Destra o sinistra stessa scelta

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Un sistema economico fondato sulla crescita del Pil è innovatore per necessità intrinseca. Per accrescere l’offerta di merci ha bisogno di continue innovazioni di processo finalizzate a incrementare la produttività, cioè le quantità prodotte da ogni occupato nell’unità di tempo.
Per accrescere la domanda ha bisogno di continue innovazioni di prodotto finalizzate a rendere obsolete in tempi sempre più brevi le merci acquistate, in modo da abbreviare i tempi di sostituzione. Entrambe le innovazioni dipendono dagli sviluppi della tecnologia, della ricerca scientifica e delle innovazioni estetiche. Maggiori sono le innovazioni, più rapida è la loro successione, maggiore è la crescita della produzione e del consumo di merci. In un sistema economico che misura la crescita del benessere con il Pil, l’innovazione diventa un valore in sé.

La destra e la sinistra, in tutte le configurazioni che hanno assunto nel corso della storia, sono due varianti di un identico paradigma culturale che ha come capisaldi la crescita, l’innovazione e il progresso. Accomunate dallo stesso sistema di valori, si distinguono nelle politiche da adottare per favorirne la realizzazione e nelle modalità di ripartirne i vantaggi tra gli attori sociali. La destra sostiene che il mercato e la concorrenza sono gli strumenti migliori per favorire lo sviluppo delle innovazioni e la crescita economica. La sinistra ritiene che l’intervento statale sia indispensabile per guidare le innovazioni e la crescita economica verso obbiettivi che armonizzino gli interessi individuali col benessere collettivo. Il pre-requisito è che la torta cresca, altrimenti non ce n’è per nessuno, la politica ha il compito di fare in modo che le fette siano suddivise con maggiore equità. Ma se le fette si ripartiscono più equamente, ribatte la destra, si accresce la quota di reddito destinata ai consumi e si riducono gli investimenti in innovazioni tecnologiche, per cui la torta cresce di meno. Un’economia più produttiva è meno equa, un’economia più equa è meno produttiva. La destra è dunque più innovativa e progressista della sinistra, anche se la sinistra pretende di possedere in esclusiva queste connotazioni. E se l’obbiettivo comune è la crescita, la destra parte in vantaggio. Sostenere la necessità della decrescita significa collocarsi al di fuori di questa dialettica e rimettere in discussione il paradigma culturale che ha caratterizzato le società occidentali dalla rivoluzione industriale a oggi.

La crescita rende dipendenti da tutto

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In un sistema economico fondato sulla crescita, la produzione è un’attività finalizzata a trasformare le risorse in rifiuti attraverso un passaggio intermedio, sempre più breve, allo stato di merci. Le innovazioni di processo hanno la funzione di accelerare i tempi di trasformazione da risorsa a merce; le innovazioni di prodotto da merce a rifiuto. Quanto più breve è la durata del percorso, tanto maggiore è la crescita del Pil Il senso ultimo dello sviluppo scientifico e tecnologico finalizzato alla crescita del Pil è la produzione di quantità sempre maggiori di rifiuti in tempi sempre più brevi. In termini più generali è l’applicazione della razionalità a uno scopo irrazionale e ha come risultato finale la devastazione del mondo.

In un sistema economico e produttivo finalizzato alla decrescita le innovazioni tecnologiche sono finalizzate alla riduzione del consumo di risorse e di energia, della produzione di rifiuti e dell’impatto ambientale per unità di bene prodotto. La decrescita non richiede meno tecnologia della crescita, ma uno sviluppo tecnologico diversamente orientato.
Per costruire un edificio che non ha bisogno dell’impianto di riscaldamento per mantenere una temperatura interna di 20 gradi con una temperatura esterna di 20 gradi sotto zero ci vuole più tecnologia di quella che occorre a costruire una casa che consumi 20 litri di gasolio al metro quadrato all’anno, come fanno in media gli edifici costruiti nel dopoguerra in Italia. Ma un edificio che ha bisogno di una minore quantità di energia contribuisce a ridurre il Pil. Tutte le innovazioni tecnologiche che riducono l’impronta ecologica, ovvero la quantità di superficie terrestre necessaria a ogni individuo per ricavare le risorse di cui ha bisogno, comportano una decrescita economica che contribuisce a migliorare la qualità degli ambienti e la vita degli esseri umani. Una decrescita felice.

La crescita ha bisogno di esseri umani incapaci di tutto. Chi non sa fare nulla dipende dalle merci. Il paradigma culturale della crescita implica l’impoverimento culturale degli esseri umani. Il paradigma culturale della decrescita richiede lo sviluppo e la diffusione di un sapere finalizzato al saper fare che rende più autonomi e liberi, comporta la rivalutazione del lavoro manuale e artigianale, il superamento del lavoro parcellizzato, la ricomposizione unitaria del sapere contro la super-specializzazione che fa perdere la visione d’insieme di ciò che si fa, la riunificazione del sapere come si fanno le cose (cultura scientifica) con la ricerca del senso per cui si fanno (cultura umanistica).

Nelle città si deve comprare tutto ciò che serve per vivere, per cui tutte le attività lavorative sono finalizzate a ricavare denaro. Chi vive in città non può fare altro che produrre merci per poter comprare merci. Le città sono luoghi di mercificazione totale. La predominanza assoluta di rapporti commerciali e competitivi cancella ogni forma di solidarietà e collaborazione tra chi vi abita. Confusi nella folla gli individui sono soli. Oltre al cibo, agli oggetti e ai servizi, nelle città occorre comprare anche l’otium, che assume prevalentemente le forme degli svaghi e dei divertimenti massificati. Gli spostamenti


al loro interno tanto più costosi quanto più diventano faticosi e lenti, con tanto di fitta cappa di gas di scarico e ininterrotto rumore di fondo. Nell’anno 2006 i residenti nelle aree urbane hanno superato la metà della popolazione mondiale e continuano a crescere. Le città più grandi superano i 20 milioni di abitanti e si avviano verso i 30. Ma se questa crescita si arrestasse, non crescerebbe più il numero di coloro che devono comprare sotto forma di merci tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere e si ridurrebbe la crescita del Pil. Le città sono escrescenze tumorali che devastano il corpo di Gaia. Solo la decrescita può riportare alla fisiologia questa patologia. La rivalutazione dell’autoproduzione e degli scambi non mercantili, della solidarietà e della dimensione comunitaria, implica un processo di de-urbanizzazione.

Ridurre la domanda di merci

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Per arrestare la crescita e trasformarla in decrescita basta ridurre la domanda di merci. Poiché nessuno può obbligare qualcuno a comprare qualcosa, i consumatori hanno nelle loro mani un’arma molto potente, soprattutto in considerazione del fatto che nei paesi industrializzati la crescita dei consumi è ormai sostenuta dall’inutile.
Per superare questa difficoltà oggettiva, i costi della pubblicità sono una quota sempre più rilevante dei costi di produzione totali. Inoltre si inoculano nel tessuto sociale dosi massicce di idiozia rivestendo di una presunta valenza etica l’atto dell’acquistare, indipendentemente da ciò che si acquista. Buy something, dicono i pubblicitari. Comprate qualcosa. Non importa cosa. All’attuale livello di crescita non si lavora più per produrre qualcosa che serva, ma si deve comprare qualcosa che non serve per poter continuare a produrre.

Socrate andava di tanto in tanto al mercato per vedere quanto fosse grande il numero delle cose di cui non aveva bisogno. Nel paradigma culturale della decrescita la sobrietà è uno dei valori fondanti, che non a caso il paradigma culturale della crescita ha ridicolizzato, derubricandola a taccagneria. Ma la sua valenza positiva rischia di rimanere appannata se viene confusa con l’ascetismo o con un atteggiamento di rinuncia motivata da più nobili e alti motivi: per non esaurire le risorse, per ridurre l’inquinamento, per non sottrarre il necessario ai poveri, per valorizzare la dimensione spirituale dell’uomo, per sostituire le merci ad uso individuale con merci ad uso collettivo.
La sobrietà non è rinuncia, ma una scelta di vita che fa stare meglio non solo chi la pratica, ma la specie umana nel suo insieme. Chi confonde il benessere col tantoavere accumula soltanto frustrazioni e insoddisfazioni. Non vive bene. Nella società che ha raggiunto i massimi livelli del consumismo materialista, gli Stati Uniti, metà della popolazione fa uso sistematicamente di psicofarmaci. A chi invece si limita a utilizzare con sobrietà quanto serve per vivere senza restrizioni né sprechi, rimane il tempo per dedicarsi alle sue esigenze spirituali.

La sobrietà non è solo uno stile di vita, ma anche una guida per orientare la ricerca scientifica e le innovazioni tecnologiche a ottenere di più con meno. La costruzione di edifici in grado di assicurare il benessere col minimo consumo di risorse, la progettazione di oggetti fatti per durare nel tempo, la riparazione invece della sostituzione, il riciclaggio e la riutilizzazione delle materie prime di cui sono fatti.
Sebbene l’adozione di uno stile di vita basato sulla sobrietà abbia una valenza politica intrinseca, tuttavia non esime da un impegno politico finalizzato a orientare le scelte pubbliche in base allo stesso criterio. I cittadini consapevoli della necessità di ridurre i rifiuti per ragioni etico-ambientali, non possono non impegnarsi politicamente affinché le pubbliche amministrazioni prendano le decisioni necessarie a realizzare un’efficace sistema di raccolta differenziata, riuso e riciclaggio. Ma le scelte delle pubbliche amministrazioni ispirate a criteri di sobrietà non possono ottenere risultati significativi senza la partecipazione consapevole dei cittadini. I cittadini che decidono di usare i mezzi pubblici per ridurre


l’inquinamento da traffico non possono non impegnarsi politicamente per indurre le pubbliche amministrazioni a porre limitazioni alla circolazione automobilistica e potenziare le reti di trasporto collettivo. La sobrietà può essere perseguita come scelta di benessere individuale, ma se si traduce in proposte e scelte politiche, i suoi benefici diventano maggiori.

Verso un nuovo Rinascimento

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La sobrietà però non basta. È condizione necessaria, ma non sufficiente per la decrescita. Deve affiancarsi all’autoproduzione e allo scambio non mercantile di beni, che non solo possono contribuire in maniera determinante alla decrescita, ma liberano dall’onnimercificazione l’immaginario collettivo, la conoscenza, i rapporti sociali, i criteri di interpretazione della realtà. Non si limitano a rallentare la velocità con cui la crescita sta portando la specie umana verso un precipizio senza ritorno, ma guidano in un’altra direzione il suo cammino.

L’autoproduzione e gli scambi non mercantili di beni riscoprono e valorizzano elementi del passato che sono stati abbandonati in nome della modernità e del progresso. In questo senso si inscrivono nel contesto di una cultura conservatrice. Ma non per questo costituiscono un’alternativa alle innovazioni. Consentono invece di scegliere quali di esse abbiano una reale potenzialità di futuro. Di distinguere, per usare le parole di Pasolini, il vero dal falso progresso.
In questo senso si inscrivono nel contesto di una cultura autenticamente progressista. Dal versante del passato ripropongono, per esempio, il sapere e il saper fare elaborati nell’unica attività umana davvero indispensabile: la produzione, la trasformazione e la conservazione degli alimenti. Ma consentono anche di implementarlo orientando gli sviluppi scientifici e le innovazioni tecnologiche alla sempre più piena realizzazione del concetto espresso con la parola agricoltura, che deriva dalle parole latine ager «terreno coltivato», e cultura, derivante a sua volta dal verbo colere «aver cura, onorare, rispettare, abbellire», la stessa radice della parola cultus, la venerazione che si deve alla divinità.
Nel versante del futuro, l’autoproduzione e lo scambio non mercantile di beni caratterizzano le tecnologie che hanno le maggiori potenzialità di ridurre l’impatto ambientale e il consumo di risorse dei processi di produzione: l’informatica e l’energia. Gli sviluppi del software libero sono stati ottenuti mettendo in rete sotto forma di doni reciproci le successive implementazioni elaborate da una comunità virtuale liberamente costituitasi. Le energie rinnovabili, per raggiungere i massimi livelli di efficienza e ridurre al minimo gli impatti ambientali, dovranno svilupparsi in impianti di piccola taglia finalizzati all’autoconsumo, collegati in una rete di piccole reti locali dove si possa realizzare lo scambio reciproco delle eccedenze. La stessa metodologia dell’agricoltura di sussistenza, dove in ogni podere si produce un po’ di tutto e si vende il surplus, ma anche la stessa struttura della rete informatica.

La decrescita è elogio dell’ozio, della lentezza e della durata; rispetto del passato; consapevolezza che non c’è progresso senza conservazione; indifferenza alle mode e all’effimero; attingere al sapere della tradizione; non identificare il nuovo col meglio, il vecchio col sorpassato, il progresso con una sequenza di cesure, la conservazione con la chiusura mentale; non chiamare consumatori gli acquirenti, perché lo scopo dell’acquistare non è il consumo ma l’uso; distinguere la qualità dalla quantità; desiderare la gioia e non il divertimento; valorizzare la dimensione spirituale e affettiva; collaborare invece di competere; sostituire il fare finalizzato a fare sempre di più con un fare bene finalizzato alla contemplazione. La decrescita è la possibilità


di realizzare un nuovo Rinascimento, che liberi gli uomini dal ruolo di strumenti della crescita economica e ri-collochi l’economia nel suo ruolo di gestione della casa comune a tutte le specie viventi in modo che tutti i suoi inquilini possano viverci al meglio.

Cominciarono i sovietici

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Ma come si misura il flusso di denaro che circola da un settore economico all’altro, dai settori produttivi alle famiglie che comprano merci e servizi e a loro volta «vendono» lavoro agli stessi settori produttivi?

Vari tentativi sono stati fatti addirittura nel Settecento e nel corso dell’Ottocento, ma un concreto tentativo di valutazione «meccanica» di tale flusso si è avuto agli inizi del Novecento nell’Unione sovietica; negli anni Venti il governo bolscevico instaurato da Lenin doveva ricostruire un paese devastato dalla guerra e dalla crisi economica, con industria e agricoltura arretrate, con una popolazione dilaniata da divisioni e odi interni. Non sarebbe stato possibile risollevare l’industria del grande paese, ricco di risorse naturali, non sarebbe stato possibile riportare gli alimenti e le merci nei negozi, senza una pianificazione capace di indicare le priorità produttive: elettricità, carbone, concimi, acciaio, grano, burro, eccetera. E la pianificazione richiedeva la conoscenza di un quadro completo delle produzioni e dei loro rapporti: quanti concimi e trattori occorrono per aumentare la produzione di grano; quanto carbone per aumentare la produzione di acciaio; quanto acciaio per produrre i trattori, quanto latte occorre per assicurare il burro alle famiglie; quanto denaro occorre per tenere in moto tutta questa materia?

Per dare una risposta a tali domande Lenin nel 1921 creò il Gosplan, lo speciale ufficio per la pianificazione, in cui raccolse i migliori ingegni economici, matematici, tecnico-scientifici del paese, per costruire il primo bilancio economico dell’Urss. In questa atmosfera lavorò un giovanotto, Vassily Leontief, che nel 1925, ad appena 19 anni, scrisse il primo dei numerosi articoli che lo avrebbero portato al premio Nobel per l’economia. Leontief si trasferì successivamente negli Stati Uniti dove fu assunto, negli anni Trenta, dall’ufficio di ricerche economiche col compito di redigere, per l’America, un bilancio economico simile a quello a cui aveva lavorato nell’Urss.

Visto in prospettiva si trattava di un lavoro gigantesco; occorreva avere attendibili informazioni statistiche, comprendere come ciascun settore economico «vende» merci a tutti gli altri settori e rifornisce, con le proprie tasse, le tasche dello Stato; come le famiglie «vendono» il proprio lavoro ai vari settori economici e col ricavato acquistano i beni e i servizi necessari.
Questa grande circolazione di denaro e di beni materiali può essere «scritta» in una grande «tabella» di interdipendenze settoriali o, come si dice, di rapporti input-output. Ciascun settore produttivo e di consumi finali e di servizi ha una entrata (input), proveniente da tutti gli altri settori e a tutti gli altri settori cede qualcosa (output): materie prime, energia, metalli, grano, automobili, concimi, tessuti, carne, lavoro, servizi di trasporti, eccetera. E questa gran massa di dati doveva essere rappresentata in una forma matematica adatta a rispondere alla domanda: per far aumentare del 10 per cento la produzione di acciaio, di quanto deve aumentare la produzione di minerali, la richiesta di mano d’opera, di quanto aumenteranno i consumi delle famiglie?

L’idea originale del Gosplan fu di scrivere una contabilità nazionale in unità fisiche; tale idea discendeva dalla trattazione


marxiana della «circolazione» e della «riproduzione» dei beni, fu teorizzata da Bucharin e Preobrazenski, nel celebre «ABC del comunismo», del 1922, e suscitò un vivace dibattito anche teorico e politico. Molte testimonianze sono contenute nel libro (ormai raro) curato da Nicolas Spulber, «La strategia sovietica per lo sviluppo economico, 1924-1930. La discussione degli anni Venti nell’Urss», pubblicato nel 1954 e tradotto in italiano da Einaudi nel 1970.

La «creazione» del Pil

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Apparve però subito che una contabilità fisica comportava la necessità di confrontare e sommare «cose» estremamente eterogenee, ferro con patate, macchine con legname, carbone con zucchero, eccetera. Infine si andava incontro a problemi di duplicazioni contabili: lo stesso chilo di ferro va contato quando il minerale viene venduto alle acciaierie, quando le acciaierie vendono acciaio alle fabbriche dei trattori, quando l’industria meccanica vende i trattori al settore dell’agricoltura, eccetera: il chilo di ferro è sempre lo stesso ma viene contato quattro (e magari molte altre) volte.

Ben presto l’ambizioso progetto, pur concettualmente corretto, fu abbandonato e le prime tavole intersettoriali dell’economia sovietica furono scritte in unità monetarie; quanti rubli ciascun settore economico cedeva a, o riceveva da, tutti gli altri. Il bilancio dell’economia sovietica per il 1923-’24, elaborato da P. I. Popov, era rappresentato con una «matrice» intersettoriale, o input-output, nella forma che sta alla base, ancora oggi, dei bilanci economici nazionali in tutto il mondo.

Anzi, proprio sulla base delle tavole intersettoriali redatte in ciascun paese viene elaborato, con opportuni artifizi contabili, il «prodotto interno lordo», basato sulle ricerche di Colin Clark in Inghilterra, da Simon Kuznets negli Stati Uniti e dell’inglese Richard Stone; per evitare, anche qui, duplicazioni contabili (gli stessi mille euro sono pagati dall’industria saccarifera al coltivatore di barbabietola, dal negoziante all’industria saccarifera, e dalle famiglie al negoziante quando comprano lo zucchero, e sono gli stessi mille euro che i componenti delle famiglie ricevono in cambio del loro lavoro dalle fabbriche o dagli uffici, eccetera) il Pil è stato definito come la somma della quantità di denaro che arriva ai settori dei «consumi» finali delle famiglie e dei servizi, più la quantità di denaro che viene investita per macchinari, edifici, eccetera, a vita media e lunga, più il costo delle merci e dei servizi importati, meno il prezzo delle merci e dei servizi esportati.

Ma l’ecologia rompe le uova…

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Tutto è andato bene fino a che, a partire dagli anni Sessanta, con la «scoperta dell’ecologia», vari studiosi hanno cominciato a spiegare che il Pil era un ben povero indicatore dello stato di salute di una economia. Tutti i «processi» di produzione e di consumo, descritti come scambi monetari, anche quelli apparentemente immateriali, sono accompagnati non solo dal movimento di migliaia o milioni di tonnellate di minerali, fonti energetiche, prodotti agricoli e forestali, metalli, merci, eccetera, per cui si paga un prezzo, ma anche dal movimento di una quantità, molte volte maggiore, di molti altri beni materiali tratti dalla natura.
Dalla natura «si acquistano» senza pagare niente, l’ossigeno indispensabile per la respirazione animale e per le combustioni industriali, o i sali del terreno necessari per la crescita delle piante; inoltre, nei vari processi vengono generate molte altre cose, come l’anidride carbonica e gli altri gas che finiscono nell’atmosfera, o le sostanze liquide e solide che finiscono nelle acque o sul suolo, alterando i caratteri e la futura utilizzabilità di questi corpi naturali, spesso senza che venga pagato alcun risarcimento a nessuno. L’unico inconveniente è che mentre la massa di denaro, un ente immateriale, può aumentare quanto si vuole, i beni fisici che tengono in moto il flusso di denaro vengono tratti dai corpi naturali (aria, acqua, mare, suolo) e negli stessi finiscono le scorie delle attività umane, e tali corpi naturali sono grandi, anche grandissimi, ma non illimitati.

Un esempio della contraddizione fra aumento della ricchezza e del Pil e limitatezza delle risorse naturali è offerto dalla «parabola della mucca», proposta nel 1833 da un certo Lloyd, un quasi sconosciuto demografo inglese, ripresa da Garrett Hardin, professore di ecologia umana nell’Università della California, in un celebre articolo apparso nel dicembre 1968 nella rivista «Science» e che qui ripropongo con qualche aggiustamento.

Immaginate un pascolo, grande ma non illimitato, attraversato da un ruscello ricco di acqua fresca e pulita. Una primavera un pastore porta a pascolare nel prato le sue dieci mucche; le mucche passano l’estate al pascolo, trovano nel ruscello acqua buona e nel prato erba abbondante, si nutrono e producono latte; i loro escrementi cadono nel terreno e vengono assorbiti e anzi forniscono elementi nutritivi per la crescita dell’erba la primavera successiva. Alla fine dell’estate sono contenti tutti: il pastore che ha venduto il latte abbondante con un buon guadagno, il suo personale «prodotto interno lordo»; le mucche che hanno vissuto bene; il pascolo che è pronto a fornire erba quando tornerà la primavera, il ruscello che ha le sue acque ancora incontaminate. Ma, si sa come sono gli uomini: durante l’inverno il pastore pensa che potrebbe guadagnare di più se portasse a pascolare cinquanta mucche invece di dieci. E così fa, quando arriva la primavera: ma adesso le mucche sono «troppe», rispetto alla dimensione del pascolo e alla portata del ruscello; il pascolo non fornisce erba sufficiente, anche perché gli zoccoli delle mucche pestano e schiacciano l’erba e fanno indurire il terreno; gli escrementi di


così tante mucche non sono più assorbiti dal suolo e ristagnano nel terreno e scorrono verso il ruscello che viene così inquinato e non è più grado di fornire acqua da bere.

Alle fine dell’estate il pastore ha ottenuto un po’ più latte ed è aumentato il suo Pil, ma non certo cinque volte di più dell’anno prima, ed è infelice perché sono sfumate le sue speranze di grandi guadagni; sono scontente le mucche che hanno trovato poca erba e poca acqua pulita; è scontentissimo il pascolo la cui fertilità è compromessa e il suolo indurito dagli zoccoli delle mucche ed è infelicissimo anche il ruscello la cui acqua è ora sporca. L’avidità del pastore ha fatto sì che la prossima primavera non ci sarà più erba né per cinquanta né per dieci mucche e neanche per quelle dell’anno dopo, a meno di smettere di portare le pecore al pascolo per un po’ di tempo. La parabola spiega che non si può continuare ad aumentare la ricchezza monetaria, di una persona o di un paese, senza impoverire la base fisica che genera tale Pil.

Gli strani «giochetti» del Pil

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Sulla fallacia del Pil l’americano Kenneth Boulding ha parlato dei «divertenti giochetti» che saltano fuori quando si dà eccessiva fiducia al valore del prodotto interno lordo come indicatore del reale benessere di un paese (Per tutti si può ricordare il suo: «Fun and games with the Gross National Product: the role of misleading indicators in social policy», 1970).

«Il grande dono (degli economisti) al mondo è rappresentato dalle statistiche del reddito nazionale, del Prodotto interno lordo (Pil), e della sua crescita percentuale. Però, come ogni economista sa, il calcolo del Pil è un puro esercizio di fantasia e, anche se i numeri fossero veri, il Pil è una ben miserabile misura del benessere. Il Pil può crescere grazie alla corsa agli armamenti o alla costruzione di dighe inutili.

«Il Prodotto interno lordo (Pil) è come la regina rossa del racconto di Alice ”Al di là dello specchio”: corre più veloce che può e resta sempre ferma al suo posto. Il Pil dovrebbe essere depurato dai costi della produzione di armi e di mantenimento degli eserciti, costi che non hanno niente a che fare con la difesa. Dovrebbe essere depurato anche dai costi del pendolarismo e dell’inquinamento. Quando qualcuno inquina qualche cosa e qualcun altro depura, le spese per la depurazione fanno aumentare il Pil, ma il costo dei danni arrecati dall’inquinamento non viene sottratto, il che, ovviamente, è ridicolo. Ho condotto una campagna per cambiare il nome del Pil in Cil, cioè ”costo interno lordo” perché rappresenta quello che dobbiamo produrre per restare al punto di partenza o per fare minimi passi avanti. Il consumo è una forma di degrado, è una cosa negativa, non positiva. Il prodotto fisico finale della vita economica è rappresentato dai rifiuti».

Bertrand de Jouvenel (1903-1987), un economista e uomo politico francese, fondatore del movimento «Futuribles», scrisse nel 1968 un libro, non tradotto in italiano, intitolato: «Arcadia, ovvero considerazioni sul viver meglio». In uno dei capitoli racconta il paradosso delle due sorelle, una delle quali fa la prostituta e l’altra sta a casa a badare ai figli. La prima è economicamente lodevole perché col suo lavoro, anche se poco entusiasmante, muove dei soldi e fa aumentare il Pil del paese; la seconda è deplorevole perché, pur facendo una cosa utile al marito e ai figli e alla società nel suo complesso, non guadagna niente e non fa aumentare il reddito nazionale.

Nello stesso periodo, in quegli anni 1968-’70 che rappresentano l’alba dell’attenzione per la «ecologia», qualcuno raccontò la crisi che stava colpendo gli abitanti della piccola isola di Nauru, un fortunato popolo che aveva un prodotto interno lordo pro capite superiore a quello degli Stati Uniti. La grande ricchezza monetaria dei Nauriani proveniva dal fatto che l’isola è un enorme deposito di minerali fosfatici che i Nauriani esportano con successo, vendendo però così, pezzo per pezzo, il proprio territorio. Col reddito ricavato mangiandosi il capitale, i Nauriani possono acquistare più automobili di qualsiasi altro abitante della Terra, pur non avendo strade


per farle circolare, hanno più frigoriferi, anche se l’acqua da mettere al fresco viene trasportata con navi cisterna da centinaia di chilometri di distanza. Dopo pochi decenni i Nauriani, avendo venduto tutta la loro isola, sono ora costretti a trasferirsi da qualche altra parte perché il loro reddito è stato ottenuto a spese della loro stessa casa, del loro territorio.
E i Nauriani sono fortunati perché hanno un altro posto in cui andare a rifugiarsi. Se tutti noi terrestri dilapidassimo alla stessa maniera le risorse del pianeta, non avremmo, alla fine, nessun altro posto dello spazio in cui andare essendo il pianeta Terra la nostra unica casa.

La lungimiranza di Ted Kennedy

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Ancora sulla fallacia del Pil parlò Robert Kennedy, fratello del presidente John Kennedy, assassinato a Dallas il 22 novembre 1963 e lui stesso assassinato a Los Angeles il 6 giugno 1968, in piena campagna elettorale in un discorso tenuto l’8 marzo 1968 a Lawrence nell’Università del Kansas.
«Troppo e troppo a lungo nel nostro paese abbiamo fatto coincidere i valori della nostra società con la pura e semplice accumulazione delle cose materiali. Il nostro prodotto interno lordo è oggi (1968) di 800 miliardi di dollari, ma se dovessimo misurare il valore del nostro paese dal Pil ci accorgeremmo che esso comprende l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre strade dai morti e feriti per incidenti stradali. Comprende il costo delle serrature di sicurezza della nostre case e quello delle prigioni per coloro che la violano. Comprende la distruzione delle nostre foreste e la perdita del paesaggio distrutto dall’edilizia selvaggia. Aumenta con la produzione di napalm, missili e testate nucleari e dei veicoli blindati della polizia per fermare le rivolte nelle nostre strade. Comprende le armi e i coltelli e i programmi televisivi che esaltano la violenza per vendere giocattoli per i nostri figli.

«Il prodotto interno lordo non tiene conto della salute dei nostri figli, della qualità della loro istruzione, della gioia dei loro giochi. Non comprende la bellezza della poesia o la solidità dei valori familiari; non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali e dell’integrità dei pubblici funzionari. Non misura la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra conoscenza e la solidarietà verso il prossimo. Esso misura tutto, all’infuori di quello che rende la vita meritevole di essere vissuta. E ciò è vero sia per l’America sia per tutti i paesi del mondo».

Ed effettivamente, da questo punto di vista, chi inquina un fiume rende un servizio all’economia nazionale perché costringe i paesi a valle a comprare depuratori e filtri e a comprare acqua in bottiglia, non potendo bere l’acqua del fiume, e l’acquisto di depuratori, filtri e bottiglie di acqua minerale fa aumentare il Pil. Fino ad arrivare a paradossi per cui, come diceva Kennedy, le rapine fanno aumentare le spese per la protezione e le porte blindate, la richiesta di polizia, di tribunali e di prigioni; gli incidenti stradali sono lodevoli, al fine del Pil, perché fanno aumentare la richiesta di ambulanze, ospedali e casse da morto.

Quanto poco valore abbia il Pil dimostra anche il fatto che in Italia, rispetto ad un Pil nel 2007 di circa 1.400 miliardi di euro, sfugge al calcolo come «economia sommersa», in parte «economia illegale», una cifra che nessuno conosce esattamente ma che si valuta di centinaia di miliardi di euro, costituita dall’evasione fiscale, dai proventi della criminalità, della prostituzione, del commercio della droga, delle rapine, della corruzione.

Servono nuovi indicatori

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Probabilmente dobbiamo scoprire dei nuovi indicatori capaci di descrivere non solo o non tanto il prodotto nazionale lordo, quanto il benessere di un paese, una grandezza che comprenda, oltre ai minerali estratti, alle merci prodotte, all’energia consumata, anche la disponibilità di spazi verdi, di silenzio, di animali allo stato naturale, di abitazioni adatte all’uomo, di cieli e acque meno inquinate.

Indicatori del benessere e dello sviluppo (qualunque cosa significhino queste parole) diversi dal Pil sono stati proposti molte volte negli anni passati; fra questi si possono ricordare l’«Indice di sviluppo umano», proposto dal programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo; il «Genuine progress indicator»; l’indicatore «Felicità nazionale lorda»; l’«Indice del benessere economico sostenibile» che propone di includere nel bilancio monetario il costo del degrado ambientale, il deprezzamento del capitale naturale, a dire il vero tutte grandezze di non facile misurazione in unità monetarie; il «Benessere nazionale lordo», il «Costo interno lordo», come diceva Boulding, eccetera. Un diffuso indicatore è rappresentato dalla «Impronta ecologica», un numero che corrisponde al numero di ettari di pianeta su cui «pesa» ciascuna persona o ciascun paese, partendo dal presupposto che ogni chilowattora di energia, ogni chilo di ferro o di patate, ogni metro di tessuto usati alterino l’ambiente in maniera corrispondente alla capacità di depurazione o di rifornimento di risorse di una frazione o di un multiplo di ettaro «standard» della Terra. Per qualche maggiore informazione su questo indicatore si può consultare la sempre utile enciclopedia Wikipedia che rimanda anche alla principale letteratura.

Qualche utile informazione si potrebbe trarre anche dai (purtroppo ancora pochi) tentativi fatti di redigere una contabilità economica in unità fisiche; si tratta di sovrapporre alla matrice intersettoriale dell’economia di un paese una simile matrice della quantità fisica di materia «contenuta» nel valore monetario di ciascuno scambio. Occorre perciò redigere tavole intersettoriali, input-output, simili a quelle della contabilità monetaria, nelle quali peraltro sono aggiunti i flussi di materiali estratti dai corpi naturali (aria, acqua, suolo, sottosuolo) e i flussi di materiali che ritornano nei corpi riceventi naturali.

La redazione di una contabilità nazionale in unità fisiche richiede la soluzione di grossi problemi pratici. Per far quadrare i conti bisogna avere informazioni statistiche sulle entrate e uscite di materiali, in unità di chili o tonnellate, per ciascun settore di attività: agricoltura, industrie, servizi, trasporti, consumi finali delle famiglie, comprese le materie tratte (gratis) dall’aria o dal suolo o sottosuolo, comprese le materie immesse come rifiuti o scorie nell’aria, nelle acque, nel suolo.

Per definizione, per il principio di conservazione della massa, in ciascun settore economico entra esattamente la stessa quantità di materia che esce dallo stesso settore economico verso gli altri settori, verso i consumi finali e verso i corpi naturali, tenendo naturalmente conto delle importazioni ed esportazioni e della massa di materiali a vita lunga (edifici, macchinari, arredi domestici) che restano «immobilizzati» come stock «dentro» l’economia, dentro la «tecnosfera», per un periodo di tempo più lungo dell’anno a cui si riferisce generalmente l’analisi. In questo


modo non scappa nessun chilo di acqua portata via dai fiumi o dal sottosuolo, di rifiuto o di gas inquinante.

L’esame delle tavole input-output in unità fisiche spiega bene fenomeni noti spesso solo qualitativamente: le attività «economiche» comportano un impoverimento delle riserve di beni «naturali» (materiali di cava e miniera, fertilità del suolo, risorse idriche) e un peggioramento della qualità dei corpi riceventi ambientali: aria, acqua, suolo. Informazioni fondamentali per la politica ambientale, per identificare i settori da cui provengono le scorie inquinanti e per far pagare i danni ambientali, per incentivare usi e materiali alternativi a quelli esistenti, divieti di scaricare rifiuti nei corpi riceventi naturali, per orientare produzione e consumo di materiali e merci, eccetera.

Per uscire dalle trappole del Pil c’è da percorrere un lungo cammino, ma non era diversa la situazione degli studi sull’economia monetaria negli anni Trenta, un cammino che può portare a realizzare quanto preconizzato da Alfred Marshall quando scrisse, nel 1898, oltre un secolo fa, cento anni fa, che «nello stato più avanzato dell’economia la Mecca dell’economista è l’economia biologica», la città in cui cadranno le barriere fra contabili della natura e contabili dei soldi e in cui sarà possibile uno sviluppo sociale capace di soddisfare i bisogni umani nel rispetto di valori (la salute, la bellezza della natura, la vita) che sono altrettanto, se non più, importanti delle merci e del denaro.

Un richiamo ai negoziati mondiali

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Kofi Annan, (1999) al Forum economico mondiale di Davos, Svizzera, fece un richiamo in cui si evidenzia il ruolo essenziale delle imprese cooperative, i suoi principi e valori universali nell’ottica dello sviluppo sostenibile, come segue:

«Nei due anni che sono trascorsi da quando io divenni Segretario Generale delle Nazioni Unite, la nostra relazione col settore privato ha fatto grandi progressi. Abbiamo dimostrato attraverso le imprese cooperative, sia a livello di pianificazione sia nella pratica, che gli obiettivi delle Nazioni Unite e quelli della comunità mondiale di affari possono aiutarsi vicendevolmente».

«Io voglio ora, sfidare i leader di questa comunità ad andare oltre. Io chiedo loro di unirsi a me in un patto mondiale di valori e principi condivisi che possono dare un aspetto umano al mercato mondiale».

«I valori universali sono stati già ben definiti da accordi internazionali, incluso la Dichiarazione universale di diritti umani, la Dichiarazione della Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) sui principi e diritti fondamentali nel mondo del lavoro e la Dichiarazione di Rio del 1992 su Ambiente e Sviluppo».

«Loro possono sostenere anche un approccio preventivo alle sfide dell’ambiente ed intraprendere iniziative per promuovere una maggiore responsabilità ambientale».

Questa iniziativa di Kofi Annan è nota oggi come «Patto mondiale» o «Patto globale» («Global Compact»):
Secondo Luis Ernesto Salinas (2007): «Ciò che il Progetto ?Global Compact? delinea al mondo è una forma nuova di concepire il funzionamento strutturale dell’economia. Ciò che vediamo è che all’inizio gli impresari si adeguano alle tendenze globali della Responsabilità sociale, ma con un approccio filantropico. Si pensa che quello che si deve fare è accumulare ricchezza per ridistribuirla in seguito attraverso le donazioni, la risposta è no, quella strada filantropica non è quella che cambierà il mondo e ciò che realmente è necessario è cambiare completamente il funzionamento strutturale dell’economia».

Economia cooperativa: «noi dobbiamo avanzare verso un’economia cooperativa. L’origine del fondamento economica del ?Global Compact?, è nata dal matematico, John Forbes Nash, premio Nobel in Scienze Economiche, che dimostrò che le società cooperative sono molto più sostenibili e più prospere delle società competitive. Ugualmente, Amartya Sen, premio Nobel in Scienze Economiche nel 1998 per lo sviluppo tecnico-economico di questa teoria sulle società cooperative, enuncia un altro dei postulati su cui si basano le Nazioni Unite per proporre al mondo il concetto dello sviluppo umano».

«Sen fu un’eccezione fra gli economisti del secolo XX per la sua insistenza nell’attenersi a questioni di valori, largamente abbandonati nella discussione economica ?seria?. Egli delineò una dalle più grandi sfide al modello economico che localizza il proprio interesse come un fattore fondamentale della motivazione umana. Anche se la sua scuola va avanti malgrado sia una minoranza, essa ha aiutato a redigere progetti di sviluppo e finanche di politica delle Nazioni Unite».

«Il lavoro più noto di Sen è: ?Povertà e carestie: un saggio sul diritto e la privazione? (?Poverty and Famines: An Essay on Entitlements and


Deprivation?) del 1981 in cui dimostrò che la fame non è conseguenza della mancanza di cibo, ma delle ineguaglianze nei meccanismi della distribuzione del cibo. Oltre alla sua inchiesta sulle cause delle carestie, il suo lavoro nel campo dello sviluppo economico ha avuto molta influenza nella formulazione dell’Indice di sviluppo umano l’Isu (o Hdi) delle Nazioni Unite».

Le Cooperative nel segno dello Sviluppo Sostenibile

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La crisi finanziaria e morale attuale, risultato di alcune abitudini di produzione e consumo non sostenibili, unita ai problemi che affliggono il mondo (guerre, droga, violazione dei diritti umani, corruzione, distruzione di suoli agricoli, invecchiamento della popolazione, mancanza di infrastrutture educative, sociali, mortalità infantile, carestie, cambiamenti climatici ecc.) pongono grandi sfide ai governi centrali e regionali con obiettivi a breve medio e lungo termine (1, 2, 5, 10, 15, 20, 30, 50, 100 anni e oltre).
Un modo per affrontare la crisi finanziaria e morale attuale potrebbe essere l’aumento del cooperativismo, dei suoi principi, dei suoi valori e la sua espansione verso nuove attività manageriali o «modelli alternativi di gestione»? come per esempio le cooperative associate al campo della protezione ambientale «cooperative ecologiche»? per offrire «servizi multipli ambientali e artigianali».

Secondo l’autore la Cooperativa ecologica si delinea come il «modello ecologico manageriale del secolo XXI ed oltre». Queste cooperative sarebbero concepite come un’Organizzazione principalmente artigianale, altruista, naturalista e possibilista da cui derivano i principi e valori universali del cooperativismo nella linea filosofica degli accordi volontari, antecedenti e futuri alla «Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo» (Cnumad), che ebbe luogo dal 3 al 14 giugno 1992 a Rio de Janeiro, meglio conosciuta come «Summit della Terra», specificamente, il Programma 21 (valore morale), l’«Agenda 21 Locale» e «Agenda 21 scolare».

La «Cooperativa ecologica», indica un’associazione ecologica ed autonoma di persone unite per soddisfare le proprie necessità primarie e le proprie aspirazioni, in comune (autogestione); l’idea è che attraverso un’impresa ecologica di proprietà della famiglia e di amministrazione democratica, ogni persona, sia il suo «proprio leader» con atteggiamenti ed attitudini «corresponsabili e proattive» per agire come «risolutorie» di processi educativi e cooperativi (senza la burocrazia); tendenti al conseguimento di «giustizia ambientale», mediante l’armonizzazione delle politiche economiche, sociali, ambientali e culturali di un paese.
Perciò, la «cooperativa ecologica», coopera direttamente con l’incremento della qualità della vita e la qualità ambientale degli esseri umani, degli ecosistemi, degli habitat urbani e rurali fornendo «servizi multipli ambientali e artigianali» alla collettività su scala prima locale e poi regionale, nazionale e internazionale.
Le «cooperative ecologiche», sarebbero poi le organizzazioni ideali per sviluppare la pianificazione ambientale su scala umana e «la Cultura di una Istruzione per la sostenibilità dall’Età infantile (da 0 a 6 anni) all’Adolescenza».
Per rendere operativo questo modello di gestione alternativa ecologica e manageriale si dovrà progettare una «ecostruttura» che riunisca l’essenza del cooperativismo e le norme internazionali di protezione ambientale puntando sui seguenti punti: a) Intrasettoriali (cioè la propria organizzazione); b) Settoriali; c) Multisettoriali; d) Pluridimensionali. Con l’obiettivo fondamentale di promuovere la cooperazione decentralizzata come filosofia di vita, fra i tre livelli di governo: centrale, regionale (metropolitano) e locale congiuntamente ai «Gruppi principali», attraverso l’interscambio delle esperienze o «le migliori pratiche» a livello mondiale.

Opportunità per gli imprenditori

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In un «società globale in crisi», queste forme di associazione manageriale, rappresentano un’opportunità per le nuove generazioni di imprenditori (Entrepreneurship) ed una scelta valida, allo stesso tempo, per coinvolgere persone di una certa età, pensionati e disabili ad un lavoro produttivo e degno dal punto di vista economico, sociale, ambientale e culturale che confluirà nello sviluppo municipale (autogoverno parrocchiale).

Inoltre, mediante il lavoro cooperativo («home office on line volunteers») si potrà promuovere negli esseri umani l’altruismo ed il lavoro volontario in bambine e bambini da 0 a 6 anni e adolescenti; facilitando e sostenendo i processi di investigazione educativa ed esplorativa di innovazione di grande incoraggiamento mediante un approccio preventivo alle numerose sfide del secolo XXI ed oltre, intraprendendo iniziative per lo sviluppo di una più grande corresponsabilità ambientale planetaria nel campo dell’economia cooperativa e dello studio approfondito su coefficienti di misura e sviluppo locale.

In tal modo le «cooperative ecologiche» e le loro «ecostrutture» sono chiamate a partecipare e valutare la progettazione e l’evoluzione delle politiche ambientali e dei vari programmi delle Nazioni Unite (Pnuma, Habitat, Funuap, Acnur, Fao, Unesco, Pnud ecc.).

In conclusione, le «cooperative ecologiche», si presentano oggi come un’alternativa valida per mitigare la crisi finanziaria e morale nel mondo attuale in modo sostenuto e, in futuro, insieme ai «Gruppi principali» per lo sviluppo dei principi e dei valori universali del cooperativismo, mediante il progetto di iniziative congiunte che cooperano alla stabilizzazione definitiva di una «giustizia ambientale» e del conseguimento dei «diritti umani» per tutti in modo equo, nell’ottica dell’esecuzione del Programma 21 (valore morale), del «Global Compact» (www.melbourne.org.au/186.0.html e www.citiesprogramme.org/index.php/about/) e della Raccomandazione R193 sulla «Promozione delle Cooperative, 2002 dell’Organizzazione internazionale del lavoro» (Oil).

Disfattismo ecologico

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Il bello è che tutti ci professiamo, chi più chi meno, profondamente sensibili ai dettami della religione. Quale religione impone di accumulare ricchezze distruggendo l’ambiente? Ve lo dico io: nessuna. La nostra concezione dell’economia ci ha portato in questa direzione: non siamo mai stati così ricchi e l’ambiente non è mai stato così minacciato.
Le autorità religiose se ne sono accorte, e il Papa (sia quello attuale sia il precedente) continuamente nomina l’ambiente come priorità, lanciando severi, severissimi moniti contro l’uso smodato delle ricchezze, tese soltanto ad accumulare ulteriori ricchezze. Siamo un paese cristianissimo, ma i nostri attuali programmi sono di smetterla con questi romanticismi ambientalisti per costruire tante belle centrali nucleari. Dove andranno le scorie è un problema che non ci riguarda. Le metteremo a Scanzano Ionico. A proposito, ma se a Scanzano Ionico non ci sono quelle poche scorie nucleari prodotte nella nostra breve era atomica, perché la cittadinanza le ha rifiutate, dove mai saranno? Nessuno lo dice. Magari sono sotto le chiappe delle bufale campane. Oppure le abbiamo buttate nelle profondità marine, al largo di qualche stato africano che, speriamo, non se ne accorgerà neppure quando cominceranno a capitare cose strane ai pescatori che pescano pesci in qualche posto ben preciso. Pensiamo alle scorie di tante centrali. Che ne faremo? Ma questo è disfattismo! Ormai dire no in nome dell’integrità ambientale è diventato sinonimo di disfattismo e negativismo. Qui si vuole fermare lo sviluppo! Tuonano tutti, ma proprio tutti. Purtroppo Pecoraro Scanio non ha fatto un buon servizio alla causa dell’ambiente. Ha predicato bene, ma ha razzolato male.

Lo sviluppo. Il nostro pianeta è un sistema finito: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Gli economisti, con lo sviluppo, ci impongono di crescere. Il Pil deve crescere, la curva deve sempre salire. Ma chiedere questo significa proporsi la crescita infinita. Può esistere crescita infinita in un mondo finito? La risposta è: no, non può. Ma l’economia non conosce l’ecologia. E neppure la fisica, ben più semplice da capire. Se qualcosa sale, in un sistema finito, allora qualcosa scende. Se saliamo noi, se sale il nostro numero, se salgono i nostri consumi, allora altre cose devono necessariamente scendere. Quel che scende è l’ambiente. L’altro da noi. Non è proprio così, ovviamente siamo generosi, e vogliamo che vivano le poche specie dalle quali traiamo risorse e, anche, divertimento. Ma a parte quelle, il resto quasi vorremmo eradicarlo, ignari del suo significato anche solo per il nostro benessere.

Saperi disgiunti

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Questa situazione deriva dalla compartimentalizzazione dei saperi, con gli ecologi che fanno gli ecologi, e gli economisti che fanno gli economisti. Per migliorare le cose, invece, c’è bisogno di collaborazione tra le discipline, in modo da trovare risposte non banali a domande non banali. In modo da diagnosticare i mali (e questo spesso lo fa l’ecologia) e da pianificare terapie (magari a suon di economia).
Pianificare è una parola dal suono sinistro, per gli economisti. Gli stati comunisti, in cui si è cercato di pianificare l’economia, sono falliti, il sistema non ha funzionato. Ma ora stiamo assistendo al crollo dell’altro sistema, di quello deregolato. I beni primari, quelli prodotti dai contadini, vengono pagati una miseria, e la ricchezza si costruisce su giri tortuosi di danaro che, artificialmente, aumentano il prezzo di quel che consumiamo. La legge della domanda e dell’offerta è una favoletta per bambini. Se un prodotto necessario (ad esempio un microscopio) viene comprato da pochi, il prezzo è alto perché non lo vuole nessuno. Mentre se il prodotto viene comprato da tanti, allora il prezzo è alto perché lo vogliono tutti. Ci sono eccezioni, lo so, ad esempio i computer, ma sono eccezioni. Le cose costano molto di più di quel che valgono, e il loro prezzo è dovuto spesso più a speculazioni che al loro valore.

La Cina è vicina

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Sono un ecologo, ma ora mi diverto a fare l’economista. Perché i cinesi ci stanno strozzando economicamente? La mia interpretazione è questa: i grandi industriali (e anche quelli piccoli) si son detti: ma chi me lo fa fare di produrre in Europa dove la manodopera è sindacalizzata e costa tanto? Chiudo le fabbriche in Italia e le metto in un bel paese che non dia problemi, tipo la Cina. Pago gli operai con paghe da fame, produco le stesse cose, e sono a posto. Un momento! Ma se il costo della manodopera è ridicolmente basso, dovrebbe abbassarsi anche il prezzo di quel che ci viene venduto, no? E invece no, il prezzo rimane uguale, anzi aumenta. In più, a forza di chiudere fabbriche da noi, chi si può permettere di comprare quei beni ai prezzi esorbitanti che ci vengono proposti? I cinesi non sono mica scemi, han visto che vendiamo a cento quel che paghiamo loro cinque, e si son messi a produrre quel che già producono. Non per conto nostro, ma per conto proprio. E poi vengono da noi a vendercelo a dieci invece che a cento, guadagnando il doppio di quel che han speso.
Ci dicono che rovinano la nostra economia. Per me l’hanno rovinata quelli che han chiuso le fabbriche da noi per aprirle fuori, senza far diminuire i prezzi. È la «loro» economia che è rovinata, ma loro hanno già rovinato la «mia» economia chiudendo la fabbrica dove lavoravo. Con quel che guadagno posso permettermi a malapena quel che producono i cinesi e che ci vendono a prezzi cinesi. Mi devo sentire in colpa perché compro merce prodotta in Cina a cui viene poi messa un’etichetta italiana? Chi è che ha rovinato il Made in Italy? I cinesi? Ma andiamo!
I cinesi comunque han poco da stare allegri. Noi invidiamo la crescita tumultuosa del loro Pil, ma tutto va bene solo perché si guarda l’economia e non si guarda l’ecologia. Cresce il Pil ma aumenta in modo spaventoso l’inquinamento e la distruzione degli habitat. Cresce il benessere della nostra specie e diminuisce il benessere del luogo dove la nostra specie vive. Barattiamo un benessere immediato con un malessere che sta ormai già arrivando. Crollano i sistemi ambientali, crollano i sistemi economici.
Il mondo globalizzato rende più difficile il crollo immediato del sistema che abbiamo messo su, ma la curva, lo dobbiamo ricordare ancora, non può continuare a salire. Sto parlando della curva dell’economia. E la curva dell’ecologia non può continuare a scendere.
L’ho già detto e scritto troppe volte, ma mi vedo costretto a ricordarlo ancora. Le specie di maggior successo consumano, proprio per il loro successo, le risorse che le sostengono e prima o poi crollano perché non hanno più di che vivere. Noi, in passato, quando succedeva una cosa del genere ci spostavamo, facevamo guerre ai vicini per prendere le loro risorse, oppure le nostre popolazioni si estinguevano. Stiamo continuando a fare guerre ai vicini per prenderci le loro risorse (siamo


in Iraq per questo motivo, non crederete mica alla favoletta delle armi di distruzione di massa, no?) ma ormai resta più poco da rubare ai più deboli. L’economia è così forte rispetto all’ecologia che ora preferiamo coltivare i campi per fare carburante piuttosto che per produrre cibo. Il carburante costa più del cibo, e quindi conviene. Oppure vi vendiamo il cibo al prezzo del carburante, se proprio volete mangiare, ma se siete dei pezzenti… peggio per voi, dovete morire!
Lo so, il quadretto che ho dipinto non è dei migliori, anzi è proprio il peggiore che si potesse dipingere. La nave sta affondando, ci sono belle falle sia nell’ecologia (gli uragani, l’acidificazione degli oceani, la distruzione degli habitat, il riscaldamento globale) sia nell’economia (le truffe, i fallimenti, le bolle speculative e finanziarie) ma noi continuiamo a ballare al suono di un’orchestra che ci dice che tutto andrà bene. Chi dice il contrario è un disfattista, allarmista, pessimista. Non possiamo dire comunista, perché i paesi comunisti hanno perpetrato disastri ecologici ed economici senza precedenti nella storia, ignorando allegramente ogni dubbio sulla necessità di salvaguardare l’ambiente. Al comunismo reale dell’ambiente non importa nulla, in questo è proprio uguale al capitalismo.

Religione ecologica

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Non sono affatto religioso. Però vedo nei discorsi dei Papi una sensibilità nei confronti dell’ambiente che non ha riscontro in altre autorità di qualunque tipo, l’ho già detto, ma lo voglio ribadire.
L’Eden ci è stato donato perché lo coltivassimo e lo custodissimo, ma ci siamo dimenticati di custodirlo, pensando solo a coltivarlo. La natura si ribellerà. L’albero del frutto proibito rappresenta un limite all’uso delle risorse.
Queste frasi, questi concetti, sono sia di Giovanni Paolo II sia di Benedetto XVI. Forse Giovanni Paolo II un pochino comunista lo era, anche se è lui che ha contribuito più di ogni altro alla caduta del comunismo reale. Ma Benedetto XVI proprio non si può dire comunista. Entrambi, però, condannano l’avidità per i beni materiali (a volte suona strano in bocca a persone vestite d’oro, ma questi sono dettagli) e richiamano l’uomo alle sue responsabilità nei confronti del creato (è il modo con cui chiamano l’ambiente).
Non mi importa se non credo alle divinità che questi signori dicono di rappresentare in terra. So che molti si fidano di loro, e mi piace vedere che persone così influenti hanno capito, e vedono il mondo in un modo più spostato verso l’ecologia che verso l’economia.
Poi mi dico: ma sarà vero? Qualche casinetto il Vaticano lo ha combinato in campo economico. Il Banco Ambrosiano (la più importante banca privata italiana, se non ricordo male) e l’Istituto di Opere Religiose (per chi non lo sapesse questo pio nome è stato affibbiato ad una banca, quella del Vaticano) hanno condotto affari non proprio limpidi. Calvi e Sindona non possono più dir niente, e Marcinkus è passato a miglior vita, ma qualche dubbietto che abbiano fatto qualche porcheriuola rimane. Magari predicano bene e razzolano male.
Certo, il problema principale siamo noi, il nostro numero, e questi signori propongono il controllo delle nascite attraverso «metodi naturali». Funzionano benissimo i loro metodi. Falliscono solo una volta all’anno… ma non possiamo chiedere al Papa di distribuire preservativi o pillole anticoncezionali, no? Intanto ascoltiamolo nei suoi moniti contro la distruzione dell’ambiente. Ha ragione il sant’uomo. Ragione da vendere. Peccato che quando dice queste cose, comunque, non lo ascolti nessuno. La televisione dà la notizia in modo asettico, non ci sono dibattiti, non ci sono articoli di fondo. Niente. Se dice una frase sull’aborto o sulla fecondazione assistita, allora si scatena la bagarre. Ho visto che ci sono ancora «filosofi» (li metto tra virgolette per non offendere i filosofi) che discettano sulla validità della teoria dell’evoluzione biologica, mettendola in dubbio dall’alto delle loro grandi conoscenze. A duecento anni dalla nascita di Darwin stiamo ancora discutendo per decidere se la terra è piatta o se è rotonda. Ve lo dico io: è rotonda, e le specie evolvono in altre specie. I «filosofi», per perdere le virgolette, dovrebbero occuparsi un po’ più di ecologia. Lo so che ce ne sono, come Edgar Morin, ma ovviamente non bastano.
Queste voci, i Papi, i filosofi, gli scienziati, stanno gridando in


modo isolato e sconnesso lo stesso avvertimento: l’ecologia deve prevalere sull’economia. Forse, per riuscire davvero a contare qualcosa dovrebbero cominciare a cantare in coro.

Non vorrei essere frainteso. Non sto dicendo che l’economia è cattiva e l’ecologia è buona. Sto dicendo che «questa» economia non va bene. Ma le questioni economiche si possono risolvere solo con gli economisti. E quindi l’economia è importantissima. Però gli economisti, per essere buoni economisti, devono conoscere l’ecologia, la base di tutto. Poi, una volta conosciuta l’ecologia, possono provare a salvare il mondo che ci siamo costruiti e dove si starebbe così bene, se fossimo meno scemi.

L’ecologia non è un lusso

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Probabilmente uno dei problemi nei quali ci troviamo immersi nasce proprio da lì: dall’idea che quelle due parole, pur unite per la testa, tendano comunque a scappare in direzioni diverse non appena qualcuno provi a renderle altrettanto vicine in coda.
Da ciò, l’idea che l’ecologia abbia degli altissimi costi, che le scelte ecologiche abbiano un prezzo salato, che la filosofia ecologista si porti appresso un bagaglio di ripercussioni economiche che non sono alla portata di tutti. Esse sembrano non essere un peso per ogni spalla e per ogni tempo.
Essere ecologisti si può (si potrebbe), ma a patto di saper aspettare il momento giusto, la congiuntura giusta, l’economia giusta. Perché altrimenti il passo diventa troppo lungo, la battaglia controproducente e l’economia (sempre lei, giacché le priorità sono priorità) va in sofferenza: figurarsi quando le sofferenze dell’economia ci sono a prescindere, senza nemmeno che sia il peso dell’ecologia a creare sudori ed affanni.

In realtà le cose non sembrano stare così. E di questo sarebbe bene che anche gli ecologisti si rendessero conto sino in fondo, altrimenti le conseguenze non possono che essere disastrose e le scelte sempre obbligate. L’ecologia o, meglio, lo sviluppo ecologicamente sostenibile del nostro mondo, non è necessariamente gravata da costi superiori a quelli che siamo abituati a conteggiare e sopportare, senza controllarli, discuterli, criticarli.

Il falso problema della differenziata…

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È capitato spesso, ad esempio, di sentire negli scorsi anni (in realtà questo accadeva più spesso una ventina di anni fa, ma non è infrequente ascoltare ancora oggi gli stessi ragionamenti) argomentazioni anche raffinate sui presunti altissimi costi di una gestione più seria dei rifiuti, con una differenziazione più efficiente ed un recupero massiccio dei materiali. E soprattutto in realtà locali più piccole non era infrequente confrontarsi con amministratori (di ogni provenienza) alle prese con la solita e drammatica questione rifiuti, perplessi se non immobilizzati di fronte alla prospettiva di costi diversi da quelli a cui si era abituati in una iterativa ripetizione di metodologie e strategie di raccolta (e non solo) che ormai non erano più attuali in un mondo completamente diverso.
Di fronte alla impossibilità a comprendere il nuovo e gestirlo con maggiore oculatezza il refrain difensivistico era sempre lo stesso: la raccolta differenziata costa, con l’ovvia postilla che non sempre si è pronti (la gente!) a sopportare costi aggiuntivi in una economia in perenne difficoltà.
Il problema è che se poi si andava (e si va) ad analizzare bene i costi dell’intera filiera (dalla riduzione della produzione dei rifiuti al recupero dei materiali ed il minor impatto sul territorio, compresi i minori costi di conferimento in discarica, banalmente) si vedeva (ed ahimè si continua a vedere sin troppo bene) che la vera scelta antieconomica era continuare a fare ciò che si faceva, disperdendo risorse, energie, lavoro, danaro, senza differenziar nulla e senza recuperar nulla.
Il risultato è che, spessissimo, nelle stesse comunità locali quando si è deciso di fare il passo in avanti e provare a darsi regole più serie, più lungimiranti, più rigorose non solo si è prodotto un miglioramento ambientale assolutamente palese (e come tale apprezzato dagli stessi potenziali avversatori: cittadini e non più gente!) ma si sono realizzati ritorni economici a volte non indifferenti, rendendo visibile ed apprezzabile una coniugazione di ecologismo e risparmio: la vicenda dei mille ritorni economici per tanti inaspettati rimborsi Conai ai Comuni virtuosi a margine di riduzioni anche significative di costi per i conferimenti in discariche tradizionali più che nelle cronache della retorica ambientalista dovrebbe essere inserita nella riscrittura di una filosofia economica un po’ più agganciata a valori reali ed un po’ meno ad emotività di mercato.

…e delle piste ciclabili

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Così come si vorrebbe comprendere, per fare un altro esempio, quali spese aggiuntive possa comportare la scelta di rendere meno invasiva la presenza del traffico autoveicolare in grosse parti di città, con la scelta di privilegiare e favorire il traffico su mezzi pubblici o, meglio, leggero, similmente a quanto accade in mezza Europa. Forse che fare una, dieci, cento piste ciclabili costi più che rifare cento e cento volte le stesse strade secondo la stessa implacabile e pigra logica di banale ripetitività?
Produrre frutta e verdura meno inquinata da tossici chimici ha un costo maggiore di quanto già non si paghi per trattamenti il più delle volte irrazionali, spesso inutili, sicuramente sovrabbondanti?
E allora il problema reale non è che queste scelte (rifiuti da recuperare, territorio da riqualificare, alimentazione da sanificare, per fare solo tre esempi) hanno costi aggiuntivi e come tali proibitivi. Il vero filo comune di quelle ipotesi alternative sta nella necessità di immaginarsi una soluzione più complessa e comunque differente rispetto a quanto si sia abituati a fare. Meglio: di quanto oggi la politica sia abituata a fare.