combinate tra loro possono stabilizzare o invertire la rotta che ci sta portando verso il debito ecologico e a un danno permanente di tutti i sistemi globali che sostengono il nostro sviluppo. Per quella che si ritiene come la sfida più importante, i cambiamenti climatici, il Report mostra come un insieme di azioni mirate all’efficienza, all’uso delle rinnovabili e alle tecnologie a basse emissioni possa soddisfare la domanda di energia prevista per il 2050 con una riduzione in emissioni di CO2 dal 60 all’80%.
«Se l’umanità riuscirà a seguire questa strada avrà la capacità di vivere entro i limiti del pianeta ma è necessario riconoscere che per affrontare l’erosione del nostro ?credito ecologico? saranno necessarie azioni ancora più coraggiose di quanto sia stato avviato per risolvere l’attuale crisi economica».

Italia 4° consumatore mondiale di acqua

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Il nuovo indicatore dell’Impronta Idrica, per la prima volta introdotto in questo Rapporto, è costituito da due componenti e cioè l’impronta idrica interna che è composta dalla quantità di acqua necessaria per produrre beni e servizi prodotti e consumati internamente al paese e dall’impronta idrica esterna che deriva dal consumo delle merci importate e calcola, quindi, l’acqua utilizzata per le produzioni delle merci dal paese esportatore). L’Impronta Idrica evidenzia lo stretto legame tra produzione di beni di consumo e utilizzo della risorsa acqua; ad es, in una maglietta di cotone si «nascondono» almeno 2.900 litri di acqua, impiegati nell’intera filiera di produzione. Ciascun abitante della terra consuma in media 1,24 milioni di litri di acqua all’anno (circa metà di una piscina olimpionica) ma questo consumo varia dai 2,48 milioni di litri a persona all’anno (come avviene negli Usa) fino a 619.000 litri pro-capite all’anno (Yemen).
Il Report segnala almeno 50 paesi che attualmente stanno affrontando crisi idriche più o meno accentuate e il numero delle persone che soffrono di questo stress, stagionali o annuali, tendono ad aumentare a causa dei cambiamenti climatici. L’Italia è il 4° maggiore consumatore di acqua al mondo con un consumo di 2,332 metri cubi pro capite annui (dei quali 1,142 interni e 1,190 esterni). Davanti a noi abbiamo, nell’ordine, Usa, Grecia e Malesia, dietro di noi, dalla Spagna, al Portogallo, al Canada ecc.

I grandi divoratori del pianeta

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Stati Uniti e Cina hanno le Impronte Ecologiche nazionali maggiori, con circa il 21% ciascuna di consumo della biocapacità globale; ma nei valori pro-capite gli statunitensi mantengono il primato assoluto di grandi «divoratori» del pianeta, richiedendo una media di 9,4 ettari globali (come dire, che ciascun americano vive con le risorse di circa 4,5 pianeti Terra) mentre i cittadini cinesi sono su una media di 2,1 ettari pro-capite (un solo Pianeta). L’Italia è al 24° posto nella classifica dei paesi con la maggiore Impronta Ecologica. Presenta un’impronta di 4,8 ettari globali pro capite ed una biocapacità di 1,2 ettari globali pro capite. Quindi l’Italia si trova in una situazione di deficit ecologico, di 3,5 ettari globali pro capite. Prima di noi ci sono, tra gli altri, Usa, Danimarca, Australia, Canada, Grecia, Spagna, Regno Unito, Francia, Giappone mentre dietro di noi vengono, ad esempio, Portogallo, Germania, Olanda.

La biocapacità è distribuita in maniera disomogenea, poiché 8 nazioni (Usa, Brasile, Russia, Cina, India, Canada,Argentina e Australia) contengono oltre la metà della biocapacità globale. I modelli di crescita della popolazione e dei consumi rendono 3 di questi paesi «debitori» ecologici, con un’Impronta Ecologica superiore alla bio-capacità nazionale ? gli Stati uniti (con un’Impronta 1,8 volte rispetto alla biocapacità nazionale), Cina (con 2,3 volte) e India (con 2,2 volte).
In pieno contrasto, sull’altro fronte, si trova il Congo, al settimo posto in termini di ampiezza della propria biocapacità media, con 13,9 ettari globali per persona e un’Impronta ecologica media pro-capite di appena 0,5 ettari, la quarta Impronta più bassa tra tutte le nazioni che hanno una popolazione sopra il milione di individui. Ma le proiezioni indicano che il paese subirà un degrado della bio-capacità a causa della deforestazione e della crescita delle richieste di risorse dovute all’aumento della popolazione e alle forti pressioni sull’esportazione dei prodotti.

In arrivo la «recessione ecologica»

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«Abbiamo nei confronti del pianeta lo stesso atteggiamento dilapilatorio che le istituzioni finanziarie hanno avuto nei mercati. Siamo abituati a pensare nel breve termine mirando ad una crescita materiale e quantitativa ormai insostenibile basata sullo sfruttamento dissennato delle risorse naturali senza alcuna considerazione delle generazioni che abiteranno questo pianeta dopo di noi ? dichiara Gianfranco Bologna, direttore scientifico del Wwf Italia ?. Gli effetti di una crisi ecologica globale sono persino più gravi del disastro economico attuale».
Le emissioni di anidride carbonica da fonti di energia fossili e il consumo del suolo costituiscono tra le attività umane, quelle che più pesano nel calcolo dell’Impronta Ecologica e che si legano ad una delle maggiori cause di pericolo attuale, ovvero, i cambiamenti climatici. L’analisi dell’Impronta Ecologica, prodotta dal Global Footprint Network, mostra come la biocapacità globale (ovvero, l’area necessaria a produrre le risorse primarie per i nostri consumi e a «catturare» le nostre emissioni di gas serra) è di circa 2,1 ettari globali pro-capite mentre l’Impronta ecologica e cioè il nostro utilizzo delle capacità produttive dei sistemi naturali sale a 2,7 ettari globali pro-capite. Abbiamo quindi un deficit di 0,6 ettari globali pro-capite.
«Continuare ad alimentare il nostro deficit ecologico avrà ripercussioni gravi anche in economia ? ha dichiarato il direttore esecutivo del Gfn, Mathis Wackernagel ?. Il limite della disponibilità delle risorse e il collasso dei sistemi naturali possono far scattare una potente stagflazione (l’incrocio tra stagnazione ed inflazione) con un crollo del valore degli investimenti mentre i costi di cibo ed energia salgono alle stelle».

Le novità della settima edizione

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Il Report viene pubblicato dal 1998 e, a partire dal 2000, ogni due anni (l’attuale è la settima edizione del Rapporto). Nell’edizione del 2008 viene resa nota, per la prima volta, la misurazione l’Impronta idrica, sia al livello nazionale sia globale che si aggiunge come indicatore aggregato agli altri due, ovvero, l’Impronta Ecologica, l’analisi della domanda di risorse naturali derivante dall’attività umana, e l’Indice del Pianeta Vivente, la misurazione dello stato di salute dei sistemi naturali.
L’Indice del Pianeta Vivente, compilato in particolare dalla Società Zoologica di Londra, mostra come dal 1970 si sia verificato il declino complessivo della biodiversità (della ricchezza della vita sul pianeta) di circa il 30% tenendo conto dell’analisi di circa 5000 popolazioni di 1.686 specie di animali vertebrati (mammiferi, uccelli, rettili, anfibi e pesci). Nelle aree tropicali la riduzione è più drammatica che altrove, essendo al 50%, e le cause principali sono costituite dalla deforestazione e dalle modificazioni dell’uso del suolo; per le specie di acqua dolce le cause principali sono l’impatto delle dighe, la deviazione dei corsi fluviali e i cambiamenti climatici (per un declino del 35%). Gli ambienti costieri e marini invece soffrono soprattutto di inquinamento e di pesca eccessiva o distruttiva.

L’impegno di Arg

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«Arg nasce come una risposta ad alcune esigenze personali. Chi ha fatto un percorso di studi e/o ha intrapreso un percorso lavorativo nel campo delle scienze ambientali si trova ad interrogarsi sul proprio ruolo rispetto alle diverse questioni ambientali: innanzitutto come ricercatore, ma inevitabilmente anche rispetto a quelle che vengono sentite come chiare responsabilità sociali e territoriali. Dall’esigenza e spinta individuale, Arg cerca di creare di una ?rete?. Rete per collaborare. Rete come messa a disposizione di competenze ed esperienze. Rete che da forza al singolo per continuare nel proprio impegno di chimico ambientale. La costruzione di una rete giovane e ?virtuosa?, può essere una spinta propulsiva anche per il ?vecchio? sistema». Ci fa sapere Andrea Piazzalunga, un altro dei coordinatori di Arg. Questa è la realtà ed il futuro del nostro paese che si incontra anche fra i corridoi di una fiera diventato il santuario del futuro tecnologico ed industriale dell’Italia.

Questa associazione si pone anche come catalizzatrice del confronto scientifico e dello stimolo culturale, al fine di dare voce ai giovani che muovono i primi passi nel mondo della ricerca o che, semplicemente, sono affascinati ed interessati a partecipare ad una esperienza formativa portando i propri preziosi contributi. Questo appuntamento, che negli anni è stato caratterizzato da un elevato profilo scientifico, è un’esperienza forse unica a livello nazionale, sia per l’autonomia del suo sviluppo, sia per la capacità dimostrata nel cogliere gli aspetti cardine del dibattito scientifico.
Il ragionamento che articola la convention si sviluppa attorno al senso che ha oggi fare ricerca, sviscerando l’attività scientifica nelle sue forme e strutture, dagli obiettivi che un ricercatore deve porsi, sino agli strumenti di cui deve dotarsi per raggiungere buoni risultati.
È quindi un segnale significativo, in un periodo come quello che stiamo attraversando, che acquisisce un’importanza strategica e costituisce un’intuizione lungimirante la disponibilità a creare le condizioni affinché il mondo accademico esca dalle torri d’avorio, in cui spesso ha trovato rifugio, ed abbia il coraggio di porre al centro tematiche difficili.
Oggi l’accademia italiana sembra aver perso quel ruolo, che storicamente aveva, di guida culturale del Paese, il dibattito scientifico trova difficoltà ad essere condiviso, il metodo scientifico si trova spesso in difficoltà nel confronto con posizioni politiche pregiudiziali e il sapere scientifico è letto in contrapposizione rispetto ad altri saperi.

Greenpeace denuncia lo scandalo certificati sull’olio di palma sostenibile

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Mentre l’industria dell’olio di palma festeggia oggi il primo certificato di «olio di palma sostenibile» rilasciato dalla Rspo e disponibile a breve sul mercato europeo, Greenpeace diffonde il rapporto «Olio di palma ? Lo scandalo delle certificazioni in Indonesia» che dimostra l’inefficacia della Rspo (Tavola Rotonda per l’olio di palma sostenibile).
La prima certificazione è stata rilasciata alla United Plantations, che rifornisce Nestlè e Unilever ed è coinvolta nella distruzione di foreste e torbiere a Kalimantan, in Indonesia. Intanto, per protesta, attivisti di Greenpeace hanno bloccato una nave con un carico di olio di palma indonesiano destinato all’Europa. Uno degli attivisti si è incatenato all’ancora della nave Gran Couva resistendo per ore ai potenti getti d’acqua puntati contro dall’equipaggio che ha richiesto l’intervento della polizia.

United Plantations possiede diverse piantagioni in Malesia e Indonesia.
La società ha ricevuto la certificazione solo per le proprie piantagioni malesi ma a condizione che tutte le sue piantagioni (comprese quelle in Indonesia) soddisfino i criteri minimi di sostenibilità stabiliti dalla Rspo. Il rapporto dimostra come la United Plantations non rispetti nessuno di questi criteri.

«L’industria dell’olio di palma promuove la certificazione come strumento per combattere la crescente deforestazione nel Sud Est Asiatico e quest’approccio è accolto a braccia aperte dai Governi dei Paesi europei – avverte Chiara Campione, responsabile campagna foreste di Greenpeace Italia -. Ma con il nostro rapporto dimostriamo come il primo certificato della Rspo sia solo una cortina di fumo».

«La prossima settimana l’industria dell’olio di palma si riunirà a Bali per il sesto incontro annuale della Rspo. È assolutamente necessario che vengano stabiliti criteri rigidi ed efficaci per impedire alle compagnie coinvolte nella distruzione delle foreste del Borneo e di Sumatra di rivendicare la produzione di olio di palma sostenibile, imbrogliando il mercato».

«Attraverso la nostra campagna Deforestazione Zero, nel corso di quest’ultimo anno, abbiamo convinto Unilever, Ferrero e tante altre importanti multinazionali che acquistano olio di palma, a impegnarsi per sostenere un’immediata moratoria per salvare le ultime foreste e torbiere del Sud Est Asiatico? spiega Campione -. È di fondamentale importanza che anche i produttori, il governo indonesiano e quelli europei compiano questo passo immediatamente».

? Rapporto «Olio di palma ? Lo scandalo delle certificazioni in Indonesia»

(Fonte Greenpeace)

Certificato Traces

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Certificato Traces (Trade Control and Expert System): rilasciato da un veterinario autorizzato a ciò dal paese speditore, deve sempre essere in originale, in doppia lingua e comunque sempre nella lingua del paese di destinazione, con indicazione della data e dell’ora di partenza, del numero e della tipologia di animali (di allevamento o da compagnia) e il numero del passaporto.

(Fonte Lav)

Elenco Piazze Lav

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SABATO 29 NOVEMBRE

ROMA:
Largo Lombardi (angolo Via del Corso) dalle 11 alle 19,30
Piazza S. Emerenziana (davanti civico n. 22-23) dalle 11 alle 19,30
Piazza Bologna (incrocio Viale delle Province) dalle 11 alle 19,30

BRACCIANO(RM): Piazza IV Novembre (piazza del comune) dalle 11 alle 19,30
VELLETRI(RM): Piazza Cairoli sotto la Torre del Trivio dalle 11 alle 19,30

FROSINONE : via Aldo Moro fronte Oviesse dalle 11 alle 19,30

DOMENICA 30 NOVEMBRE

ROMA:
Villa Ada (ingresso principale, Via Salaria) dalle 10 alle 18,30
Centro Commerciale «I Granai», Via del Tintoretto, dalle 11 alle 19,30

MONTEROTONDO (RM): viale Bruno Buozzi, fronte scuola (passeggiata) dalle 11 alle 19,30

SABATO 6 DICEMBRE

ROMA:
Via Cola di Rienzo (civico n. 152) dalle 11 alle 19,30
Viale Marconi (civico n. 198) dalle 11 alle 19,30

DOMENICA 7 DICEMBRE

ROMA:
Villa Pamphili, ingresso Piazza Martin Luther King dalle 10 alle 18,30
Centro Commerciale «Le Terrazze» – Casal Palocco dalle 11 alle 19,30
Centro Commerciale «Romanina», all’ingresso del piano -1 dalle 11 alle 19,30.

(Fonte Lav)

Verso uno spontaneo collasso

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Siamo, oggi, di fronte ad un processo che ha trovato, nella globalizzazione dei mercati, strade libere e senza controlli e che si è, poi, sviluppato sui perfidi meccanismi fondati sulla rendita dei soli movimenti di capitali. Il sistema finanziario, venendo meno, così, al suo compito di promotore finanziario delle attività industriali, ha sottratto strumenti allo sviluppo economico e lo sta, anche, danneggiando sul fronte delle risorse umane qualificate che non sono attratte, o meglio che sono respinte, da un sistema produttivo che non trova spazi e opportunità, di credito e di mercato, per svilupparsi e costruire i riferimenti necessari per il suo futuro.
Un processo che, avvitandosi su se stesso, sembra spingere, verso uno spontaneo collasso, quell’economia globalizzata dalla quale si attendevano ben altri risultati. Ma il collasso, nell’immediato, non avverrà perché c’è già chi (lo Stato) pagherà i danni prodotti da una «anomalia del mercato» (come l’ideologia liberista si è affrettata a definire i mali non neutralizzati che, in realtà, sono connaturati con le sue politiche di «deregulation»).
Sempre allo Stato (con la distrazione di disponibilità finanziarie di altri essenziali capitoli di spesa) toccherà poi pagare anche la ricostruzione delle condizioni perché il sistema liberista (ormai, quasi una «condanna» strutturale delle democrazie occidentalizzate) possa riprendere la sua azione egemonica sovranazionale e continuare a decidere unilateralmente le sorti del mondo, esautorando, di fatto, le democrazie da quote significative di autonomia nelle politiche finanziarie, industriali, agricole, commerciali, del welfare State, del mondo del lavoro, delle relazioni e degli accordi internazionali.
Ma i sistemi economici e finanziari non sono stati i soli ad alimentare la crisi, hanno, infatti, mostrato inaccettabili limiti anche le «autority» preposte al loro controllo. Forse fra troppi silenzi non ha avuto una corretta risonanza l’«impotenza» di questi istituti di garanzia nazionali e mondiali che avrebbero dovuto assumere specifiche responsabilità, di controllo, di regolazione preventiva e d’intervento correttivo, sulle attività finanziarie. Invece, nel migliore dei casi, queste istituzioni, ma anche i decisori politici, si sono attivati a cose avvenute e solo per la cura dei sintomi di una minacciosa patologia che, ormai, si è ben radicata nella realtà.
Anche la «scienza» economica e finanziaria «modernizzata» (quella puntata a pretendere il libero mercato e insieme paralizzata dai suoi micidiali effetti) sembra essere stata assente nei momenti della valutazione delle tendenze «anomale», in atto nel mercato, e di quegli strumenti finanziari strutturati che «sfuggivano» alla valutazione ordinaria degli enti certificatori. Oggi questa scienza appare ancora troppo impegnata a cercare altrove le vere cause dei rovinosi impatti prodotti da alcune sue «ottime» teorie troppo curvabili, però, a fare altro, a spalmare sui mercati mondiali, come è stato fatto, prodotti finanziari tossici per godere del bene di profitti e rendite, su attività improduttive, ottenute da pochi a danno di molti.
Nonostante quanto è avvenuto, questa stessa scienza non demorde dalle sue convinzioni e già si presenta pronta a costruirne sempre di nuove per far quadrare il cerchio delle sue molte, profonde e irrisolte, contraddizioni, sottovalutazioni e amnesie. È una


scienza che tarda, soprattutto, a riflettere e ad assumere le proprie responsabilità di valutazione, sulle distruttive contraddizioni del sistema economico-finanziario e su quanto queste pesano, con i loro impatti, sul senso del vivere umano e non solo sulla massimizzazione dei profitti e sull’uso arbitrario delle risorse naturali.

Le contraddizioni dei Nobel

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Navigando nelle disorientanti rotte delle ipotesi, delle intuizioni e delle convinzioni empiriche o delle interpretazioni «scientifiche» fornite dai macromodelli economici, cui fanno regolarmente riferimento i vari commentatori economici, alla fine mi è sembrato di aver raccolto di tutto e il suo contrario e anche qualcosa di più.
Emblematiche, in questa direzione, mi sono sembrate le contraddizioni che si sono manifestate nell’assegnazione dei Nobel per l’economia, Nobel che sembrano revival, in situazioni diverse, delle solite teorie. In economia non essendo praticabile quella «confutazione» specifica delle scienze naturali, si produce una indistinta, pur se legittima, sopravvivenza per integrazione, nel panorama delle proposte già formulate, di qualsiasi teoria, anche di quelle di epoche ormai passate: tutte rimangono sempre in prima fila, pronte a vivere una loro ricorrente giovinezza e a generare, così, una buona dose di confusione, su ciò che può essere considerato vero o falso.
Può essere interessante, in questa prospettiva, cercare un senso (che vada oltre singoli dettagli) in quelle contrapposizioni che caratterizzano i Nobel per l’economia assegnati, per esempio, negli anni 2006 e 2008. Nel 2008 a Paul Krugman (economista d’indirizzo keyneisiano e ipercritico verso la new economy) per aver previsto, con illuminato anticipo, la crisi finanziaria, causata da un mercato senza regole, che ha colpito e continua a colpire gli Stati Uniti e le economie mondiali più avanzate. Ma il premio Nobel gli è stato conferito solo a crisi già avvenuta: le sue corrette «profezie», purtroppo, non sono state raccolte nei tempi dovuti.
Krugman afferma, anche in connessione con l’attuale crisi mondiale, la necessità di un profondo cambiamento dell’economia globale del libero mercato: si può forse sperare che un prossimo premio Nobel gli venga attribuito per aver permesso di evitare ulteriori crisi e non solo per averle previste!
Nel 2006, invece, lo stesso Nobel era stato assegnato, per ragioni sostanzialmente opposte a quelle di Krugman, a Edmund Phelps, difensore dell’ortodossia monetarista e ideologicamente schierato a sostegno della innocenzadel «libero» mercato (quello che ora, «libero» da regole ha prodotto l’attuale crisi economico-finanziaria) ritenuto «neutrale» per definizione. Peccato che il premio Nobel gli sia stato conferito in previsione del successo delle sue «illuminate» intuizioni, un successo, forse, troppo «ottimisticamente» anticipato rispetto agli eventi e, di fatto oggi, mancato e anzi trasformato in una drammatica crisi non prevista. Certo è che due Nobel dati a tanta contemporanea differenza di modi di vedere l’economia, lasciano qualche dubbio sulla credibilità delle loro argomentazioni e sulla loro affidabile spendibilità, nella complessità globale delle relazioni umane.
Senza voler essere provocatori, forse c’è da chiedere di sospendere o, meglio, di sostituire i Nobel per l’economia almeno con altri Nobel assegnati secondo criteri meno estemporanei. Per esempio, si potrebbe scegliere di assegnarli a chi è riuscito a trovare il modo per favorire lo sviluppo economico concreto in regioni o stati pacificati e coinvolti in relazioni sinergiche per la realizzazione di progetti di partecipazione e cooperazione al proprio sviluppo (un tale riconoscimento sarebbe potuto andare al premio Nobel M. Yunus, che nel 2006 aveva, invece, ricevuto


il Nobel per la pace).
La scienza economica, diversamente da quelle naturali, vive dunque non di sottrazione di teorie falsificate ma d’integrazione continua di teorie variamente reinterpretate e di scenari persistenti d’idee e di fatti già noti.
Nel teatro della nostra vita, ormai campeggiato dal mercato globale, c’è un consistente rischio di finire nel ruolo di comparse e spettatori, di volta in volta, al seguito delle mode o schierati nelle diverse tifoserie di parte.
Invece di «parteggiare», forse, sarebbe meglio, per noi tutti, scendere in campo per operare, autonomamente e responsabilmente, oltre quelle infide divisioni che distruggono le «relazioni» umane propositive e costruttive di una democrazia intenzionalmente vissuta, che alienano il piacere dei diritti e dei doveri, che si oppongono all’articolazione di volontà e azioni in favore di libertà e interessi condivisi, che non permettono, alle qualità creative umane, di non finire in una «cosa» tecnologicamente avanzata e che distolgono dalla ricerca di quel «senso» delle cose che vive creativamente e in intelligente sintonia con le finalità e i segni rilevabili dai processi e dagli equilibri presenti nei fenomeni naturali.

Una metastasi che diffonde sogni

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Intanto, nella routine quotidiana e concreta dei fatti, come se tutto fosse guidato solo da un destino, con l’affermarsi della globalizzazione dell’economia di mercato, i governi nazionali sembrano aver rinunciato ad ogni diretta responsabilità nella gestione razionale e virtuosa delle risorse. Pertanto, pur essendo direttamente coinvolti in una drammatica crisi, non si sono sentiti direttamente impegnati nel cercare rimedi alle distorsioni speculative degli incontrollati strumenti finanziari. Non c’è dunque da meravigliarsi se poi oggi, in attesa delle decisioni a più alto livello, non possono fare niente di meglio che prendere atto di una mancanza di «fiducia dei mercati» e invocarne una rapida ripresa almeno per esorcizzare la prostrazione di una «felicità» consumistica mai appagata e ora anche negata.
Stiamo, di fatto, vivendo i mali di una sproporzione oltraggiosa fra i forti interessi globalizzati delle attività finanziarie e le legittime attese di comunità locali, ormai sottomesse e in condizioni di totale debolezza contrattuale sui temi fondamentali del loro esistere. Da questo stato delle cose ne deriva non solo un’inaccettabile umiliazione della dignità umana, ma anche un’avvilente impotenza delle istituzioni locali che un tempo gestivano, almeno in parte, i processi economici e, pur se a grandi linee, ne dovevano rispondere, nel bene o nel male, alle rispettive comunità.
Oggi, invece, la sprovvedutezza (socialmente diffusa e resa strutturale dalle ideologie consumistiche e dai relativi strumenti di persuasione e imbonimento che impongono consumi e ritmi di vita «predeterminati» da un sistema di comando verticistico e globalizzato) conduce le comunità umane, trasformate in masse indistinte, sulle strade perverse e distruttive dell’«ottimismo dei consumi». Una «filosofia» economica, questa dell’«ottimismo», che è senza controllo, e che condanna a una crescita demenziale dei consumi paragonabile a quella delle patologie tumorali: una metastasi che diffonde «sogni», di crescita della ricchezza, basati sul «debito» e sulla «distruzione» di risorse, quasi come se queste fossero variabili indipendenti dei fenomeni economici.
Ma se le paralizzanti distonie sistemiche e le drammatiche delusioni umane, sono certamente un dato di fatto in una realtà che sfugge al nostro controllo, dobbiamo consapevolmente prendere atto che è anche intollerabilmente assente, nei modi di pensare e nei comportamenti umani più diffusi, individuali e collettivi, una nostra capacità di fare analisi e scelte operative, virtuose e sinergiche, che incidano intenzionalmente sul divenire dei fenomeni vitali.
Non sembra, infatti, che si possa rilevare una diffusa e responsabile percezione personale e collettiva di tutto un mondo che, per trarre vantaggi e privilegi individuali o di particolari gruppi, «brucia» risorse più di quante sono quelle rinnovabili a disposizione e che non si preoccupa, neanche, di investire le risorse esauribili consumate in opere e servizi che, almeno, non si oppongano a progetti per un «futuro vivibile» e per condizioni e opportunità spendibili per un «progresso umano».
Eppure, in un mondo dove ogni evento e ogni fenomeno offrono un contributo insostituibile agli equilibri globali, nessuno dovrebbe arrivare a immaginare di poter costruire in solitudine un’autonoma condizione di benessere, senza trovarsi poi a fare i conti con quanto altri, come lui, possono


aver sottratto alla fertilità globale del nostro pianeta e, quindi, a se stessi.
Non si può non riconoscere una meta terminale implicita di autodistruzione in un mondo che, già fondato sulla dubbia convenienza della massimizzazione dei profitti, è passato alla follia suicida della massimizzazione delle rendite che provengono solo da movimenti di «capitali», senza produrre beni e servizi essenziali e tantomeno in favore del progresso umano. Nella linea di un «peggio» al quale non c’è mai fine, l’economia dell’epoca moderna, che si era inizialmente presentata come fenomeno «naturalmente» indirizzato verso la produzione artigianale di beni e servizi «essenziali» per la sopravvivenza, è andata sempre più connotandosi, poi, come fenomeno integrato di sviluppo del mercato dei consumi e di accumulazione di «capitali».
La produzione su vasta scala e il concetto di profitto, sempre in progressiva crescita e consentito dalle elevate disponibilità di capitali, sono arrivati oggi a fare leva anche su produzioni ispirate a quell’«immateriale», che anima il culto dell’«effimero» (il lusso, la moda… la «vita da bere») e che consuma risorse, senza preoccuparsi di rinnovarle, per dare risposte a domande mai formulate.
Una linea del «peggio» che sembra trovare il suo compimento estremo e finale nella massimizzazione delle «rendite parassitarie» e in quella finanza «creativa» che si considerano affrancate da ogni responsabilità verso l’economia reale, verso il conseguimento delle migliori condizioni di libertà e di correttezza e chiarezza delle relazioni e comunicazioni sociali e verso tutti quegli elementi di «benessere» che sono a fondamento del concetto di «progresso umano».

L’avvilente «lasciar fare le cose»

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In nome dell’«avvenga ciò che avviene», («obiettivo» coerente ed atteso dall’impegno verso il «fare ciò che si può fare» finalizzato solo alla «massimizzazione» dei profitti) la globalizzazione, attuata in nome del mercato dei consumi ha, di fatto, disattivato i momenti relazionali umani estraniando gli eventi e i loro significati dalle relazioni con il nostro «vissuto», neutralizzando ogni consapevole dissenso, verso scelte rese indistinte, e sottraendo, alle nostre volontà e responsabilità, la valutazione del «senso delle cose».
In uno scenario di «fatti», proposti e fatti immaginare come neutrali, avvengono, così, fenomeni non percepiti criticamente e accettati solo col «senso comune» dell’avvilente «lasciar fare le cose», che segna il degradare di un divenire nel quale la creatività umana, sostanza e segno della diversità ed unicità di ciascun individuo umano, è sempre più assente.
Qualcuno può, subdolamente, tentare di giustificare queste perverse situazioni, di contraddizioni e arbitrarietà, come effetto della «complessità». Ma si tratterebbe di una complessità sui generis, che non promuove la valorizzazione del tessuto sociale umano e che opera con stili di vita non virtuosi: più propriamente dovremmo, allora, parlare di una «complicazione» dispersiva e infertile, in quanto l’aumento di entropia, associata alla produzione e consumo di beni e servizi «complicati», comporta non solo ulteriore e ingiustificato spreco di risorse, ma anche l’impercorribilità di quei processi sinergici che generano risparmi e migliori qualità dei processi vitali.

Indispensabile essere propositivi

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Di fronte a tanto insensato uso delle prodigiose prerogative umane, non possiamo esimerci da dovute e indifferibili riflessioni. Ci sono momenti, come questi che stiamo vivendo, che dovrebbero spingere l’uomo verso la ricerca di alternative praticabili di gestione delle risorse (per poter fare scelte intenzionali ed autonome rispetto a quelle imposte dall’attuale mercato dei consumi, dall’ossessiva ricerca delle economie di scala, dall’illusione di una crescita senza limiti dei consumi e dalla valutazione di un non ben identificato benessere misurato dal Pil). Invece, ormai da qualche decennio, tutto si riduce alla solita rituale diatriba confinata negli inconcludenti confronti fra neoliberisti e keynesiani e nelle concrete e scontate decisioni di «intervento dello Stato» tanto vituperato, per quella sua attenzione al «bene comune» che «contrasta» con le richieste liberiste di deregulation, ma poi tanto invocato, e anche con prepotenza, per dare centralità al «bene privato» e per «sovvenire» al suo «fallimento» (sottraendolo, così, al suo destino come, invece, richiederebbero i principi liberisti).
Dopo un primo momento di analisi e di confronti, anche se il disorientamento sui temi economici pesa notevolmente nel momento delle scelte, non possiamo non fare riferimento al ruolo cardine «propositivo» che è proprio dell’uomo libero. Non possiamo, dunque, continuare a coltivare fantasie, sogni o risentimenti, senza riconoscere, fra le cause dei nostri mali, anche le responsabilità personali del «lasciar fare».
Se sulle ideologie liberiste non c’è modo di incidere e se anche solo immaginare una competizione, fra ideologie diverse, non può che generare contrapposizioni (quanto meno inutili, se non anche destabilizzanti e devastanti), per evitare pericolose derive dai principi e dall’esercizio dei diritti umani non rimane che la potenza democratica della nostra partecipazione decisionale come cittadini consapevoli e responsabili.
Non un’ulteriore e finale ideologia salvifica, ma la condivisione dei patrimoni di conoscenze ed esperienze, che l’uomo sa spontaneamente attivare, per mettere in campo le sinergie possibili e per favorire un progresso umano intenzionalmente costruito intorno ad un progetto scelto nella diversità delle attese. Un progetto, cioè, non dettato dalla «illuminata» decisione di un solitario «salvatore della patria» che può assumere, nella scarsità delle proprie visioni del mondo e nell’autoreferenzialità delle proprie convinzioni, le già note e sciagurate strade della soppressione sostanziale della democrazia.
Una direzione, questa, verso la quale non sono da sottovalutare i «contributi» distruttivi che possono essere forniti dai radicalismi ideologici, da quelli che pretendono di imporre regimi «assoluti» e «universali» di deregulationa quelli «estremi» del «potere dell’uomo sull’uomo» dettato da «inoppugnabili» verità politiche «rivelate». Tutto un mondo di pensieri unici (per altro spesso neanche «pensati», ma solo «praticati» come un «credere e obbedire» a qualche, forse, suggestivo ma sicuramente arido «comandamento») che mira ai principi di un conflittuale «fare» e «continuare a fare» («competere» invece di «collaborare sinergicamente», sul fronte delle deregulation liberiste, e «vietare» tutto ciò che non è dichiaratamente «consentito», sul fronte delle verità rivelate).
Quindi di fronte a queste minacciose prospettive, è necessario attivarsi per evitare l’avanzamento e lo sfruttamento eversivo di onde «fondamentaliste» (che propagandano il fascino delle «poche» cose, «forti»,


«chiare» e da «non contrastare» che producono consensi acritici a loro favorevoli). Diventa, così, indispensabile, oggi, essere propositivi, ricercando e offrendo scelte alternative, e agire diffusamente, con consapevolezze e responsabilità, per condividere un progetto di «progresso umano» e non solo per produrre «sviluppo» di qualcosa piuttosto che di qualche altra.

Ognuno ha un ruolo da svolgere

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Un prato non è una distesa inutile d’innumerevoli ed identici fili d’erba. Se si trattasse solo di una strategia ridondante di conservazione o, come qualcuno preferisce immaginare, di vittoria di una specie nell’occupare un certo habitat, saremmo forse in presenza di uno spreco inutile di risorse.
In realtà non si tratta di una replicante manifestazione di occupazione di un territorio, ma di espressioni di diversità totali, di unicità di ogni individuo: un modo per assicurare non il museo morto dell’esistente e dell’esistito, ma per poter dare un senso alla propria unicità, alle proprie capacità sinergiche, al senso di «appartenenza» ad un prato, ai suoi fertili equilibri e ai suoi complessi processi virtuosi ed essenziali per la vitalità globale del sistema Terra.
Tutti fenomeni, questi, naturali e dinamici che, pur se sfuggono a una nostra conoscenza compiuta, offrono la dimensione di quanto siano costruttivamente creative le potenzialità della diversità di ogni singolo filo d’erba. Anche gli elementi di una stessa catena neuronale (struttura fondamentale della fisiologia degli esseri viventi) non sono passivi elementi «conduttori», fisici e indifferenziati, di un segnale elettrico, ma attivi «elaboratori» di un segnale preso, quasi in responsabile consegna, e quindi ritrasmesso in sequenze, con assoluta affidabilità, fra i diversi sistemi e organi vitali: tutto un impegno esercitato individualmente da ciascuno, senza deleghe ad alcuno e senza sottomissioni a un potere imposto da una funzione piuttosto che da un’altra.
Certo è che la natura, la sua capacità vitale di reggere e sviluppare equilibri, ha molto da «raccontare» all’uomo che invece preferisce, troppo spesso, chiudersi nel piccolo e nel semplice delle sue limitate esperienze, forse anche solitarie e contorte, immaginando, magari, di poter cambiare tutto un mondo solo perché non riesce o non vuole riconoscerlo nella sua essenza.
Vi sono sicuramente difficoltà relazionali e inettitudini che rendono l’uomo «vittima colpevole» delle sue pigrizie mentali e di avvilenti fascinazioni solipsistiche. Ma queste non sono un destino, sono piuttosto una prova che chiede di mettere a frutto le migliori qualità umane. Siamo, dunque, chiamati ad andare oltre le pericolose paralisi dei nostri pensieri, oltre le suggestioni o le frustrazioni formali messe in gioco dagli eventi. Dobbiamo riuscire a dare senso e valore alle nostre capacità di ricercare, discernere, operare e saper rendere conto della efficacia e della qualità delle nostre azioni.
Dobbiamo aprire relazioni operose, consapevoli e responsabili con i nostri intorni, dobbiamo interrogarci e interagire con i fenomeni naturali, perché, almeno nella loro immanenza, tutti siamo invitati, con le nostre specifiche diversità, a partecipare e a cooperare con il loro «divenire».

Non tutti i beni sono merci

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L’annullamento della distinzione tra il concetto di bene e il concetto di merce è il fondamento su cui si basa il paradigma culturale della crescita. Se i beni si identificano con le merci, la crescita della produzione di merci comporta per definizione un aumento della disponibilità di beni e, quindi, un aumento del benessere. Il passaggio preliminare da compiere per costruire il paradigma culturale della decrescita è ripristinare questa distinzione. Altrimenti la decrescita si identifica con la rinuncia, con una riduzione del benessere, con un ritorno al passato. Mentre invece è scelta, miglioramento della qualità della vita, proiezione nel futuro.
Chi, se non un asceta, potrebbe desiderare una riduzione del proprio benessere? Riuscirebbe mai la rinuncia diventare un valore condiviso a livello di massa? Se si continua impropriamente a pensare che le merci si identifichino con i beni e che la decrescita consista in una diminuzione dei consumi, senza capire che si realizza smettendo di acquistare merci che non sono beni e incrementando l’autoproduzione di beni in sostituzione di merci che non lo sono, il paradigma culturale della crescita non solo continua ad avere una desiderabilità fondata su un bluff, ma riaffiora anche in alcune categorie concettuali che si utilizzano per criticarlo. Per esempio, nei concetti di povertà e ricchezza.

Nel paradigma culturale della crescita, l’indicatore della ricchezza è il denaro. La soglia della povertà assoluta, su cui convengono sia la Banca mondiale, sia le Organizzazioni non governative, è un reddito monetario giornaliero inferiore ai due dollari. Con due dollari al giorno si è poveri solo se si deve comprare tutto ciò che serve per vivere, solo se si dipende totalmente dalle merci. Ma se una gran parte di ciò che serve per vivere si autoproduce sotto forma di beni, due dollari possono bastare per comprare il resto.
Una famiglia con pochi soldi che produce la frutta e la verdura con cui si nutre è più ricca e autonoma di una famiglia con più soldi che deve comprarle: l’andamento dei prezzi dei prodotti ortofrutticoli non ha alcuna incidenza sul suo tenore di vita. Nel paradigma culturale della decrescita l’indicatore della ricchezza non è il reddito monetario, cioè la quantità delle merci che si possono acquistare, ma la disponibilità dei beni necessari a soddisfare i bisogni esistenziali. È povero chi non può mettere a tavola i pomodori di cui necessita, non chi non ha il denaro per comprarli.

Il denaro non è ricchezza

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Un sistema economico fondato sulla crescita del Pil ha bisogno di sostituire progressivamente i beni (che non lo fanno crescere) con le merci (che lo fanno crescere), inducendo a credere che queste sostituzioni costituiscano miglioramenti della qualità della vita. Chi produce beni non ricava denaro dalla sua attività e non può comprare merci, mentre chi smette di produrre beni per produrre merci riceve un compenso monetario con cui può acquistare merci in sostituzione dei beni che non produce più. Se si è convinti che il denaro sia la misura della ricchezza, questo passaggio diventa desiderabile e si identifica con il progresso, anche se in realtà comporta peggioramenti nelle condizioni di vita. Cosa ha motivato i flussi migratori dalle campagne alle città che hanno accompagnato e accompagnano la crescita del Pil, se non l’identificazione della ricchezza col denaro?

Un sistema economico libero dall’obbligo della crescita produce sotto forma di beni tutto ciò che prodotto sotto forma di merce comporterebbe peggioramenti qualitativi, limitandosi a produrre sotto forma di merce soltanto ciò che non può essere autoprodotto sotto forma di bene.
Un vasetto di yogurt comprato, prima di raggiungere la mensa del consumatore percorre qualche migliaio di chilometri, quindi contribuisce alla crescita dei consumi di fonti fossili e dell’effetto serra; produce tre tipologie di rifiuto: carta, plastica e alluminio; ha bisogno di sostanze conservanti che spesso uccidono i fermenti lattici riducendo il suo valore nutrizionale; incorpora nel prezzo di vendita oltre i costi di trasporto e confezionamento, i costi di produzione industriale, di intermediazione commerciale e pubblicitari. Uno yogurt autoprodotto non deve essere trasportato, non produce rifiuti, è ricchissimo di fermenti lattici vivi e, non richiedendo nessun costo oltre quello del latte, ha un prezzo inferiore di due terzi. Contribuisce alla decrescita del Pil, ma è qualitativamente migliore, migliora la qualità ambientale riducendo le emissioni climalteranti e i rifiuti, richiede meno denaro per soddisfare lo stesso fabbisogno alimentare e, di conseguenza, permette di lavorare meno e di avere più tempo per sé. La decrescita indotta dall’autoproduzione dei beni è anche fattore di felicità.

Lo scambio non è il baratto

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Tuttavia non sarebbe auspicabile né possibile perseguire un’autosufficienza assoluta. Ma non tutto ciò che non si può autoprodurre può essere soltanto comprato. In tutte le epoche storiche e in tutti i luoghi del mondo dove si sono formati stabilmente gruppi umani a partire dai nuclei familiari, insieme agli scambi mercantili e all’autoproduzione sono state realizzate forme di scambio non mercantili basate sul dono e sulla reciprocità. Seppure in assenza di regole scritte, gli scambi non mercantili si sono dovunque fondati su tre principi: l’obbligo di donare, l’obbligo di ricevere, l’obbligo di restituire più di quanto si è ricevuto. Pertanto, la dinamica del dono e del controdono crea legami sociali. In questa sfera rientrano il dono del tempo, delle capacità professionali, della disponibilità umana, dell’attenzione, della solidarietà, ma non il baratto, che ha dato origine agli scambi mercantili. La parola comunità è composta da due parole latine: la preposizione cum, che significa con e indica un legame, e il nome munus, che significa dono. La comunità è un raggruppamento umano unito da forme di scambio non mercantili.

Una società libera dal vincolo economico e mentale del Pil ridimensiona gli scambi mercantili a ciò che non può essere più vantaggiosamente autoprodotto e scambiato sotto forma di dono. La sua struttura produttiva può essere paragonata a una figura geometrica composta da tre cerchi concentrici.
Il cerchio interno rappresenta l’area dell’autoproduzione di beni e servizi. La prima corona l’area degli scambi fondati sul dono e la reciprocità. La corona esterna l’area degli scambi mercantili. In essa le filiere più corte sono più interne e le merci si dispongono progressivamente verso l’esterno man mano che aumentano le intermediazioni commerciali e la distanza tra i luoghi in cui sono prodotte e i luoghi in cui vengono consumate. Le società fondate sulla crescita allargano progressivamente questa area rosicchiando il terreno alle altre due. Una società fondata sulla decrescita estende le due aree interne ridimensionando la terza.

Decrescere per uscire dalla povertà

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Nelle società agricole la produzione di beni prevale sulla produzione di merci e la compravendita ha un ruolo complementare. Il loro Pil tende pertanto a rimanere statico. Le società industriali sono invece caratterizzate dalla prevalenza della produzione di merci e il loro Pil cresce in continuazione. Mutuando il concetto di sviluppo dalla biologia, le società industriali occidentali fondate sulla crescita considerano sottosviluppate, cioè povere, ma anche a uno stadio inferiore di civiltà, le società in cui il Pil non cresce; in via di sviluppo le società in cui la prevalente produzione di beni viene progressivamente sostituita da una sempre più estesa produzione di merci; sviluppate le società in cui prevale la produzione di merci e il Pil cresce. In questo quadro i programmi di sviluppo per far uscire dalla povertà i popoli poveri consistono nella trasformazione di economie prevalentemente fondate sulla produzione di beni in economie prevalentemente fondate sulla produzione di merci.

In realtà i programmi di sviluppo aggravano la povertà dei popoli poveri anche quando realizzano incrementi del loro reddito pro capite, perché distruggono le economie di sussistenza, quindi la possibilità di soddisfare i bisogni vitali con la produzione di beni, senza consentire un loro inserimento concorrenziale nel mercato mondiale, dove i paesi sviluppati esercitano una incontrastabile supremazia tecnologica e finanziaria.
Solo ristrette oligarchie, che posseggono le grandi estensioni di terreno e i capitali necessari agli investimenti, riescono ad accrescere i loro profitti. Per di più, l’inserimento delle produzioni agricole nel mercato mondiale richiede il passaggio dalla biodiversità alla monocultura, impoverendo la fertilità dei suoli e accrescendo la dipendenza dalla chimica, cioè dalla necessità di acquistare prodotti tecnologici dai paesi industrializzati.
Il passaggio dalla produzione di beni alla produzione di merci è una trappola da cui i paesi sottosviluppati non riescono a liberarsi se non ritornando, con molta fatica, a un’economia di sussistenza, alle conoscenze, alle tecnologie, ai rapporti sociali, ai valori, alla cultura su cui si è fondata nel corso dei secoli e su cui, con le necessarie implementazioni, può continuare a fondarsi in futuro. Le sirene dello sviluppo cantano alle orecchie dei popoli poveri nell’interesse dei popoli ricchi, anche quando assumono i toni suadenti delle organizzazioni umanitarie. Sono i popoli ricchi, e il meccanismo della crescita su cui sono impostate le loro economie, ad aver bisogno di un crescente mercato di produttori a basso costo e consumatori di merci. Anche se di primo acchito può sembrare un paradosso, solo un’economia fondata sulla decrescita consente ai popoli poveri di uscire dalla povertà.